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26.2.24

Recensione: "La zona d'interesse" - Cinema 2024

 

Si abusa - io per primo - dell'aggettivo "importante" quando si parla di alcuni film.
Eppure in questo caso è impossibile discostarsene, La zona d'interesse è un film troppo importante.
Perchè attraverso una storia e una regia pulite, geometriche e perfette - come pulita, geometrica e perfetta è la vita che vive la famiglia del gerarca nazista a fianco - appena un muro li divide - dall'orrore dei campi di Auschwitz - in realtà riesce a raccontare talmente tante cose e a suscitare talmente tante metafore e suggestioni da far quasi spavento.
E a raccontare l'oggi ancora più dello ieri.
Un film sull'indifferenza all'orrore, sull'alienazione, sul far finta di non sentire il brusio.
Brusio che, invece, per chi vuol sentire, è rimbombo e frastuono.


Ho pensato per quasi tutto il film che quello che stavamo vedendo fosse la Germania.
Ma non la Germania di allora ma quella di adesso, o meglio qualsiasi Germania esistita da dopo il 1945 a finchè questo mondo andrà ancora avanti.
La metafora era troppo forte.
Un muro a dividere due cose.
Nel film sono da una parte la villetta con immenso giardino del gerarca con famiglia e dall'altra il campo di sterminio di Auschwitz.
Nella mia metafora, invece, da una parte del muro c'è la Germania del presente e dall'altra il suo passato.
Perchè è così, qualsiasi cosa faccia questa nazione, qualsiasi cosa faccia un tedesco, da qualche parte della sua testa, al di là di un muro immaginario, c'è quello che questa nazione è stata in quegli anni.
Si divertono, stanno con la loro famiglia, fanno film, sono potenti, vivono in maniera normale ma quel muro c'è, loro lo sanno, e anche se hanno paura di arrampicarsi e vedere quello che c'è dall'altra parte, nel sovrappensiero l'altra parte c'è sempre.
Sempre.
E quel sovrappensiero nel film sono rumori, sono urla, sono colpi di pistola, sono pianti, sono carri armati che si muovono, sono forni che bruciano.
Qualcosa che è lì perennemente nella nostra testa ma che o per empietà o per indifferenza o per non impazzire proviamo a non percepire, a non sentire, a non farci caso.
In questo senso bellissimo ripensare che anche l'altro grande film sull'Olocausto di questi nostri ultimi tempi, Il figlio di Saul, usava questa tecnica del "fuori campo", del non visibile.
Ma se lì l'orrore era nascosto nel fuori fuoco qua è proprio nascosto del tutto, coperto da un muro di cinta.
Poi ho pensato che questo discorso, alla fine, potevamo ampliarlo a qualsiasi nazione, a qualsiasi essere umano, perchè quel passato alla fine riguarda tutti noi, è una macchia che ha sporcato l'intero genere umano, e dare tutto il peso ai soli tedeschi è pura ipocrisia.
Da questa parte del muro, quindi, ci siamo tutti noi e il nostro presente, dall'altra quel passato in qualche modo comune a tutti.
Un passato ben nascosto ai nostri occhi e ai nostri pensieri.
Ma a 5 metri da noi.
Poi, come se avessi avuto davanti delle matrioske e le stessi usando in modo contrario al consueto -ovvero dalla più piccola alla più grande - ho pensato che la metafora potesse diventare ancora più ampia, allargarsi ancora di più fino a diventare completamente esistenziale.
E che questo importantissimo film non racconti quindi il nostro rapporto con l'Olocausto, ma il nostro rapporto con qualsiasi atrocità cerchiamo di non vedere, non affrontare o dimenticare.
Da una parte, quella della villetta, ci siamo noi che ci raccontiamo di star bene, che il mondo sia bello, che le cazzate che facciamo ogni giorno siano importanti, noi che pensiamo quasi esclusivamente a noi stessi e chi ci sta vicino.
Dall'altra tutti gli orrori del mondo, le guerre, le atrocità, gli esseri umani che muoiono di fame, i bambini privati della loro infanzia e tutto quello che volete metterci.
Da un lato noi che, forse per non impazzire, cerchiamo di curare il nostro giardino, amare i nostri figli e accarezzare i nostri cani, limitare insomma il nostro interesse in quella sola nostra zona, appoggiandoci al titolo del film.
Dall'altra tutti gli orrori del mondo.
Alcuni di noi quel muro, in realtà, lo attraversano spesso, anzi, qualcuno decide addirittura di dedicare la propria vita al di là di quel muro.
Ma quasi tutti gli altri, un buon 90% - io in primis - preferiamo stare di qua.

Potremmo ancora aggiungere un quarto grado di lettura, ovvero immaginare che di là del muro ci sia la nostra parte oscura, e per nostra intendo proprio quella che ognuno di noi ha singolarmente di sè, i nostri traumi, le nostre zone oscure, i lati peggiori di noi, ma mi fermo qua.


