STEFANO DE ROSA
LES CHAMBRES ROUGES di Pascal Plante
Un piano sequenza lento, estenuante, ci porta in un aula di tribunale…c’è un silenzio assordante…vengono inquadrati i giurati… poi entra il giudice…avverte subito i presenti che le prove del processo sono eccezionali a causa della loro natura estremamente esplicita e violenta…“se qualcuno non è in grado di tollerarlo è meglio che si ritiri subito…”. Chiede all’imputato di alzarsi e di rispondere se si dichiara colpevole o innocente…interviene l’avvocato difensore: “il mio cliente si dichiara non colpevole”. La telecamera stacca su una giovane donna, che scopriremo poi essere la protagonista, seduta tra il pubblico. Riprende il piano sequenza mentre la parola passa alla PM che ci illustra il caso: tre ragazze tra i 13 e i 16 anni sono state brutalmente torturate e uccise in un garage…il tutto è stato filmato per essere venduto a un pubblico privato disposto a pagare enormi cifre per assistere allo “spettacolo” in diretta nelle cosiddette “Stanze rosse” del dark web. È poi il turno dell’avvocato difensore…mentre parla torniamo con un lento zoom in avanti sul bellissimo volto della protagonista…si intravede una lacrima scendere sulla sua guancia…
“uh che incipit!”
“degno di un gran film, tra le mie migliori visioni del 2023! Pellicola straordinaria del regista canadese Pascal Plante…di quelle che non si dimenticano!”
“bene! E di che parla? mi immagino scene a la “Martyrs”…dimmi che si vede cosa è successo nelle camere rosse!”
“no…ne vediamo solo il riflesso sul volto di lei (con la tonalità di rosso che diventa sempre più accesa…in una scena memorabile, che vale il film…) e soprattutto le sentiamo…forti, fortissime…”
“ah…ma almeno lei si vede nuda?”
“ehm…no…mi dispiace”
“peccato…ah ho capito è un legal thriller, pieno di colpi di scena”
“ehm…no…anche se la scena più potente…devastante…si svolge in aula”
“ma senti un po’ Stefano…ma allora di cosa parla questo film?”
“è la storia di Lady of Shalott che si convince di essere vittima di una maledizione, di essere destinata a morire non appena avrà guardato verso Camelot…”
“…”
ROBERTO FLAUTO
LES ANIMAUX ANONYMES di Baptiste Rouveure
Ti uccido come un cane.(R. Guiducci)
L'amore disinteressato per tutte le creature viventi è il più bell’attributo dell’uomo.(C. Darwin)
L’ordine è sovvertito. Il cervo impugna il fucile. L’uomo non ha nome, non ha verbo. La parola è assente, l’identità pertanto è estinta. Non esiste io se non nella possibilità della narrazione. Ciò che non può essere raccontato non esiste. Ma il fucile è carico, non solo di proiettili. Così come l’ascia, la cui lama stride sul pavimento, mentre il cane la trascina. Non ci sono parole, in Les Animaux Anonymes di Baptiste Rouveure, ma soltanto suoni, rumori, grida, lamenti, urla soffocate, cumuli di angoscia e sangue. L’ordine è sovvertito perché sono gli animali a fare l’uomo e l’uomo è animale. Il regista vuole raccontarci quanto siamo cattivi e spietati nei confronti degli animali, attraverso questo ribaltamento di ruoli. Allora c’è la mucca che spara alla nuca la donna che tenta di scappare dal mattatoio. Ci sono i cani che assistono al combattimento tra umani incitando i due a uccidersi. C’è l’orso che va a caccia. E c’è tanto grigio, sembra essere immersi in un autunno fuori dal tempo. Sembra esserci soltanto violenza. Pare l’unico filo della trama esistenziali di questa relazioni. Sarà che manca la parola, che è matrice di identità (e viceversa), perché è così: soltanto nella dimensione umana esiste la bellezza. Solo con sapiens è possibile la poesia, il meraviglioso, l’infinito. Solo questo strano animale che parla è capace di ogni cosa: di orrori indicibili e di splendori sconvolgenti. E le radici della nefandezza più atroce e della meraviglia più sublime risiedono nello stesso luogo: il cuore dell’uomo. Che è parola, che è un “io esisto” affermato senza sosta. Ma gli animali anonimi di Rouveure sono muti, o meglio: sono