Ve l'avevo promesso ed eccoci qua, uno dei recap più esaustivi che potrete trovare in rete sull'ultimo TFF.
I miei amici hanno scritto così tante recensioni che abbiamo deciso di dividerle in due post (il prossimo arriverà entro un paio di giorni).
Più di 30 recensioni, più di 20 film, 5 "voci" diverse a raccontarli.
Ognuno col suo stile, la sua lunghezza, il suo approccio, la sua bontà o cattiveria.
Quindi grazie ad Alessio, Elena, Erika, Gaia e Riccardo (ordine alfabetico).
Per questa volta abbiamo deciso di dividere il post "a film" e non a recensore, cosicchè potete trovare comodamente pareri magari diversi sullo stesso film tutti vicini tra loro.
Buona lettura!
(ah, un grazie a Gianluca che impagina post così, tra foto, ricerche, e formattazioni io non ce la farei mai)
ROBOT DREAMS di Pablo Berger (Spagna, Francia)
ELENA PACCA
Ci vorrebbe un amico.
Come in Blancanieves, Pablo Berger dà voce alle sue storie zittendo i personaggi.
Un tenero sgargiante poetico ritratto della solitudine e delle possibilità.
In un mondo privo del genere umano, ma in tutto e per tutto simile - si legge persino Pet Sematary di Stephen King - gli animali abitano la Manhattan degli anni '80. In un florilegio di citazioni seguiamo la storia di Cane che vorrebbe avere un amico e non passare il tempo a mangiare schifezze sul divano facendo zapping compulsivo davanti alla tv. Ma proprio lì passa la pubblicità di un robot da costruire con tanto di istruzioni stile ikea. Robot, illuminerà la vita di Cane donandogli un'inaspettata e sorprendente felicità. Ma poi la vita, come quella degli umani, prende pieghe inaspettate, a volte indipendenti dalla nostra volontà e nonostante i nostri sforzi. In una rutilante e impegnativa sfida a trovare tutti i dettagli, i rimandi, le scritte, le insegne, le reclame, le inquadrature di riferimento che scorrono via velocissime, non perdiamo né la leggerezza né la profondità di ciò che vediamo. E la bellezza è il robot dalle sembianze umanoidi che sogna come noi. Che sente, soffre e trepida quanto noi. Finale struggente.
Do You Remember? Ba-dee-ya golden dreams were shiny days.
ALESSIO NENCIONI
Film di animazione del regista di Blancanieves, tratto da un fumetto di Sara Vanon.
DOG, un cane solitario di Manhattan, ordina un robot per farsi un amico nella New York degli anni '80.
Per una volta i robot invece di sognare pecore elettriche o distopie omicide, evocano immagini oniriche alla Mago di Oz. Forse questo dovremmo insegnare alle nostre intelligenze artificiali: sogni colorati sull’amicizia e sui sentimenti.
RICCARDO SIMONCINI
Un cane solo, senza amici, senza famiglia. Il sentimento disperato di avere qualcuno con cui condividere hot dog e videogiochi. Un robot che improvvisamente diventa l’amico più grande, il più umano in un mondo metropolitano di animali antropomorfi, tra polipi percussionisti, tori corrieri e maestre coccodrillo, dove i cani si chiamano Dog e i robot Robot appunto.
Con una dolcezza disarmante Pablo Berger realizza un’opera animata senza dialoghi fatta di linee spesse e pieni colorati, quello stile pulito e netto definito "linea chiara" e reso popolare da Hergé con le sue amatissime Avventure di Tintin. La linea dritta di una bocca disegnata che solo flettendosi può dare forma all’infinita variabilità delle espressioni emotive (e persino insegnare ad un uccellino a volare in una delle scene più toccanti del film).
Dopo un’accattivante pubblicità in televisione (“Cerchi un amico?”) Dog acquista un robot come animale metallico da compagnia, prodotto dalla Berger Corporation (riferimento ovviamente non casuale), snodato, flessibile, plastilineo, allungabile nello spazio e nelle emozioni, un Bender di Futurama al suo estremo opposto caratteriale. Quello che avveniva similmente nella finzione in live action del recente e umanissimo Brian e Charles, la storia di un’amicizia profonda quanto disperata, oltre che dispersa, tra un uomo depresso e un robot vivo, in quel caso assemblato con cianfrusaglie di casa, una lavatrice come torace e una testa di manichino come volto. Charles aveva una passione avida per il cavolo, Robot una curiosità infinita per il mondo, che riempie costantemente con il suo grande sorriso. Gelati in compagnia, pattinate nel verdissimo parco di Manhattan, il lento passeggiare romantico mano nella mano: sullo sfondo degli anni Ottanta il volto prima inespressivo di Dog si riaccende ora di felicità, in una danza sincronizzata di vitale musica (per noi) nostalgica.