Credo che questo film resterà nella piccola o grande storia del genere.
Non so nemmeno quanto sia bello - e bello lo è - ma come importanza e potenza ha pochi eguali.
Forse, giocando con le parole, La Zona d'interesse è più bello per quello che rappresenta che per le cose che vengono rappresentate.
Ma non perchè pecchi nei significanti, assolutamente, ma perchè come significato è gigantesco e, per quanto mi riguarda, diventerà uno di quei film "esempio" ai quali ogni tanto riferirsi.
Si comincia con uno schermo nero di lunghissima durata, quasi un momento di riflessione e preparazione a quello che vedremo dopo.
Saranno addirittura 3 i momenti a "tinta unita" del film visto che oltre questo nero iniziala ne avremo uno di completo bianco - quasi accecante - e uno di completo rosso, tra l'altro, quest'ultimi due, di eccezionale intensità ed emozione per come arrivano.
Poi vediamo la famiglia in riva al lago, un luogo al contempo vicinissimo ma lontanissimo dall'orrore.
Se ci pensate già in questi primi 5 minuti capiremo quanto il sonoro in questo film - come raramente mi è capitato in vita di vedere - sia l'assoluto protagonista del film.
Perchè passiamo dal silenzio assoluto intervallato dal canto delle cicale (rumore di serenità per eccellenza) a quel quasi impercettibile ma disumano brusio che ci accompagnerà per tutto il resto del film.
Un brusio, come detto prima, che è crasi e compresenza di urla, pianti, spari, forni che bruciano.
Un brusio, termine italiano che indica una cosa lieve, che è invece un rimbombo, un frastuono - termine opposto - se solo lo si vuole ascoltare.
E rimbombo, frastuono, lo è di per certo per noi spettatori.
Ma per i protagonisti del film non esiste nemmeno il brusio - mai ne fanno menzione - ma la loro vita è identica a quella in riva al lago, una vita ideale, serena, pervasa dal silenzio, senza problemi, senza affanni, senza niente che turbi.
Non è un caso che l'unica persona che invece quel brusio lo sentirà e l'unica persona che vorrà anche vedere al di là del muro (in quella scena magnifica di forni brucianti di notte, alla finestra in camera) ossia la nonna.
Perchè viene da fuori.
Perchè non si è abituata, come tutti gli altri, all'indifferenza dell'orrore.
Forse un'altra metafora (in un film che è gigantesco proprio per questo, per come rende metaforica ogni minima azione ha dentro), ovvero quella di come "vivere" dentro l'orrore abbia assuefatto tutti, abbia reso tutto quello che accadeva in quei tempi in Germania una cosa normale, accettata o, nel caso peggiore, non presa in considerazione, ignorata.
E invece quella madre che arriva lì, come fosse qualcuno che entra nell'orrore da fuori senza esserci cresciuto a fianco giorno dopo giorno, quelle cose le sente.
E, benchè nazista (ricordiamo le prime cose che dice quando entra in casa) si rende conto, si rende perfettamente conto di tutto.
Perchè i suoi occhi e i suoi orecchi hanno voluto vedere e sentire, perchè erano occhi e orecchie vergini.
E andrà via, perchè è inevitabile a quel punto andare via.
Ma la sua lettera, di cui non conosciamo il contenuto (e io come al solito preferisco quando lo spettatore non può sapere) finirà in un forno.
Già, in un forno, dove per quella gente finiscono tutte le cose da eliminare, che li infastidiscono.
I forni di Auschwitz, il forno dove finisce la lettera, il forno di Hansel e Gretel, forni ovunque.

Hansel e Gretel viene letta di notte.
E' una favola dove i buoni, i due bimbi tedeschi, uccidono in un forno i cattivi, la strega.
L'analogia è talmente evidente che è inutile sviscerarla.
E nasconde anche l'ipocrisia dei tedeschi, quel loro sentirsi puri, minacciati, come due bambini che devono eliminare degli esseri deformi e cattivi.
Ma mentre quel padre abietto legge alla propria figlia la favola di notte un'altra bambina esce di casa e, incurante dei pericoli, raccoglie mele e le nasconde per farle trovare ai deportati al lavoro.
Le immagini sono in negativo (o termiche, non so), di eccezionale bellezza e suggestione (al confine con i disegni).
E anche qui abbiamo probabilmente l'ennesima metafora, ovvero di come l'unico gesto umano del film sia visto "in negativo", al buio, come se il mondo normale, lucente e sereno, fosse quello crudele e immorale della famiglia tedesca e, in questo quadro, coerentemente, il mondo invece come dovrebbe essere, quello della solidarietà e dell'umanità, sia buio e in negativo (che dà il senso dell' "opposto").


Bambina che poi, come un dono caduto dal cielo in attesa che qualcuno lo trovi e ne faccia l'uso migliore, troverà un piccolo scrigno con dentro uno spartito.
E suonerà quella musica, in quelli che sono gli unici momenti in cui il film cerca di esprimere speranza.
Speranza ammaccata e straziata, ma speranza.

I personaggi del comandante nazista e di sua moglie sono radicali, eccezionali in questo (ho amato molto come vengono descritti, senza nessun grigio, senza dubbi, senza rimorsi, senza mai consapevolezza).
La vita da sogno che hanno costruito a 2 metri dall'orrore è veramente "assoluta", senza il minimo pensiero a quello che sta accadendo di là.
Anzi, non a quello che sta accadendo (perchè "accadere" è verbo che molto spesso presuppone qualcosa al di fuori di noi) ma a quello che volutamente e scientificamente sta proprio facendo Hess (la scena dove spiegano il funzionamento dei forni in maniera così fredda e industriale, chiamando "carico" i deportati, è tremenda).
Non solo fanno finta di non sentire quei rumori, non solo non provano la minima empatia per chi sta morendo di là (anzi, Hess cerca sempre metodi migliori per sterminare) ma la loro indifferenza e completa ipocrisia la notiamo in tanti piccoli dialoghi.
Come quel "i riscaldamenti funzionano male, d'inverno fa molto freddo" detto da lei.
Pensare al proprio innocuo e temperato freddo mentre a 5 metri da loro passano gli inverni a temperature sotto lo zero, quasi nudi.
Sono frasi impercettibili che dimostrano quanto, semplicemente, quello che vivono gli ebrei non esiste, non è nemmeno preso in considerazione.
O quel pulirsi dopo il bagno nel lago dove finiscono cenere e ossa di gente bruciata, ceneri e ossa che vengono viste come un fastidio malgrado siano proprio loro, e Hess in primis, ad averle causate.
Pazzesco.
O quel chiamare il proprio giardino "Paradiso", a due metri dall'Inferno e concimare le proprie piante e i propri fiori con i resti degli ebrei (altra metafora? il lavoro che stiamo facendo rende più belle e divertenti le nostre vite, vedi anche i denti d'oro con cui giocare e i nuovi bellissimi vestiti da indossare).
O sperare che le viti crescano per "coprire la vista".
O preoccuparsi di un cespuglio di lilla calpestato.
Sono proprio menti che vivono in un loro mondo in cui l'altro mondo non esiste, non è contemplato, non può essere nemmeno oggetto di orribile paragone con loro.
No, non esiste, e le poche volte che entra dentro il loro mondo fatato, come una cenere, è solo un fastidio.
Tutto radicale, empio, freddo in una maniera glaciale.
Tutto nero senza alcuna sfumatura.
Anzi, tutto bianco come un perfetto abito bianco.


