Se non fosse per la perla vista solo due ore prima (ne parlo appena sotto) probabilmente Wind River sarebbe stato il mio miglior film visto al festival.
Opera seconda (ma non lo sembra) siamo nel territorio di quei drammatici travestiti da thriller, quei film di omicidi ed indagini che, però, riescono a dare più risalto al dolore, ai personaggi, ai dialoghi, alla profondità.
Trovo infatti che le cose migliori di questo gran bel film siano da ricercare nella perfetta caratterizzazione dei personaggi (quello di Renner è davvero splendido) e ai superbi dialoghi, secchi, essenziali, perfetti.
Siamo in una riserva indiana, quella che dà titolo al film.
Renner è un cacciatore di "predatori" (lupi, leoni etc...).
Tre anni prima ha perso sua figlia 16enne, in circostanze mai del tutto chiarite ma molto drammatiche.
In cerca di un leone trova un corpo sulla neve. E' di una ragazza del posto, nativa americana (del resto anche Renner era sposato a un' "indiana").
La sua esperienza nel ricercar le tracce unita ad una componente molto più umana (la morte di questa ragazza gli ricorda quella della figlia e, inoltre, conosce benissimo il padre di lei) lo portano ad aiutare in prima linea la bellissima agente dell'Fbi mandata per il caso.
Ne nasce un film col passo lento, un thriller che non ricerca colpi di scena ma è solo un lento avvicinarsi alla verità.
Location bellissime, una regia quadrata e non invadente, un plot rigoroso e inattaccabile, dialoghi perfetti.
E un grande senso della misura, del rispetto, del trattenuto. Come se fosse lo stesso film ad essere, più che "americano", "nativo americano", per come sa raccontare con garbo e basso profilo i dolori, il silenzio, per come sa parlare della vita (splendidi i dialoghi tra Renner e il padre della nuova vittima).
E sa gestire benissimo anche le scene più concitate e d'azione come tutta quella alla casa dei due fratelli drogati (splendida) o tutto il flash back della violenza nel caravan, scena introdotta superbamente con una porta che si apre, una porta che dal presente ci porta al passato.
Ma del resto il regista, Sheridan, è lo sceneggiatore di roba come Sicario...
E buffo ritrovare Renner caratterizzato ancora per una tuta (qui bianca da cacciatore) come fu nel bellissimo The Hurt Locker. In entrambi i casi questo corpo nascosto in un vestiario così più grande di lui, in entrambi i casi un uomo rigoroso e quasi costretto ad uccidere.
E splendida, in questo senso, è la risoluzione finale, con quella morte alla Kill Bill, con quella morte che doveva far rivivere a quel bastardo la sofferenza vissuta da Natalie.
Inutile dire che la parte più profonda del film sia quella riservata ai due padri (che buffo, raramente nel cinema si mette così in risalto il dolore dei padri rispetto a quello delle madri) e ho trovato in questo senso perfetta e prevedibile una fine che riguardasse loro.
Perchè il dolore deve essere sempre affrontato, sempre vissuto.
Perchè è l'unico modo in cui, col tempo, possa diventare ricordo salvifico.
Presenti spoiler dopo immagine, attenti!
Una perla.
Faccio fatica a trovare le parole per un film così, un'opera che in maniera sorprendente e quasi "nuova" riesce ad unire in modo così mirabile arte, senso estetico, dramma, metafora e profondità.
Eppure The Crescent parte come un semplice drammatico.
Una giovane ragazza ha perso da poco il marito e padre del loro piccolo bambino (di circa due anni).
Decide di isolarsi dal mondo per concentrarsi sul figlio e sul proprio dolore.
Sceglie di tornare alla casa di sua madre, isolata, vicino l'Oceano.
The Crescent parte con dei titoli fantastici, tutti incentrati sulla tecnica della marmorizzazione, una specie di pittura "bagnata" che crea degli effetti straordinari.
Sembra la classica trovata puramente estetica e che poi, col film, nulla c'entrerà.
Invece in quella tecnica pittorica, in quel mescolarsi di colori, in quel mondo d'acqua e non definito, sta tutto, letteralmente tutto, il significato del film.