privi del verbo, che è e resto la genesi del mondo, di ogni mondo. E allora sì, è tutto vero: siamo colpevoli di omicidio. Siamo esseri brutali, e uccidiamo gli animali. Eppure, è altrettanto vero: siamo esseri meravigliosi. Siamo entrambe le cose, perché siamo umani. Se dunque l’intento del film è urlare forte la brutalità di cui l’uomo è capace nei confronti degli animali, ci riesce bene. Ma è una verità parziale. Perché il cervo spara senza esitazione – senza piacere e senza sensi di colpa. Noi, talvolta, esitiamo. Noi, sempre, facciamo i conti con il sangue che versiamo. Siamo gli unici animali che si pongono il problema di evitare la sofferenza agli animali (e, come ogni altro animale, siamo davvero bravi a procrearlo). E popoliamo di animali i nostri cieli: il teriomorfismo ha accompagnato ogni bacino dell’immaginario magico religioso (dalle grotte di Lascaux alla valle dell’Indo, da Horus a Atena, dall’alba dei tempi ai giorni mostri – spaventosi, perché il tempo passa e il fucile è carico). Sappiamo di essere colpevoli (proprio perché abbiamo il dono-condanna della parola), sappiamo di essere portatori di morte (eppure siamo indefessi dispensatori di vita). Tutto questo, tutto insieme, sempre. E allora va bene, certo, va bene sbattere in faccia all’uomo la sua brutalità (si pensi solo alle performance di Hermann Nitsch), è addirittura necessario. Ma si dica, al contempo, che il gioco è molto più complesso. Che non esistono pasti gratis (anche letteralmente). Non siamo cervi, non siamo cani, non siamo orsi: abbiamo un cuore gravido di mostri e poesia. Siamo eros e thanatos. Siamo portatori di vita, siamo dispensatori di morte. Abbiamo in noi la scintilla creatrice, che fa fiorire ogni cosa. Abbiamo in noi il germe della distruzione, che estingue ogni cosa. E il fatto che queste due dimensioni siano intimamente intrecciate, significandosi mutualmente, è forse la sintesi più corretta della condizione umana – qualunque cosa essa sia. Perché gli animali non sono anonimi, nemmeno per noi che li uccidiamo (non è vero: non siamo i soli a uccidere, è la strategia esistenziale di ogni essere vivente). Tutti hanno un nome. Tutti sono narrazione. Tutto esiste, incluso l’inesistente. Allora che fare? Sì, certo, il male è inestirpabile. E pensare di estinguerlo non solo è impossibile, ma nemmeno auspicabile. Tuttavia può e deve essere contenuto, ridotto al minimo. Questo è possibile, questo è auspicabile. Vale per il nostro modo di produrre cibo di derivazione animale e vale per qualunque aspetto della nostra vita. Il fucile, quindi, resta carico, e non è il cervo che lo impugna, perché l’ordine non è sovvertito. Perché gli animali non sono anonimi, perché tutto ha un nome, perché ogni cosa è viva e parla e canta e pulsa e dice sempre – con amore, poesia e guerra – “io esisto”.
RICCARDO SIMONCINI
ANHELL69 di Theo Montoya
Una storia di giovani ragazzi che cercano un futuro, o che forse si sono rassegnati a non cercarlo più, in un Paese come la Colombia che vive ancora aspettandolo disperatamente, perché lì il futuro non esiste, non è mai morto e non è mai nato, tra le promesse politiche di una pace che tarda ad arrivare e il quotidiano manifestarsi di una violenza scellerata. Una storia di fantasmi, insomma. Di giovani angeli che vivono in un inferno di desideri, con il sogno rassegnato di cambiare ancora il mondo, perché da sé quel mondo proprio non vuole cambiare. Spettri di una gioventù bruciata dalla violenza e dalla morte. Una generazione cresciuta dalle madri, perché i padri, in un modo nell’altro, si sono uniti all’altro Padre: Pablo Escobar. Perché Medellín, come viene detto, è “la Mecca degli omosessuali, ma anche la Mecca di Pablo Escobar”, metropoli senza orizzonte, dove le luci stroboscopiche delle discoteche illuminano ad intermittenza anche i sogni occasionali come i rapporti sessuali, l’utopia di poter diventare adulti in un paese che invece sembra non essere mai cresciuto.