L'unica scena - madonna che bella, geniale - che secondo me ha la forza di far intravedere una zona oscura nel cervello di quegli esseri umani senz'anima, e per zona oscura intendo un loro "segreto", una specie di fascinazione per l'ebreo che loro non vogliono far vedere) è quella appena sussurrata, accennata, ma potentissima, del probabile sesso con una deportata e del poi andarsi a lavare.
Per andarsi a lavare Hess attraversa un lungo tunnel buio (avrebbe tranquillamente potuto lavarsi al bagno di casa no?) che lo porta in un luogo sporco, decadente, malmesso e oscuro.
Come fosse un luogo della sua mente dove esercitare le proprie perversioni, quelle indicibili.
Ma, anche in questo luogo oscuro e nascosto agli altri Hess si lava, come a dirsi "che schifo, ho fatto sesso con un ebrea".
Eppure il sesso l'ha fatto.
Mi sembra la metafora più bella, come quegli omofobi che in realtà sono - più o meno latentemente - omosessuali, e che fuori sono in un modo ma poi dentro di sè, all'oscuro da tutti, hanno la tendenza opposta.
E che però son così ipocriti che anche nella loro vera natura, quella natura che fanno tanto finta di ripudiare, anche in quella zona buia, comunque "si lavano", come a pulirsi la coscienza, come a dire a sè stessi "no, non sono questo, io odio i gay"
Io odio gli ebrei.

E in questo film al tempo stesso così glaciale anche stilisticamente, con tante inquadrature ferme e location perfettamente pulite, ineccepibili, geometriche, in cui nulla è mai caos, nessun dialogo, nessuna azione, nessun oggetto, nessuna emozione, forse l'unico caos è quel fumo che esce dalle ciminiere, unica presenza informe e difforme - e scura, e nera - che contrasta il candore di colori e cose.
E' per questo contesto e questa cifra stilistica che considero ancora più potente e bello che si possano ravvedere così tante metafore, come se più ti pulisco le cose, meno le rendo complesse, più rendo complessa la loro interpretazione.
Penso anche a quel bimbo tedesco che gioca coi dadi, e si dispera per un numero sbagliato (giocare con i dadi è giocare con le vite degli altri).
O all'immenso finale.
Se devo dir la verità tutta la parte con Hess fuori da Auschwitz la trovo molto più debole, ed è sempre un peccato quando la seconda parte è più debole della prima (molto meglio il contrario).
Restano però due cose, e valgono il prezzo della parte.
Una è lui che immagina di gasare i suoi stessi compagni, in quell'immenso salone di gala.
Come se ormai il suo "lavoro", la sua missione sia così radicale e lui sia così onnipotente nel farla che potrebbe farla con chiunque.


E poi il finale, con il suo corpo che cede, con il vomito che arriva.
E lui che si ferma e guarda verso di noi.
E l'azione si sposta ai giorni nostri.
E per la prima volta vediamo gli effetti di quello che accadeva di là dal muro.
Vestiti, scarpe, oggetti di tutte le persone che quegli anni furono uccise in nome di un ideale senza alcun senso.
E' un museo dove alcune ragazze, in modo sereno, annoiato e spensierato, stanno pulendo.
Compresi quei forni che abbiamo "sentito" per tutto il film senza mai esserci andati dentro.
Adesso sì, adesso siamo là dentro, quando tutto è finito da anni e anni.
E' talmente potente questo finale che, in un film con dentro una decina di metafore, qui ne ho immaginate addirittura due.
La prima è l'indifferenza che ancora esiste nei confronti di questo abominio.
Con queste ragazze che puliscono come fosse una normale camera d'albergo.
La seconda è il tentativo, attraverso quelle pulizie, di pulire la propria coscienza, di cercare di cancellare quello che si è fatto.
Quello che la Germania cerca di fare da sempre (e si merita anche di farlo, la colpa dei padri non può riflettersi sui figli).
Pulire, pulire, pulire.
Ma è tutto un effetto placebo, il ricordo resta, anzi, pulendolo lo rendi ancora più lucente.

E questo criminale in quelle scale, fermandosi, sembra vedere tutto questo.
Sembra vedere quello che sta facendo.
Sembra vedere il futuro, un futuro dove, a bocce ferme, potrà finalmente guardare il passato.
E come nel finale di quell'eccezionale film che fu The Act of Killing, il suo corpo sembra non reggere a quell'orrore, a quella consapevolezza.
La sua mente è ancora malata, indifferente.
Ma il suo corpo parla per lui.
E guardando la macchina da presa, finalmente, vede.
Un uomo che non aveva mai nemmeno sentito adesso vede.
Ma è troppo tardi vedere adesso.
E' troppo tardi.




20.2.24

Recensione : "Past Lives" - Passeggiate, il cinema della poesia - 25 - di Roberto Flauto

 

:
Credo che Past Lives possa essere un film molto bello e anche nelle mie corde.
Ma siccome sono uno stronzo che ancora manco Lanthimos è andato a vedere (e quello rimane al momento la priorità) sono contento che l'amico Roberto l'abbia visto e mi abbia mandato una recensione da pubblicare, recensione che, col suo solito stile poetico, renderà sicuramente merito al film.
Buona lettura!
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Una storia d'amore, una storia dell'amore.
Mai sbocciato, sempre in fiore.
Mai nato, sempre esistito.
Che attraversa il tempo.
Che è tutto e ovunque.
Benché la distanza.
Malgrado la vita.
Nonostante noi.
 