Ma l’idillio tra Dog e Robot, la favola perfetta nell’immaginario antropomorfo del sogno americano dalle tinte canine, si confronta improvvisamente con la realtà più dura: il lento arrugginirsi del metallo splendente dopo che Robot si è buttato in un tuffo vorticoso e acrobatico nel mare dell’oceano, rimanendo così immobile con le giunture rigide e pesanti, sdraiato sulla spiaggia da quel giorno inaccessibile per la fine della stagione balneare. Inutili i criminali tentativi di Dog di violarla e liberarla, di oltrepassare i cancelli e il filo spinato che segnano l’inizio dell’inverno più rigido. Il tempo passa, a ritmo di malinconica musica jazz, e l’amicizia che sembrava indistruttibile inizia a vivere del suo sognare più che del suo essere, per la distanza, per l’inevitabile separazione. Robot impietrito sogna (ad occhi aperti) l’impossibile evadere dall’immobilità della sua ruggine, rompere con il possibile l’improbabile, in un vero e proprio compendio fantasmagorico di sogni, facendo insomma ciò che la realtà non gli consente più: danze con margherite, balzi olimpionici, assurdi incontri salvifici. Ogni sogno si conclude sempre con Robot che suona il citofono di Dog per ritrovarlo, ma poi si sveglia. “È solo un sogno” o meglio “purtroppo è solo un sogno”. Quei sogni di metallo caldo che riescono però a sopravvivere (e a far sopravvivere) anche al gelo più estremo. Ma anche le fiabe finiscono e la stagione degli incubi disillusi fa capolino sotto al cuscino. Con l’idea di diventare ancora più soli per non esserlo stati fino all’attimo prima, con lo stesso esito destabilizzante e nichilista del vuoto di Bojack Horseman, stessi animali antropomorfi che in una metropoli cinematografica perdono il senso dell’essere tali. Una metropoli, come tutte le metropoli, dove l’eccesso, la sovrappopolazione, la sovra-socializzazione arena corpi nel vuoto, senza permettere mai di conoscere davvero qualcuno. Una giungla di visioni e suoni, un arcobaleno di energia pop, dove si riesce però ancora e comunque a sentirsi soli e persi, persino quando si è insieme agli altri. Dove gli incontri svaniscono come le stagioni, gli amici si sciolgono o volano via, l’amarezza di un plurale divenuto singolare.
Lasciare andare, lasciarsi andare, perché la ruggine non attacchi anche il nostro cuore.
Distribuito a febbraio 2024 da I Wonder Pictures.
LINDA E IL POLLO di Chiara Malta e Sébastien Laudenbach (Italia, Francia)
ELENA PACCA
La forza della disubbidienza.
Dalla parte dei bambini. Uno slapstick in animazione: fughe rincorse, ritrovamenti. Un' insurrezione affettiva, durante gli scioperi a Parigi, in un presente atemporale. Un pretesto sentimentale che traccia e supera il confine di un'assenza. Il ricordo paterno è un percorso olfattivo che si farà gesto di compartecipazione comunitaria dove assaggiare il tempo e lo spazio condivisi attraverso una ricetta del cuore.
Un tratto scarno, una storia "disegnata male" che può inizialmente allontanare lo sguardo.
Poi il colore e le anime in movimento dei bambini, coriandoli monocromi colorati, hanno la meglio.
ALESSIO NENCIONI
Paulette promette a sua figlia Linda di cucinare del pollo ai peperoni, come faceva suo padre che non c’è più, ma a causa di uno sciopero generale, trovare un pollo sarà un’impresa non da poco.
Animazione raffinata che ci trasporta in un mondo d’infanzia sincero e poetico.