Come in Bella e Perduta di Pietro Marcello, la finzione contamina la realtà, la morte condiziona la vita. In Marcello era la morte del custode della Reggia ad innescare la ricerca di Pulcinella per decidere il destino del bufalotto Sarchiapone, in questo caso è la morte (forse neanche così inaspettata) del ventenne attore protagonista del nuovo film del regista, a una settimana dal casting in cui era stato scelto (ma morto così precocemente da non averlo neanche saputo). Diventato fantasma più nella realtà che nella finzione, la sua anima libera gravita tra le strade sanguinose della notte abissale di Medellín, un cimitero all’aria aperta, di spigolosi angoli desolati di giovani dispersi o più spesso ritrovati ammazzati. Perché la morte non è nell’aria, è l’aria stessa. La polvere dei cadaveri, il rantolo che contiene tutti i respiri mancati.
“La morte è il più grande premio di questa vita” dice uno dei ragazzi.
“Sono morto. Sono morto molte volte e in molti modi in questa città” dice il regista.
Un film senza confini, senza generi, un film “trans”. Un documentario che è una testimonianza, un atto di protesta, di ribellione, di libertà. Un canto funebre, fluido come l’essenza queer, libero in un Paese senza libertà. La rivoluzione spettrofilica. Perché in quel mondo di occhi infuocati come nel miglior Apichatpong Weerasethakul persino sognare è illusione, perché l’incubo della violenza esiste e persiste anche senza dormire, coincide con il presente quotidiano in cui i giovani partecipano più ai funerali dei loro amici che alle loro feste di compleanno.
Ma ancora si spera un giorno di possedere una casa, senza pareti, senza finestre, senza mobili.
Con esseri viventi, animali, insetti, amici.
Senza violenza, con la libertà.
Senza vita, con la morte.
Fantasmi.
“Mi innamorai del cinema perché era l’unico luogo dove potevo piangere”.
MARCO BAGARELLA
A SIBILA di Eduardo Brito
Piccolo clamoroso film portoghese, algido come un racconto (im)morale e fastidioso quanto il ritratto esasperato dell'avidità umana. Soprattutto, in questi tempi grami, bella scoppola a chi insegue la guerra al patriarcato dopo essere uscito da una sala cinematografica ed aver abboccato all'ultima moda.
Se siete per un 'cinema pop corn', questa mini-recensione non fa per voi. Non per nulla a scrivere la sceneggiatura di "A sibila" c'è Augustina Bessa-Luìs, magica penna del cinema del maestro De Oliveira e fautrice di quel bellissimo approccio autoriale della giovane regista Rita Azavedo Gomes.
Una storia in cui gli uomini affondano nella maternità dell'epoca, in cui la guerra declina nella volontà tutta e solo femminile di augurare riparo all'orrore, o come in quest'opera di Brito, essi risultano essere figure secondarie, viscide, inutili e poco scaltre dinnanzi alla forza cosmica della donna. Una sanità muliebre che prende in mano la materia della vita, la esalta e porta la stessa cupidigia a cifra che legge l'intero mistero dell'essere umano. Un matriarcato 'di forma e di sostanza' che governa, da sempre forse, il mondo. Ma una femminilità diversificata, ricca di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, di perdizione e di riscatto. Mai futilmente scellerata come lo è il presunto dominio del maschio...
"Il genio di Quina non si era ancora spento. Continuava ad amare i soldi e la terra con ardente bramosìa e immutabile astuzia. Ma Germa capì rapidamente che aveva perso terreno su quell'anima e che, tra lei e Quina, esisteva oramai una barriera che doveva oltrepassare.
"Un film da vedere assolutamente!
FRANCO CAPPUCCIO
GUSH di Fox Maxy
Video diario furiosamente montato, tagliato e avvitato che abbraccia un decennio, Gush è uno spruzzo arterioso di clip sulla ricerca di compagnia, sul mantenimento di canali secondari di pettegolezzo e sull'impegno in cerimonie e celebrazioni come strategie per sopravvivere alla violenza delle relazioni e dell'industria cinematografica. Una logica da videogioco permea il suo montaggio, esternando gli stati fisici ed emotivi interiori attraverso GIF stock e animazioni di scheletri, pezzi di viscere, scie di sangue e spirali che lampeggiano sullo schermo come effetti che mostrano personaggi di videogioco che guariscono o subiscono danni. Il nome di ogni canzone e remix presente nel film è incluso nelle didascalie, insieme a testi e descrizioni del suono. Le didascalie contengono anche tocchi poco ortodossi come abbreviazioni, termini gergali o simboli al posto delle parole, che completano la sperimentazione visiva dell’opera.