 
 
Tutto ciò che è separato è in un certo qual modo è inseparabile. E lo verifichiamo sempre, senza rendercene conto, nello spessore umano della nostra realtà sociale. Allorquando in seno a una società si considerano gli individui, questi ultimi appaiono manifestamente separati gli uni dagli altri; ma se si cambia prospettiva, se si passa dall’individuo alla società, i detti individui sembrano allora delle appendici inseparabili in seno all’organizzazione sociale. È ugualmente il paradosso dell’individuo e della specie: la nozione di specie è una nozione di continuità attraverso la riproduzione, attraverso il DNA; ma ogni individuo è ben nettamente separato da ogni altro individuo anche e soprattutto nel tempo. In altre parole, tutto ciò che è separato è al tempo stesso inseparabile. Che paradosso! Non si può considerare di conseguenza che tutto è nel tempo ma che tutto ciò che è nel tempo è nello stesso tempo in un al di là o in un al di qua del tempo?

(E. Morin in un dialogo con M. Cassé)


E io e te e tutte le vite per tutta la vita. Provo a distruggere tutto, ma ricordo ogni cosa. Tutto è in frantumi e alla deriva. Una conchiglia del mesozoico. Una penna a sfera. Un gatto che passeggia sui tetti (è notte e piove e buio). Il processo di costruzione dell’attimo in cui. C’è qualcosa – c’è tutto – di poetico e spaventoso in ciò che accade, che siamo, che pensiamo, che guardandoci negli occhi forse allora posso non morire. Qualcosa di incredibilmente primordiale e potente, eterno e sempre nuovo. Come quando piangi e io invento mille storie per trovare casa alle tue lacrime. Come quando mi sveglio all’alba per poterti telefonare. Come quando da bambini eravamo i padroni dell’universo. Davvero, ricordo ogni cosa, anche se provo a distruggere tutto. Penso alla storia d’amore tra un bruco e una sequoia. Un insetto destinato a restare tale soltanto per pochissimo tempo e un albero secolare. La distruzione è genesi, almeno in senso poetico – e non ne esistono altri. Se ne può desumere che l’assenza è la misura di tutte le cose. Il bruco amerà ancora la sequoia quando sarà diventato farfalla, quando potrà finalmente volare e non sarà più condannato a strisciare? Lo zero, infatti, è pur sempre un più e un meno addizionati. La sequoia amerà ancora quel bruco diventato farfalla anche se consapevole del fatto che vivrà trecento anni dopo la sua morte? Il più e il meno, come luce e oscurità, come materia e antimateria, come tutto ciò che permette all’altro di riconoscersi, e tutti insieme diventano bianco (somma di colori) e nero (colori invisibili). Un animale che vive pochi giorni e un albero che vive centinaia di anni. Luminosa oscurità e oscura luminosità: dall’alba dei templi che edifico per adorare te alla distruzione totale e quindi un nuovo big bang. Come possono amarsi? Dove conduce tutto questo? Qual è il senso? Che cos’è che sento nel cuore che fino a ieri non c’era? E tu davvero non tornerai? Puoi vincerlo anche qui il Premio Nobel, o il Pulitzer, o il premio per il sorriso più bello. Ma sì, certo, lo so che devi andare e sono veramente felice che tu segua i tuoi sogni. Allora perché piango? Sento l’universo espandersi, lo sento vibrare. Tutto si agita dentro di noi, sotto ottomila strati di esistenze che siamo noi: e io e te e tutte le vite per tutta la vita. Perché mi hai detto addio, perché ti ho detto addio, perché non lo sappiamo, perché poi ti cerco per dodici anni e poi altri dodici e poi tutta la vita e poi per sempre e poi ancora: perché In-Yeon. E allora l’esplosione creatrice: big bang dritto al cuore. E allora è genesi, e allora è assassinio. Come ogni nascita, come ogni morte. Tutto ciò che esiste, compreso l’inesistente, esiste, e inesiste, solo per noi (perché siamo noi, noi siamo tutto, tutto è noi). Noi eravamo presenti, quando l’universo è sbocciato. Tutti gli atomi dell’universo si sono uniti, in una danza sfrenata e folle, in un unico, minuscolo puntino, che poi è esploso. I miei atomi e i tuoi atomi erano lì, erano sicuramente insieme. Con gli atomi delle stelle, dei pianeti, dei fili d’erba, delle pagine dei libri, del gatto che continua a passeggiare sui tetti (è sempre notte e piove e buio). Quella volta che ho lavato i denti con il tuo spazzolino. Quando abbiamo aspettato l’alba su una panchina, e speravamo non arrivasse mai. Quando passeggiavamo insieme tornando da scuola. I cieli sconfinati dei tuoi occhi verdi in tempesta. Davvero, com’è possibile tutto ciò? Sento le cose esplodere in continuazione dentro di me. Voglio andare a passeggiare sui tetti anche io. Come quel gatto. Come quell’eroe dei fumetti con la faccia da scimmia. Io penso questo: la felicità e la disperazione sono sorelle, non si lasciano mai. Una delle due dice: «a volte vorrei essere proprio come te». E l’altra: «anche io». Ci conosciamo da sempre, io e te. I miei atomi si sono uniti ai tuoi un’infinità di volte in miliardi di anni. Eravamo procarioti autotrofi che senza corpo danzavano nelle profondità di un oceano nero, nerissimo. Abbiamo visto le nostre cellule moltiplicarsi, abbiamo cominciato a respirare. Siamo diventati artropodi, vertebrati, abbiamo conquistato la terraferma attraverso una sconfinata serie di radiazioni adattative. Siamo stati plesiosauri e foglie d’erba, vento forsennato e bollenti raggi di sole; abbiamo attraversato ere geologiche e ci siamo estinti e siamo risorti continuamente. Siamo diventanti i padroni del pianeta come mammiferi. Siamo diventati fiori, piante, forme sempre più complesse di organizzazione biologica, abbiamo cominciato a volare, siamo stati in cima agli alberi più alti, scalato le montagne, ascoltato il frastuono dei vulcani che eruttavano. Siamo stati animali frugivoro-insettivori, abbiamo visto mutare il nostro corpo, abbiamo preso ogni cosa, siamo diventati ogni cosa, siamo diventati tupaie, dermotteri, euarconti, primati. Abbiamo modificato l’ambiente e lo abbiamo reso vivo e vissuto, perché noi siamo vita. Abbiamo cominciato a cercare e a cercarci, a diventare e a diventarci. Abbiamo guardato sotto i sassi e non abbiamo trovato niente: è il progresso. Ci siamo guardati per la prima volta in un riflesso su uno specchio d’acqua. Ci siamo riconosciuti, ci siamo innamorati, siamo morti. Dove andremo dopo? Guarda che bel dipinto. Ci siamo alzati in piedi, abbiamo organizzato i suoni in linguaggio, la nostra massa cerebrale ha aumentato sempre più il proprio volume, abbiamo divorato carcasse putrescenti, abbiamo ucciso e sterminato, alla luce di un fuoco abbiamo alzato la testa e osservato il cielo. Abbiamo dato un nome a tutte le cose, abbiamo inventato dio. Abbiamo viaggiato in ogni direzione, siamo il legno e la pietra scheggiata, il ferro, il cadmio, la plastica, l’elettricità. Abbiamo varcato confini, siamo stati sulla luna a ubriacarci al chiaro di Terra. Siamo noi la singolarità. E abbiamo paura del buio e della luce, siamo divinità in cerca di cieli da abitare. Ascolta come mi batte forte il tuo cuore. Siamo giunti ovunque e coviamo dentro il timore di non esistere. Abbiamo fede, abbiamo graffi sulla faccia, sogni a forma di incubo. Siamo lo spazio e siamo il tempo, siamo questa pioggia che continua a cadere e siamo il gatto e siamo il tetto. Il mistero che ci abita si espande più velocemente del mistero che abitiamo. Le organizzazioni sociali, le forme dell’equilibrio, la scrittura, le guerre, lo stato di diritto, la moneta, le panchine su cui sedersi e aspettare l’alba, i divani, le villette a schiera, il motore, i campi sterminati di lavanda, la musica che invade l’aria, l’inestinguibile e selvaggio battito di tamburi nella giungla, i libri, il sistema feudale, le scatole di pastelli da quarantotto, il fuoco, i fonemi, gli schiaffi, il processo di ominazione, le arti, gli shuttle, i quadrati costruiti sulle ipotenuse, le invenzioni, gli album di fotografie, la ruota, i social network, le caverne, le carezze, gli occhiali, le teorie per spiegare il mondo, le confessioni tra le lacrime, i disegni dell’infanzia, i bruchi che si innamorano, l’acqua, le cosmogonie, il concetto di infinito e quello di nulla, le parole, i glifi, i demoni, le mode, le divisioni, i baci, le mani che impugnano coltelli, i dubbi e le certezze, le convinzioni profonde e le incertezze ataviche, il fatto che siamo qui, il caso e la necessità, le rovine, il futuro, le scelte – mentre una vecchia sequoia racconta agli uccelli che si fermano sui suoi rami del suo antico amore perduto. E io e te e tutte le vite per tutta la vita. E allora ti lascio andare. E allora mi lasci andare. Perché ti amo. Perché mi ami. Ci abbracciamo fortissimo prima di dirci addio. E torniamo alle nostre vite che chissà, forse, un giorno, un secolo, una pioggia, un amore così. E a differenza di ogni cosa, noi non finiremo mai.




