Ieri ho visto due film per la Quarantena ma oggi non sono riuscito a scriverne.
E allora andiamo un'altra volta di archivio.
E peschiamo quella che, tutta assieme, è una delle opere più grandi degli ultimi 20 anni, la Trilogia sull'Essere Umano di Roy Andersson.
La grandezza di questi 3 film, il modo di girare di Andersson, il suo sguardo sulle nostre esistenze sono veramente qualcosa di grandioso e, sicuramente, unico nel suo genere.
Nelle 3 recensioni ho veramente parlato di decine di cose, pochi altri film mi hanno dato così tanti spunti.
Ve le rimetto in ordine di visione, non in quella dei film.
"Nei film di Andersson l'umanità e la società sono destinate a non andare avanti, a star ferme, a restare imbottigliate come imbottigliate sono quelle migliaia di persone ferme nel traffico della città.
L'umanità di Andersson o non ha più un futuro, o non sa dove andare o se sa dove andare è destinata a non riuscirci.
Forse però siamo ancora un passo oltre. Forse Andersson racconta addirittura L'Apocalisse umana, forse la fine c'è già stata e i suoi esangui e impotenti fantocci sono solo creature rimaste in un mondo già esploso"
L'umanità di Andersson o non ha più un futuro, o non sa dove andare o se sa dove andare è destinata a non riuscirci.
Forse però siamo ancora un passo oltre. Forse Andersson racconta addirittura L'Apocalisse umana, forse la fine c'è già stata e i suoi esangui e impotenti fantocci sono solo creature rimaste in un mondo già esploso"
Se ci si può innamorare di una donna con un solo sguardo, senza sapere nulla di lei e di tutti gli anni che ci sono dietro, così, un solo istante e ti innamori di lei senza sapere cosa nascondano i 20, 30, 40 anni che hanno preceduto quell'istante, se è possibile questo perchè non potersi innamorare di un regista allo stesso modo?
Solo che lo sguardo fugace che ti fa innamorare di un regista non lo ricerchi nei suoi occhi - come per la ragazza - ma in un'immagine, in un'inquadratura. Questi sono gli occhi del regista.
E così circa 4 mesi fa mi capita sotto l'occhio questa immagine:
ed è amore a prima vista. Quest'uomo bianco come la morte che guarda negli occhi un piccione appollaiato in un ramo, questo strano museo di scienze naturali, questa freddezza ambientale e situazionale eppure con una fortissima vitalità intellettiva dentro.
Il film vince Venezia ma a me non interessa. A me interessa sapere di chi sono quegli occhi e li scopro essere di un regista svedese di 70 anni di cui non avevo mai sentito parlare, Roy Andersson.
Che, a parte 1/2 lavoretti giovanili, nella sua carriera ha fatto solo 3 film, uno ogni 7 anni (2000, 2007, 2014). Non voglio sapere altro, aspetterò il momento giusto per vedere se quegli occhi che per un istante mi hanno saputo così stregare riusciranno a fare lo stesso se proverò a guardarli a lungo. Come quell'uomo e quel piccione.
L'occasione, quasi fortuita, arriva ieri.
Controllavo di nuovo la lista di MyMovies, quella che servirà poi al progetto streaming del blog e per sbaglio, ma veramente per sbaglio, leggo il nome di Andersson sotto la locandina di un film.
Non resisto un attimo.
Ed è stato fantastico accorgersi dopo due sole inquadrature che quegli occhi di cui ti eri innamorato sono proprio quelli che avevi visto in quel'istante, non era un gioco di luce strano o un tuo momento particolarmente debole quando accadde.
Andersson, l'ho capito dopo 20 secondi, è uno di quei registi che sa meglio raccontare la mia visione del mondo.
Un mondo che racconta di un'umanità eternamente depressa, malinconica, rassegnata, insoddisfatta.
Ma, ed è qui che io e il regista svedere facciamo veramente scopa, tutta questa insoddisfazione, questa malinconia e questa rassegnazione sono viste con un occho grottesco, divertito, brillante e, se lo analizziamo bene, nemmeno privo di speranza.
You, The Living è un film-non film quasi privo di struttura, costruito su scenette quasi autonome, su personaggi che a piacimento tornano o no, su legami tra gli stessi personaggi assolutamente sfuggenti.
E per rendere al meglio questo modo di raccontare Andersson usa quasi sempre inquadrature fisse, quasi sempre interni, quasi sempre fredde e statiche scene dove mettere in mostra il suo bestiario umano.
Non c'è una storia generale, non c'è nemmeno una storia singola portata a compimento, soltanto un album di vite disilluse. L'insoddisfazione è il tema principale, nessun personaggio è contento o soddisfatto della sua condizione. Non lo è la grassa signora che nessuno capisce, non lo è lo psichiatra, non lo è il signore che porta i fiori alla grassa signora, non lo è nessuno.
Tutto è freddo, anche le stesse stanze e il tempo, con quel temporale che imperversa, sembrano fare pendant con le esistenze raccontate. Non c'è mai un colore e quando c'è, probabilmente solo una volta, nella scena delle stoffe, è un colore che non si può vendere, perchè ne è stato tagliato un pezzo.
Non ci può essere colore in You, the Living.
Andersson sa che per raccontare il grottesco molte volte c'è bisogno anche del brutto.
E così il film è un campionario di persone brutte (ma non necessariamente brutte persone), inappetibili, indesiderabili, dalla carnagione chiarissima e dai tratti somatici tutt'altro che gradevoli (a parte la coppia di giovani).
Ho trovato richiami ai Monty Python, in questo umorismo nero ma brillantissimo, in questo tentativo divertito ma al tempo stesso malinconico e surreale di trovare un senso della vita.
Ma c'ho trovato qualcosa anche del miglior Fantozzi nostrano, in queste grigie esistenze, in queste vite insoddisfatte, in qualche gag che, a differenza di quelle di Ugo, tutte incentrate sul ritmo e sull'esasperazione, qua invece hanno il passo lentissimo della noia e della routine.
Noia e routine che sono perfettamente visibili in quel bar in cui nessuno fa nulla se non aspettare l'ultima ordinazione. L'ultima prima di chiudere, perchè domani comunque è un altro giorno dice il barista.