ROBERTO FLAUTO
ALL YOU CAN EAT BOUDDHA di Ian Lagarde
Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.(Gv 6:53)
L’oceano accarezza la terra. Si frange lentamente sulla riva. Il rumore cadenzato delle onde culla il mondo. Un sonoro inquietante accompagna alcune figure che si stagliano sullo schermo. L’oceano è sempre lì a comporre le sue liriche. Siamo su un’isola. C’è un resort di lusso. Arrivano i turisti. Tra loro c’è un uomo sovrappeso, trasandato, di cui non sappiamo nulla. Si chiama Mike. Non lo lasceremo mai. Fin da subito, esercita una magnetica e inspiegabile attrazione sul personale della struttura e sugli ospiti. Più che i divertimenti offerti dal resort, sembra essere cercare altro. Forse un limbo, un vuoto, una sospensione. Osserva il mare che è già oceano. Parla poco. Mangia in eccesso, non sembra mai sazio. Tutti lo osservano con ammirazione. Una mattina, passeggiando sulla riva, incontra un polpo gigante arenato sulla battigia. Il polpo gli parla – con una voce suadente e calda – e gli sussurra delle misteriose profezie, rivelazioni che l’uomo accoglie con il suo solito indecifrabile silenzio. Poi il polpo affonda e sparisce nelle profondità oceaniche. “Che la tua voce risuoni. Che il tuo sguardo attragga. Che il tuo cuore illumini. Che la tua mente si emozioni. Che il tuo sesso si erga”. Mike sviluppa poteri taumaturgici. Sussurra inudibili parole di vita, affiora in lui la scintilla creatrice. Gli ospiti e il personale tutto vedono in lui una presenza divina, una manifestazione dell’infinito. E mentre tutti lo idolatrano, lui comincia ad autodistruggersi: abbandona le medicine per curare il diabete e mangia in continuazione, in maniera compulsiva. E più il suo corpo si deteriora, più il villaggio e l’isola sprofondano in un caotico degrado. Il suo corpo va in cancrena, e una tempesta attiva sull’isola, ormai abitata soltanto da pochi membri del personale. Il mondo intero sembra essere in attesa del verbo di Mike, e lui una notte, nella sua ultima notte, cammina nudo, trascinando un corpo ormai morto e giunto a riva, come il polpo, anche lui entra in acqua e si inabissa nell’oceano. Da questo sacrificio, tutto torna in fiore.
RICCARDO SIMONCINI
ÁRNI di Dorka Vermes
L'oscurità investe la notte. Lentamente si fa largo qualche piccola luce in lontananza, prima una, poi decine. Nel vuoto desolante della periferia è arrivato il circo. Così inizia Árni, esordio ungherese prodotto nell’ambito di Biennale College Cinema, con una comparsa silenziosa nel cuore del buio e del nulla, quando tutti dormono e nessuno se ne rende conto, in un rito di passaggio invisibile quanto pregnante, tra roulotte di lamiere e catini d'acqua in cui lavarsi. Un mondo fantasmagorico in rovina, che non ha pubblico, non vende snack, né foto e souvenir, i cui padri fondatori si aggirano come anziani fantasmi malati e malandati tra pastiglie e infusi, in mezzo ai tendoni che sembrano più le lapidi colorate del tempo acrobatico che fu. Persino il cibo diventa concessione e non diritto, ricompensa o sua più probabile punizione. Non c’è più nulla dell’artificio illusionistico di Nightmare Alley – La fiera delle illusioni, sono rimasti solo le bestie e i mostri di Freaks Out, in declino polipatologico e policronico, randagi che si aggirano nella notte cercando disperatamente rifiuti con cui scaldarsi.