12.2.24

Recensione: "The Holdovers - Lezioni di vita" - Cinema 2024

 

L'ultimo film di Payne è, come spesso accade, una coccola.
Lui è uno di quei registi, come ad esempio Dolan e P.T.Anderson, che ci dà sempre l'idea di amare i suoi personaggi e, di conseguenza, farli amare a noi, anche quando sono spigolosi e con molti lati fastidiosi.
Un burbero professore, un giovane allievo triste e ribelle e una cuoca che ha da poco perso il figlio in guerra sono costretti a passare due settimane da soli (le vacanze di Natale) nell'enorme istituto dove insegnano, studiano e cucinano (a seconda dei ruoli).
Tre diverse solitudini, tre diversi dolori che, piano piano, si avvicineranno e colmeranno a vicenda.
Un film divertente, dolce, anche amaro a volte e che restituisce un Giamatti incredibile, da pelle d'oca.

Siccome sono uno stronzo mi ritrovo a scrivere questo film a quasi 10 giorni dalla visione.
So che questa "scusa" la scrivo sempre più spesso ma penso sia importante dirlo.
Anche perchè scrivere così tardi ha anche i suoi lati "interessanti" (magari non per il lettore, ma per me), ovvero vedere i film con più distacco e capire cosa ti è restato.
Credo che una recensione scritta il giorno dopo o una dieci giorni dopo, in alcuni film e in alcuni casi, possano essere molto differenti tra loro.

E' buffo, in questo senso, che io parli di cosa mi è restato di The Holdovers in un film che nel titolo proprio questo significa, ovvero qualcosa che resta, qualcuno che resta, un retaggio.
Insomma, questa mia recensione è, in qualche modo, l'holdover di The Holdovers.
Mi sono quasi impaurito nel rendermi conto che ho dimenticato già tanto, cosa che mi infastidisce perchè mi dà la brutta sensazione che il film magari non fosse così bello.
In realtà credo ci sia una spiegazione molto più oggettiva e tecnica.
Ovvero che ci sono alcuni film talmente tanto parlati, talmente tanto basati nella sceneggiatura nei dialoghi che poi li perdi presto e facile.
Troppe parole, troppi scambi tra i protagonisti, troppe cose.
E' molto più facile, secondo me, che nel tempo rimangano nella testa quei film con pochi elementi, specialmente quelli con pochi dialoghi, come se la nostra mente non dovesse fare il doppio lavoro di ricordare sia immagini che testi.
E The Holdovers è l'opposto, è un film di parole, tantissime parole, che riserva le sue più grandi emozioni nei dialoghi e nelle interazioni dei personaggi.
Perchè racconta di 3 persone rimaste sole in un college durante le vacanze natalizie, persone che appunto attraverso il parlarsi e il confidarsi si avvicineranno, si capiranno e cominceranno a volersi bene.