Mamma e bimbo iniziano a sentire strani rumori. Molto spesso c'è un campanello che suona alla loro porta ma nessuno fuori. Il bambino (che è una cosa incredibile, da non crederci, quasi sovrumano far recitare in maniera così impressionante un duenne) a volte sembra notare cose che la madre non vede. In questo senso c'è una scena, bellissima, in cui lo vediamo giocare alla finestra. Sembra esserci qualcuno fuori, ma non vediamo nessuno.
E niente, poi in questo film accadrà letteralmente di tutto.
A livello estetico siamo su livelli incredibili, molto spesso al confine della video-arte. I "riquadri del ricordo" (che alla fine, come per Mommy, si allargheranno, ma con un significato molto diverso), le sequenze di marmorizzazione, le inquadrature del mare (quella sul finale che richiama i quadri di lei è da infarto), l'uomo pitturato (che portano a 3 minuti da estasi cinematografica), il montaggio velocissimo finale, ragazzi, sui siamo al confine della pura arte.
Ma The Crescent non è sola cura estetica, c'è molto di più.
Il film comincia a diventare sempre più cupo, sempre più spesso si inizia a parlare di vita e di morte, strane presenze si avvicinano alla casa.
Piano piano The Crescent diventa una specie di ghost story.
E già andrebbe bene così.
Ma niente, si andrà ancora oltre, molto oltre.
Iniziamo ad avere la forte sensazione che la realtà che vediamo non sia semplicemente la vera realtà. In questo senso e, visto il finale, la canzoncina che canterà da solo il bambino
"la vita è solo un sogno"
diventa struggente.
Lui, da solo nel lettone che canta questa nenia.
Ma prima avevamo avuto il suicidio di lei e poi la vera scena madre, quella del turning point, quella della telefonata del padre.
Quello "svegliati cazzo!".
Ho avuto i brividi.
In quel momento ho capito tutto e il fatto che l'ultima, superba mezz'ora, abbia solo confermato tutto quello che avevo già capito nulla cambia, anzi, l'effetto è stato ancora più potente.
Un mondo di mezzo, un mondo dove c'è gente che deve restar là e altra che può tornare.
E quel bimbo che a soli due anni aveva popolato quel mondo di tutte le poche immagini che la sua giovane vita gli avevano riservato, l'uomo-paguro ("i paguri cercano sempre una casa nuova" "a me non piacciono i paguri!") i dipinti della madre, le polaroid.
Qualcosa di talmente grande da non vederne i confini.
E poi quel mare, quel mare portale tra due mondi.
Ma prima del pazzesco montaggio finale abbiamo tutta la sequenza dell'incidente, tesa, ansiogena. Sappiamo che quel motoscafo finirà in quel lembo di terra, in quella falce, dove tante persone sono morte.
Non lo vedremo l'incidente, tutto si trasformerà, dopo un tonfo, in un altro quadro marmorizzato.
Perchè da lì in poi saremo nell'altro mondo, in quel mondo acquatico e confuso di colori.
Ma è tempo di tornare.
E quella confusione di colori diverrà tinta unita, la tinta della vita.
E quell'inquietante campanello inizierà ad avere un ritmo più veloce, il ritmo della vita.
E una mano piccolissima, la mano di un bambino che ha lottato come un uomo per la propria salvezza, quella mano stringerà un'altra mano, quella di chi stava aspettando.
Senza parole
8.5
La direttrice del TFF presenta questo film come sorprendente, come una tragedia comica o una commedia tragica, come qualcosa che richiama Woody Allen.
Ebbene.
Woody Allen si starà rivoltando, dovunque sia.
E questa direttrice va denunciata.
Perchè un non film di questo livello è un'offesa all'intelligenza di qualsiasi spettatore.
Il nulla che poi diventa nulla che poi diventa nulla.
Con un protagonista che fuma, contate, 56 sigarette (solo in una scena non ne fuma una).
Con l'unico turning point e, insieme, colpo di scena, che ad un certo punto dalla sigaretta passa alla pipa.
Da notare, in alcune inquadrature, la somiglianza dell'attore principale col nostro Zampaglione.
Forse anche il regista dovrebbe imparare dal vento.
Ma non a respirare.
A volarsene via.
Fori dai coglioni
4