Ma tutto cambia quando un giorno arriva un pitone, troppo grande per essere addestrato, troppo diverso da tutti quegli altri animali ammaestrati ingabbiati e sofferenti. Per il giovane Árni, gracile, dai capelli lunghi e il naso aquilino, che nel circo famigliare è un silenzioso e passivo tuttofare, quel rettile si trasforma nell’opportunità di sognare ancora di addomesticare qualcosa, creare un legame autentico e irripetibile con la vita pulsante, quell’apprivoisé del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry per cui “io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.” Un serpente che tutti temono per le sue dimensioni impressionanti ma che fornisce ad Árni una via di fuga dalla ripetitiva vita itinerante, dal tracollo inesorabile della solitudine senza futuro, appiglio forse per trovare un contatto fisico stretto, stringente, un abbraccio caldo impossibile, affiatato per un tempo altrimenti asfissiato. Árni ci si fascia le gambe, le braccia, lo accarezza e nudo dorme vicino a lui. Una connessione spirituale, viscerale, primordiale (e non arcaica - a differenza della famiglia circense di cui fa parte) simile per certi versi a quella stabilita con il mostro carnale di Amat Escalante de La región salvaje, che, nascosto anche in quel caso in un luogo inaccessibile, permetteva di salvarsi e di ritrovare l’ultimo frammento più remoto e vulnerabile di se stessi.
Con uno stile percettivo che ha tanto del cinema esperienziale di Carlos Reygadas, quest'opera prima prende lo spettatore con i suoi tocchi carezzevoli persino quando martella un piccone o issa il tendone per lo spettacolo. Sopravvive empatica tra i rifiuti di umanità, proprio a fianco alla discarica in cui il circo realizza le sue fallimentari rappresentazioni. E così uscire dal tendone, uscire nella foresta, selvaggia tra i selvaggi, umana tra i non-umani.
MARCO BAGARELLA
CERRAR LOS OYOS di Victor Erice
Carramba che sorpresa! L’autore spagnolo sicuramente più parsimonioso di tutti i tempi e, forse, il più coerente per poetica e tecnica narrativa (il suo ultimo ‘vero’ film è del 1992), torna a noi con una sorta di lineare groviglio di rimandi e transfert. La storia è un piccolo gioiello. L’ex-regista Miguel Garay, che ha dovuto abbandonare il set nel bel mezzo della sua opera più attesa (“La mirada del adios”, di cui, all’inizio ed alla fine del film, vediamo le scene più toccanti), viene di nuovo a dover fare i conti con la causa della sua defezione artistica; l’attore Julio Arenas, amico suo di sempre e suo alter-ego, misteriosamente scomparso dalle riprese de “La mirada” e di cui più nulla si sa, viene ricercato da una trasmissione televisiva che si occupa di casi irrisolti. E’ fuggito volontariamente dalla vita sociale e dai suoi affetti? Si è suicidato? O è stato assassinato da un marito geloso?
Tutte le ipotesi sembrano affastellarsi nella mente del disincantato Garay, certo che nulla potrà riportarlo al centro dell’enigma che ha stravolto la sua vita professionale (ora vive facendo il traduttore di testi di narrativa, sta dentro ad una roulotte e arrotonda il mensile aiutando un pescatore). Ma deve ricredersi quando l’amico viene ritrovato all’interno di una casa di riposo. Smemorato. Paradossalmente, portando con sé il ricordo di tutto e di tutti i personaggi della loro esistenza. “Non conoscevamo le sue radici, ma ora sì. Sappiamo il suo vero nome.”, dice un neurologo a Garay, che replica con arguzia e dolore: “E cos’è un nome?”