I film di Payne sono sempre delle coccole, anche quando - e lo fanno quasi sempre - raccontano di vite piene di cicatrici e dolore.
Payne è uno di quei registi (penso anche a Dolan e P.T.Anderson) che mi danno la stupenda sensazione di amare i propri personaggi.
Anche quando sono personaggi spigolosi, ambigui, non amabili, Payne li dirige amandoli e, di conseguenza, li fa amare a noi.
E' uno di quei registi "retorici" ma di una retorica sana, sotto le righe, non ricattatoria.
Semplicemente uno di quelli che vuole dirci che ogni persona al mondo, e di conseguenza ogni personaggio, ha delle cose belle dentro da scoprire, ha un punto di vista con cui lo possiamo vedere per emozionarci.
Inutile non ammettere che The Holdovers si regge quasi del tutto sul personaggio di Giamatti e - le due cose non sempre combaciano sul cinema - su Giamatti stesso, autore di una prova mostruosa che riconcilia con l'arte attoriale.
Il suo è un professore vecchio stile, pochissimo incline alla leggerezza e completamente assorbito, quasi disumanizzato, per l'amore della Storia, Storia che fa capolino - sotto forma di citazioni - in quasi tutte le sue frasi e che lui sembra prendere ad esempio per ogni aspetto della sua vita.
Questa sua prigione di cultura, come detto, lo "disumanizza", nel senso che lo anestetizza dalle emozioni, lo rende distaccato, formale, accademico, in ogni cosa che fa.
Eppure, e lo capiremo durante l'arco delle due ore e passa del film, nel suo passato c'è anche "vita" vera, furore, gioie, amori, sogni e disillusioni.
Il ragazzo che fu, forse perchè sconfitto dalla vita e ormai disilluso, ha preferito trasformarsi in un "ruolo", quello del professore integerrimo completamente dedicato alla sua materia e con rapporti umani ormai limitati a quelli con uomini defunti da secoli, greci e latini soprattutto.
Il suo legame per gli altri è quindi una specie di paradosso temporale in cui lui dialoga solo e soltanto con esseri umani di civiltà antiche.
Eppure ora, restando da solo con il giovane Angus e la madre piena di dolore Mary, il professor Paul Hunham è "costretto" a interfacciarsi di nuovo con la vita reale, con persone reali, con cui deve convivere, a cui deve insegnare cose, dalle quali impara cose e grazie alle quali "ritorna" sempre di più a quello che era, un uomo ancora capace di emozionarsi, velatamente innamorarsi, arrabbiarsi, fare cose che riguardano la vita e non la sua materia.
E scopre così anche di essere uomo che può diventare guida, specie per quel giovane apparentemente così stronzo e ribelle che è Angus.
Angus che, invece, è adolescente con alle spalle e intorno a sè una tragedia continua, con quel padre buono che un certo giorno ha cominciato ad andarsene di testa e con quella madre incapace di capire il dramma e la solitudine del figlio, persa più che altro nel vivere la sua nuova relazione.
Un ragazzo senza più alcun amore e affetto intorno, con un viso al tempo stesso dolcissimo e "cattivo", perchè la dolcezza e la cattiveria, la rabbia, sono le due cose che adesso convivono in lui.
C'è poi Mary, madre che da pochissimo ha perso il suo unico figlio, anch'esso ex studente di quel college, morto militare in Vietnam.
E' molto bello come si ritrovino quindi da soli tre personaggi con 3 diversi dolori addosso, uno quello del fallimento e di una vita non vissuta, uno quello rabbioso del disamore e della paura del futuro e una quello della perdita della cosa più importante della sua vita, il figlio.
Giocando con le parole sono tre solitudini rimaste sole nella solitudine di un edificio.
Eppure non c'è scambio più grande e più vero di quello che avviene, appunto, tra solitudini diverse, perchè c'è quella sensazione di "parità" e di reciproco aiuto, come se ogni solitudine riesca a mettere dei mattoncini nel muro di dolore dell'altra solitudine e, al tempo stesso, ricevere mattoncini diversi da lei.


E così queste tre persone, tra momenti difficili, altri divertentissimi ed altri emozionanti, passano del tempo insieme, senza mai gesti eclatanti (è bellissimo che dopo tutto quel tempo insieme Paul e Angus mantengano comunque un certo "distacco" e reciproco rispetto dei propri ruoli, vedi anche il bellissimo e commovente saluto finale) ma semplicemente vivendo cose piccole uno insieme all'altro e dovendo giocoforza contare ognuno sugli altri due.

5.2.24

"C'è ancora domani"/"Licorice Pizza" - A luci accese (divagazioni illuminate) - 5 - di Nicola C.


Dopo tantissimo tempo (al solito per colpa mia) torna anche la rubrica dell'amico Nicola, arrivata al quinto appuntamento.
Nicola, con la sua solita acutezza e capacità di analisi dei dettagli, ci parla stavolta di due film.
Il primo è il caso dell'anno, "C'è ancora domani" (che, se non sbaglio, diventa il primo film in 15 anni di blog di cui non ho parlato io ma ben DUE persone "esterne" - l'altra è stata Angela pochi mesi fa- ).
Vi invito a leggere perchè le considerazioni di Nicola, conoscendolo, saranno sicuramente molto personali e "forti".
 Il secondo Licorice Pizza, tornato abbastanza in auge per le due prime serate che i canali Rai gli hanno dedicato questi giorni.
Vi lascio a Nicola, certissimo di quanto i pezzi siano interessanti



N°  10  C’ E’ ANCORA DOMANI –  …PER LE LOTTE DI  IERI.