KUBI di Takeshi Kitano (Giappone)
ERICA BOLLA
In quella che, si vocifera, sarà la sua ultima regia, Takeshi Kitano mette in scena la sua versione dell'incidente di Honno-ji (tratta da un romanzo scritto da lui stesso nel 2019), un evento storico fondamentale per l'unificazione del Giappone verso la fine del secolo XVI. L'incidente vede la ribellione dei vassalli del daimyo Oda Nobunaga, in un complesso intrico di trame, alleanze, tradimenti e piani di conquista, narrati con occhio cinico e grottesco da Kitano, che si ritaglia anche il ruolo della "volpe" Toyotomi Hideyoshi; i personaggi in campo sono tantissimi e, per un occidentale non avvezzo alla storia giapponese, risulta piuttosto difficile rammentare ogni singolo nome e volto, ciò nonostante la visione di Kitano è universale e contrappone un codice d'onore tanto rigido quanto farlocco a una sorta di "praticità" contadina. Kubi (il collo o, se volete, la testa che viene spiccata dallo stesso con uno dei sanguinosissimi colpi di spada che abbondano nel film) viene identificato come il simbolo del potere, ma è qualcosa che viene ottenuto spesso con mera forza bruta o con colpi di fortuna, fragile come il corpo umano, appunto, non certo come emanazione di una natura divina o demoniaca, e Kitano sembra divertirsi un mondo a smontare le convinzioni dei suoi protagonisti e l'immagine idilliaca che lo spettatore ha di loro. Per lo stesso motivo, le battaglie girate dal regista hanno sì il respiro epico dei più famosi film di samurai, ma spesso le morti sono sporche, rozze e quasi comiche nella rapidità della loro esecuzione, e lo stesso vale per un finale (da applauso) che è l'apoteosi dell'anticlimax, troncato con un taglio netto quanto quello di una katana. Menzione speciale, ovviamente, per il cast spettacolare, che riunisce alcuni tra i migliori attori e caratteristi nipponici. Dovesse mai venire distribuito in Italia, il mio consiglio è quello di non perdere Kubi per nulla al mondo.
ALESSIO NENCIONI
In Kubi c’è tutto quello che ci si aspetta da un film di Kitano ambientato nel periodo feudale giapponese. Teste tagliate, personaggi schizzati, katane sguainate, spargimenti di sangue a profusione. Il tutto punteggiato da siparietti comici con protagonista il quasi ottantenne regista che sfoggia il suo proverbiale ghigno.
Se in kubi però cercate qualcos’altro, un guizzo o un’idea che sorprenda, allora resterete come me, delusi e confusi dai mille personaggi che alla fine vogliono solo ammazzarsi male a vicenda. Per qualcuno tanto basta.
SOLEILS ATIKAMEKW di Chloé Lariche (Canada)
La violenza dell'indifferenza.
Sogni e impressioni di una tragedia negata. E un'altrettanto negata giustizia a un popolo, ad alcune famiglie e a singole persone: madri padri fratelli sorelle mogli mariti figli amici. Un racconto potente e dolente che affossa le sue radici nel 1977 anno in cui muoiono, in un furgone inabissatosi nelle acque di un fiume in Quebec, apparentemente annegati, ma con ben altre tracce sui corpi, cinque giovani appartenenti alla comunità indigena degli Atikamekw.
La forza del film sta nei volti bellissimi, ora luminosi ora cupi, dei protagonisti. Nella naturalezza di movimento e di sguardo, nella profondità di un dolore vissuto prima come perdita, assenza, lutto e poi come sospetto, senso di colpa e frustrazione per ciò che viene spudoratamente omesso e volutamente tralasciato dalle autorità.
Se in Killers of the Flower Moon c'era un movente avidamente economico qui è più "banalmente", semplicemente razzista e prevaricatore.
Denso e poetico il tempo occupato da bambini e ragazzine, i loro dialoghi tra speranza, lucidità, concretezza e soltanto silenzio sono miracolosamente in equilibrio tra ragione e sentimento, accelerazioni e raccoglimento in momenti dove il nulla che accade si riappropria dello spazio dovuto grazie a una fotografia scrupolosa che evidenzia prospettive insolite senza il vizio dello stare addosso o del manierismo formale.
1977, cinque ragazzi della comunità Atikamekw (popolo indigeno del Quebec) sono trovati morti in un camion finito in un fiume. Nel tragico episodio, tutt’ora irrisolto, sono coinvolti anche due bianchi, unici sopravvissuti… la polizia non ritiene necessaria l’apertura di una indagare.
I primi quaranta minuti sono davvero efficaci, non senza un certo lirismo ci immergiamo nel lutto profondo di una comunità unita da un dolore sempre rispettato dalla regista canadese, ma anche amplificato dalla presenza insieme agli attori di alcuni parenti delle vittime. Una veglia funebre filmica, immersa in una dimensione sognante.
Purtroppo, il prolungarsi dei silenzi e delle lacrime alla fine appesantisce la visione e il senso extra cinematografico dell’opera ne esce danneggiato.