.Film lungo, avvolgente e limpido come un fiume che va a morire tra le acque di un mare profondo e tempestoso, “Cerrar los oyos” è un mirabile canto che oscilla tra memoria e coscienza, e ci mette di fronte ad una verità che nessuno di noi vuole più vedere, ‘chiudendo gli occhi’ appunto. Un corpo senescente ha ancora l’anima vitale. Il mondo, ci chiediamo? Sì, certo, Erice parte dal mondo, ma è il cinema che indica. Basta aprire lo sguardo su di esso e riconoscere ogni cosa…
FRANCO CAPPUCCIO
THE HUMAN SURGE 3 di Eduardo Williams
Un senso di libertà guida le bizzarrie in giro per il mondo di The Human Surge 3, l'atteso seguito di Eduardo Williams al suo documentario sperimentale del 2016, The Human Surge (che salta la seconda parte per satireggiare la cinematografia commerciale che fa da sequel). Nel primo capitolo, l'inquieta macchina da presa di Williams seguiva giovani fannulloni in Argentina, Mozambico e Filippine, cambiando formato video man mano che i personaggi e i luoghi cambiavano senza la consueta segnaletica. Questa fluidità è aumentata di parecchie tacche in The Human Surge 3, che si sposta in modo disorientante tra le tre location - Perù, Sri Lanka e Taiwan - riunendo i ventenni di tutti e tre i luoghi in un mega gruppo di amici itinerante e multilingue. Se le tecnologie di proiezione dei blockbuster cinematografici - 3D, IMAX, ecc. - promettono un'esperienza più realistica, l'uso di una telecamera a 360 gradi da parte di Williams in The Human Surge 3 fa l'opposto: la prospettiva convessa si avvicina alle visioni di Google Earth, con i personaggi visibili solo in modo distante e sfocato nell'ambiente circostante. Ma piuttosto che funzionare come una forza di sorveglianza repressiva, questo sguardo artificiale è uno strumento di liberazione, che crea un regno senza confini e ricco di potenziale eccitante.
RICCARDO SIMONCINI
NOTRE CORPS di Claire Simon
Un’immersione a pieni polmoni in un ospedale pubblico ginecologico di Parigi, in cui ogni paziente, o meglio ogni donna, o meglio ogni corpo di donna da titolo arriva in clinica con la sua storia, in quell’enorme “valzer folle dei destini”, sospeso tra nuove diagnosi, nuove vite e altre che arrivano alla loro fine. Ma è anche un enorme valzer di esseri umani, di tutte le origini e i ceti sociali, di volti che si vuole ancora vedere sotto le anonime mascherine, di mani dolcissime di dottoresse che accarezzano quelle fragili delle loro pazienti. Perché come già diceva Ippocrate, padre greco antico della medicina come la conosciamo oggi, “è più importante sapere che tipo di persona abbia una malattia che sapere che tipo di malattia abbia una persona”. Un ciclo che dalla giovinezza arriva all’anzianità, dall’inizio alla fine, tutte le tappe di un’esistenza, tra nascite, aborti, tumori, fecondazioni assistite e transizioni di genere. Il tempo scorre come nel miglior Wiseman, non lento, ma immersivo, osservazionale. La vita si compie tra i luoghi della società, della comunità, in senso lato dell’uomo, fatta dagli uomini (o meglio in questo caso dalle donne), e per questo tremendamente meravigliosa persino nei suoi aspetti più tragici. Ma dove Wiseman è interessato alle istituzioni, Claire Simon indaga l'architettura delle emozioni e del sentire empatico, tra le pareti spoglie tra cui però ci si sente ancora al caldo. La fredda anamnesi diventa infatti dialogo e conversazione, più spesso intima confidenza, dove “la priorità qui è lei”, la paziente, la donna.
In quel corpo, seppur malato, il desiderio delle donne di riavere la propria femminilità supera la malattia che la vorrebbe negata, mutata, trasformata, e supera le percentuali e le statistiche che vorrebbero imprigionarla a semplici fasce d’età (perché spesso per una gravidanza intrapresa dopo i 40 anni c’è solo un amore trovato tardi). E così allo stesso modo l’empatia delicata come una carezza supera le barriere linguistiche e sociali, diviene in sé lingua universale degli uomini.
Partendo da un incipit in prima persona in cui la stessa regista ne racconta la genesi, Claire Simon compie con questo meraviglioso documentario di 3 ore una scelta più umana che registica, avvicinarsi a quelle donne con il suo vissuto prima che con la macchina di presa, senza retorica e senza pietistici manierismi che ne forzino l’emozione. Un approccio alla medicina come scienza umana, in cui il corpo non è solo carne, e la sua alterazione non è solo malattia, non è solo un processo patologico che lo cambia, ma anche un ostacolo alla propria mente, ai propri rapporti, al proprio lavoro, alla propria femminilità in toto.