 Mi sono già imbattuto nella questione femminile parlando di Men,
pur mantenendo allora toni leggeri e rimanendo piuttosto sobrio sul senso del film.
Ma qui non posso evitare di entrare nel merito di alcuni aspetti su cui è sollecitata la riflessione, perché questo è un ottimo film e avrei voluto  davvero apprezzarlo fino in fondo, fino a farne quasi un manifesto nel suo magnifico pontificare tra passato e attualità, tra origine della questione (relativamente alla storia repubblicana) ed epilogo ai nostri giorni.
Per tutto il tempo mi ha sorpreso un entusiasmo quasi gioioso 
per trovarmi di fronte a un piccolo gioiello che istintivamente ho accostato 
a Una giornata particolare di Scola; d’accordo, il film di Scola è  un capolavoro che viaggia ad altre latitudini, ma il fatto che questo me lo abbia portato alla mente per me è indicativo.
L’evocazione del presente viaggiando ad arte nel passato è un’operazione riuscita alla perfezione, con tutti gli strumenti che il Cinema mette a disposizione, maneggiati con consapevole cura e profondità. 
Vero è che poi la scrittura vacilla in qualche occasione, 
una su tutte il soldato americano che fa saltare un Bar (in stile Pizza Connection) solo perché una donna incrociata per strada
(per cui nutre una pur affettuosa compassione per intuirne il vissuto) glie lo chiede; ecco, penso che una cosa del genere vada ben oltre l’inverosimile, 
ed è "grave" perché nella narrazione 
rappresenta uno degli snodi cruciali che portano all’epilogo.
Ma vabbè, di fronte alla bellezza dell’opera nel suo complesso 
sarei disposto a passare anche sopra a questo, 
che al massimo gli conferisce un tocco un po' surreale. 
E proprio quando ero così soddisfatto per aver assistito a queste due ore 
di cinema bello, potente nei contenuti senza mai perdere la leggerezza 
con cui ci accompagna in ogni singola piega, 
ecco che mi imbatto incredulo nel finale. 
Un finale che a mio avviso disinnesca tutto o gran parte quanto di buono 
costruito fino a un momento prima. 
Non ci voglio credere fino ai titoli di coda, ma devo proprio farmene una ragione.
Si è passati dalla rabbia che brucia sotto la pelle di quei segni 
che invocano un riscatto necessario e definitivo, alla lezione di Educazione civica,così… senza che neanche la campanella ce lo annunci.
Di punto in bianco siamo semplicemente ridotti agli edificanti gesti 
con cui la società del diritto ci promuove a cittadini, 
più di ciò che percepiamo di noi stessi, di chi ci è accanto,dell’odio e amore che respiriamo ogni giorno.
Insomma, i diritti della cittadinanza ci realizzano come esseri umani 
anche quando non ce ne viene riconosciuta la dignità nel profondo della cultura dominante e delle relazioni che ci tengono al mondo. 

“Voto quindi esisto”
è il corollario rassicurante della dignità femminile celebrato nell’ atto conclusivo del film.
Ebbè, uno ci rimane male.
Ma per la banale ed evidente constatazione che quel diritto poco o niente ha cambiato nella parabola dell’emancipazione femminile in sé 
(che è il tema) 
se le cose oggi stanno come stanno e cioè male
(che è pure il messaggio del film).



Il voto femminile fu ovviamente un traguardo doveroso e tardivo già allora,
che tutti abbiamo felicemente salutato e che sarebbe inevitabilmente arrivato in un’Italia comunque democratica, ma il problema è farne una bandiera di svolta femminista
(per chi ha nostalgia di quest’espressione).
Ebbe sì un valore epocale, ma è pur evidente che non vi fu dato seguito 
(il che getta qualche ombra pure sulla genuinità di quel gesto 
da parte di molti che finirono per concederlo).
Il parlamento che riconobbe il voto alle donne è lo stesso che da allora 
ha continuato a essere composto prevalentemente da uomini, 
che ha perpetrato la stessa pigrizia sul diritto all’eguaglianza 
e ha promulgato solo alcuni anni fa la Legge 40, violando deliberatamente salute e corpo  della donna nella procreazione assistita (il tema più propriamente e profondamente femminile di tutti) sotto dettatura dei vescovi italiani  
(l’ala più oscurantista e reazionaria della Chiesa che fece il bello e cattivo tempo in combutta con il parlamento approfittando della malattia di Giovanni Paolo II); peraltro le donne (o meglio la maggioranza di esse) stettero in silenzio e a casa nell’appuntamento storico con il referendum abrogativo, pur potendosi avvalere del famigerato diritto di voto, rimanendo al tema.
Se vogliamo, anche quell’astensione fu espressione di cittadinanza,
il diritto a una democratica abdicazione civile.
Ci pensò infine la magistratura a smontare quel mostro legislativo per la sua evidente incostituzionalità.
Sì, perché il fatto che evidentemente sfugge è che i diritti negati 
si conquistano sempre con la lotta (anche civile, non violenta) 
dimostrando di essere più forti di chi quel diritto nega,
traendo forza delle proprie ragioni e dalla loro condivisione 
al punto da farle valere su tutto e tutti da una posizione di sostanziale sottomissione o emarginazione.
Si tratta di istanze che appartengono ai singoli individui 
che uno ad uno finiscono per essere moltitudine, 
rivendicando la propria esistenza quando è negata. 
E la Storia sa essere crudele nell’imporne il prezzo, 
è fatta da esseri umani e riflette sempre ciò che essi sono.
Va subito detto che il diritto di voto non fu conquistato dalle donne ma concesso (dagli uomini); e fu concesso nell’ambito più ampio della necessità di traghettare il paese con sufficiente credibilità dal passato fascista all’alveo delle democrazie in orbita atlantica, in un paese che non poteva essere governato da altri che coloro che lo governarono per i successivi quarant’anni
(fino alla caduta del muro).
 Certo, furono concessi certi margini di manovra al livello del suffragio locale o referendario, ma il voto politico in sé (degli uomini quanto delle donne) 
non era previsto ne cambiasse la storia, 
che rimaneva quella decisa nelle stanze della diplomazia post bellica 
con le buone o con le cattive
(chiedere alla Grecia dei Colonnelli, mentre qui organizzazioni 
come Gladio vigilavano sullo status quo).
La stessa democrazia non fu dunque una conquista per il Paese 
(anche se spesso la si celebra come tale), 
ma una condizione imposta agli sconfitti dai vincitori.
Prima di allora gli italiani avevano scelto il fascismo ed ebbero le idee molto chiare su questo.
E la società di cui ci parla il film è ancora quella, 
la sua anima profonda non cambiò in una notte per la firma di qualche trattato. 
C’è tutta la differenza possibile tra un diritto calato dall’alto 
e uno che incarna la memoria del doloroso prezzo di una conquista, 
sarà per questo che la democrazia italiana non si è mai davvero compiuta 
e l’uomo forte e carismatico rimane suggestione sempre appetita dalle masse, è storia persino recente.
Se dobbiamo evocare l'Educazione civica o la Storia allora usiamo i riferimenti giusti, 
almeno per aprire gli occhi su chi siamo davvero, 
se proprio si pensa di voler cambiare qualcosa.
Invece ho visto assurgere senza alcun indugio il voto politico a chiave di volta del riscatto femminile,
quel punto a partire dal quale la Storia volta pagina 
e apre tutte quelle possibilità precluse fino a un istante prima 
perché le cose vadano finalmente a posto.
E tiriamo tutti un sospiro di sollievo.
Peccato che le cose a posto poi non ci siano mai andate.
Ecco, confondere la retorica delle narrazioni con la memoria storica 
spiega ad esempio perché, da quel momento,
proprio le donne siano ancora tanto discriminate, 
quando non abbandonate a se stesse persino dinnanzi alla violenza 
pur essendo cittadine con tutti i crismi in una società – quella italiana – 
che dietro un dedalo di mantra politicamente corretti 
perpetua ostinatamente - al modo dei nostri tempi - il passato denunciato dalla Cortellesi.
Non saper leggere la Storia è cosa assolutamente perdonabile, ognuno ha le proprie attitudini, ma non farlo col “senno del poi” per ciò che ci riguarda in prima persona  è grave, denota un’infatuazione ideologica che altera proprio la percezione della realtà 
e quindi preclude al suo cambiamento.
E la realtà oggi non ci piace, segno che i presupposti su cui è costruita non sono quelli che vorremmo o comunque sono ampiamente insufficienti a renderla migliore.
Comunque, per chiarezza, non disconosco il valore della “cittadinanza”, che è anzi la cifra antropologica occidentale che custodisce il valore soggettivo della nostra esistenza
entro la consapevolezza dell’oggettività di un diritto comune.
Ma poi bisogna vedere quale ruolo è chiamata a interpretare questa cittadinanza 
se costruita su un rito politico collettivo che ci rassicura negandoci.
Per cambiare la storia (o almeno provarci) è sempre necessario uno sguardo 
che colga coraggiosamente la cruda umanità delle cose 
su cui restare “vedenti” prima che sognanti,
tanto sul piano collettivo quanto su quello della storia di ognuno.