Il nostro corpo. Perché nostra è innanzitutto la storia che ci portiamo dentro. Nostre sono le paure, di tutte le donne che temono un giorno di essere lì, che tocchi loro, che tocchi noi, osservatrici divenute pazienti svuotate nel corpo della propria femminilità. Nostro perché richiede il nostro consenso e la nostra approvazione, per qualsiasi visita o trattamento. Nostro, cioè, non come aggettivo possessivo universale, perché non ci appartiene il corpo degli altri. E mai come in questo momento storico dovremmo capire appunto che quel nostro si riferisce a chi il corpo lo fa pulsare e respirare, chi ne subisce i dolori e i traumi, il peso di uno sguardo maschile che lo vorrebbe sottrarre alla sua leggerezza, non a chi crede di poterlo fermare come si arresta una macchina a fine lavoro. Perché la responsabilità quella invece si è nostra, di tutti.
MARCO BAGARELLA
INSIDE THE YELLOW COCOON SHELL di Thien An Pham
Un nome nuovo si iscrive nel ristretto e poco ambito club dei ‘cineasti dello sguardo’. Il giovane vietnamita Thien An Pham esordisce con uno stordente poema contemplativo che, con tutte le eccezioni del caso, lo avvicina allo sfortunato Hu Bo ed al più aggressivo Bi Gan. Se “An elephant sitting still” e “Kaili blues” erano comunque opere prime rette da una forte tensione visiva, da una volontà di viaggio ribelle che fluiva verso un punto di ricomposizione, qui siamo in presenza di un silenzio dell’anima che invece dubita di perdersi e non ci solleva dal restare attoniti spettatori.
Spettatori, peraltro, estenuati da tre ore di piani-sequenza (alcuni magistrali, altri un po’ meno), di lente panoramiche che scoprono ed interrogano oggetti e scenografie (umane e naturali) apparentemente immobili, di dialoghi che danno a volte l’idea di avere a che fare con chimere e macchie indefinibili.
Thien (come in Bo e Gan, ci sarà forse collimare autobiografico tra autore e personaggio principale?) è un giovane urbano che vive l’apatica esistenza della sua generazione, ed a cui tutto l’ordine del suo quotidiano cambia di colpo con un incidente che gli porta via la cognata e gli lascia in consegna le sorti del piccolo nipote, Dao. Difronte alla mancanza (del padre di Dao, Tam, misteriosamente irreperibile in una remota regione agricola e che nel finale del film viene disperatamente ricercato), al lutto (della madre del piccolo, Hanh, perita nella disgrazia), crescono le mille domande dell’uomo sulla terra. Fede, eredità, futuro, amore, saggezza, magia della vita. Un tragitto che costringe lo stesso Thien a riconoscersi orfano di molte più cose di quanto sia orfano di madre e padre, suo nipote Dao. Una esplorazione in una terra di nessuno che non può lasciare indifferente lo spettatore certo che verrà alla fine ricambiato di tanta pazienza.
“Cos’è la fede, zio?”, “La fede la cerco anch’io”, “Qual’è la sua forma?”, “Non ha forma, la fede è come quando presti una cosa ad un amico e sei sicuro che ti verrà restituita.”. Ecco, appunto...
FRANCO CAPPUCCIO
ABOUT THIRTY di Martín Shanly
Je t'aime, je t’aime - Anatomia di un suicidio (1968) di Alain Resnais è stato spostato in chiave di una commedia fannullona: questo è l'improbabile risultato di About Thirty, la superba opera seconda del regista argentino Martín Shanly. Ancorato al marzo 2020, poco prima della prima ondata di COVID-19, il film segue inizialmente il suo protagonista, il trentenne Arturo, mentre naviga tra le imbarazzanti esigenze sociali del matrimonio di un amico, per poi lasciarci cadere in episodi frammentari dell'ultimo decennio della sua vita. Il grande piacere del film risiede nell'uso che Shanly fa dell'indirezione strutturale per trasformare un materiale altrimenti familiare, che permette all'umorismo piacevole per il pubblico di coesistere con un audace gioco formale. Dato che la produzione del film è stata fortemente rallentata dalla pandemia e che Shanly stesso interpreta il protagonista, si è tentati di leggere la sua cronologia confusa come un tentativo autofinzionale di catturare l'incertezza e il caos del periodo. D'altra parte, la sua coda suggerisce in ultima analisi che, di fronte alle molteplici pressioni della realtà, la struttura serve a far fronte, non a copiare.