 Nel mondo attorno a Delia l’amore e il rispetto sono in coloro 
che vivono oltre il senso comune che tutto appiattisce 
rendendo orrendamente normali piccole e grandi brutalità;
e ci sono sempre i segni con cui capire se lo sguardo e i gesti di chi abbiamo di fronte siano amorevoli o cerchino la nostra umiliazione.
E non è certo il ruolo di cittadini a venirci incontro se vogliamo ignorare questa differenza.
Delia ha imparato a sue spese a riconoscerla.
Sequenza magistrale di Cinema quella in cui al suo sguardo si svela il ragazzo già non più scanzonato, con l’onore di uomo che ne solletica l’orgoglio e le mani nei gesti divenuti ormai latenti minacce sul volto di sua figlia.
Destini già segnati, altrettante declinazioni della cittadinanza 
già scritte e approvate dalla Storia.
L’eroismo di Delia è non abdicare all’inconfessabile rassegnazione 
insegnata e pretesa dal Passato:
per la figlia di Delia c’è ancora domani
solo se ne capirà l’unica lezione possibile.

 

N°  11  LICORICE PIZZA – LA LUCE PROPRIA DEI SOGNI



 Per me è impossibile non voler bene a questo film, anche per la curiosa circostanza di essermi casualmente capitato di vederlo cominciando dalla metà, per poi (successivamente) riprenderlo dall’inizio (e non era possibile resistere!). 
Ho rivissuto quando da ragazzino - in un curioso déjà vu con i miei personali anni ’70 - 
capitava che mi portassero al cinema all’intervallo, vedendo così i due tempi in ordine inverso. Impossibile (e inconcepibile) oggi: siamo dominati dalla linearità delle cose sin da piccoli 
(al punto da farne un’aspettativa, ma il mondo delle emozioni che restano non conosce linearità). 
Questa circostanza mi ha restituito la sensazione infantile di un’epoca mirabilmente evocata 
per tutto il film, seppure a diverse latitudini, ma a quei tempi anche qui era un po’ tutto America. 
Quindi non è solo con spirito – diciamo così – analitico, ma anche con certa languida emozione dico che LP è già in se stesso ciò che vuole raccontare: un bellissimo inno alla purezza  (Ah!… Lei recita talmente bene che sembra non  farlo mai).
LP è implacabile nel ridimensionare il mondo autoreferenziale di tutto ciò che si presenta 
come un punto d’arrivo: la vanagloria confezionata per relegare all’anonimato tutto all’infuori di sé. 
Una sfilata di icone la cui infallibilità brilla soltanto negli ingenui occhi di chi le guarda.
Ma qui Anderson mostra che quella presunta grandezza, quella rassicurante spregiudicatezza di cui luccica il “mondo dei Grandi” non è mai esistita davvero e l’unico atto amabilmente spregiudicato è l’incanto di chi, di fronte a quel mondo, sogna.  
E sogna perché non sa; sogna perché i sogni di cui traboccano i propri desideri potrebbero inondare qualunque cosa: salva quindi è l’innocenza (e noi nel poterla ammirare).
Ai margini di quel "mondo giocattolo" Alana e Gary sono le uniche presenze reali che possono ammirare mondi dorati come scintillanti promesse solo grazie al fatto di non appartenervi, se non altro per “privilegio d’anagrafe”: