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13.9.21

Festival del Cinema di Venezia 2021 - Giornate finali


Ed ecco l'ultimo, interessantissimo, pezzo da Venezia.
Un sacco di film (compreso il Leone d'oro, i D'innocenzo, il "mio" Plà e Mainetti), 3 voci a raccontarli (son rimasti solo i maschietti).
E anche per quest'anno, con grandissima fatica, ma ce l'abbiamo fatta :)


LORENZO BRINCI

L'EVENEMENT di Audrey Diwan



L’evenement, ambientato nella Francia del 1963, racconta di Anne (interpretata da una sorprendente Anamaria Vartolomei) una studentessa dal futuro radioso. Una gravidanza indesiderata mina la possibilità di concludere il percorso di studi con successo.
La ragazza non si sente ancora pronta per un passo così importante e rinunciare alla sua indipendenza col rischio di ritrovarsi ad odiare uno dei doni più belli che la vita può offrire,
così sceglie la via dell’aborto. Poiché all’epoca era una pratica illegale e comportava la condanna anche per i complici di quello che era considerato un vero e proprio crimine, viene ostacolata e ripudiata da amiche, medici e famiglia. Una società che sembra tanto distante nel tempo quanto vicina nelle dinamiche. Seppure l’aborto sia ormai legale, in Francia come in Italia, è inutile ignorare il bigottismo che aleggia nella società in cui viviamo e che colpisce anche i medici obiettori di coscienza. 
L’opera ha il pregio di coinvolgere lo spettatore, senza mai scadere nella retorica, anche grazie ad una regia che si serve di primi e primissimi piani e della camera a mano per le sequenze più concitate. Inoltre grazie al ritratto di figure maschili che ostacolano la protagonista o sono prive di empatia nei suoi confronti, riesce a provocare un forte senso di colpa nel pubblico maschile. Emerge chiaramente che una gravidanza indesiderata non riguarda esclusivamente la donna in attesa, ma anzi le persone che la circondano (ed in senso lato la società) hanno l’obbligo morale di comprenderla ed aiutarla a prendere la scelta che ritiene più opportuna in totale libertà.


AMERICA LATINA di Damiano e Fabio D'Innocenzo


Il protagonista di America Latina è Massimo Sisti (interpretato da uno strabiliante Elio Germano), il titolare di uno studio dentistico che porta il suo nome. 

All’apparenza la sua vita sembra perfetta: un lavoro di tutto rispetto, una grande villa e una famiglia che lo ama.

Ben presto, però, emergono tutte le sfumature di quella che capiamo essere una persona sensibile, fragile ed insicura. Nella quotidianità cerca di nascondere tutti quelli che nella società odierna sono considerati difetti ma, alla lunga, tenere a bada tutte le emozioni più insite può essere molto difficile. È evidente che Massimo sia vittima del ruolo che è costretto ad interpretare e che soffra le pressioni che ne derivano. 

I D’Innocenzo scandagliano in modo sottile l’anima fragile di un uomo comune, servendosi di simbolismi e metafore. I registi realizzano un’opera ambigua e surreale affidando allo spettatore l’importantissimo compito di riempire l’opera con la propria sensibilità. 

La messa in scena è sublime. La regia regala delle sequenze indimenticabili che culminano in un epilogo da pelle d’oca, riuscendo nel miracolo di risultare funzionale al racconto e al contempo estremamente ambiziosa. 

La fotografia di Paolo Carnera è talmente colorata e d’impatto da risultare surreale, dunque perfettamente in linea con il racconto. La scenografia di Roberto De Angelis ed i costumi di Massimo Cantini Parrini sono scelti e curati nei minimi dettagli. La tensione crescente alimenta un ritmo incalzante scandito dal respiro del protagonista (che si fa man mano più affannoso), dalla colonna sonora (realizzata dai Verdena) e dal montaggio di Walter Fasano decisivo nei momenti topici. Le interpretazioni sono tutte molto riuscite, si percepisce che le attrici e gli attori abbiano dovuto scavare nei propri meandri più nascosti per raggiungere questo livello. Impossibile non soffermarsi su Elio Germano che riesce a trasmettere l’ampissima gamma di emozioni e sfumature del suo personaggio. 

Insomma, se tutto funziona così bene ed i reparti eccellono in questo modo vuol dire che i direttori d’orchestra dietro la macchina da presa, comunemente noti come registi, sono grandi.

Questo è un’opera libera, che sorvola e trascende gli schemi dei generi per superarli. Ciò non denota mancata conoscenza delle regole, ma al contrario grande consapevolezza e padronanza del mezzo.

Un’esperienza unica, che come tale va vissuta.  La visione in sala è imprescindibile.

Astenetevi dal giudizio estemporaneo e lasciate crescere il film dentro di voi, perché vi assicuro che non termina con i titoli di coda.


TOMMASO FERRERO

KAPITAN VOLKONOGOV BEZHAL (CAPTAIN VOLKONOGOV ESCAPED) di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov (Russia)


1984, A Christmas Carol e l’umorismo serio di Konchalovskij in un solo grande e assurdo film. In una versione altamente estetizzata e leggermente fantastica della Russia sovietica prende piede un lungo inseguimento. Il capitano Volkonogov, addetto ai trattamenti speciali per ottenere le confessioni dai sospettati di tradimento contro la patria, ha un’epifania. Quello che sta facendo è solo un atto coatto di tortura in nome di un ordine pubblico mantenuto con il terrore. E allora la questione è semplice: decide di scappare. Ma la sua fuga si trasforma ben presto in altro. Dovrà farsi perdonare dalle famiglie dei condannati se vorrà andare in paradiso. 

Ogni anno al festival si presenta un bel film russo. Fra quelli che ho visto, questo è sicuramente il più bello. Senza alcuna paura si mostra il lato violento del potere, ma anche il suo lato attrattivo e più ammaliante, in un percorso alla di ricerca del perdono di chi non avrebbe motivo alcuno di perdonare. Ne nasce un bellissimo sistema di tipi umani, con cui il capitano dovrà scontrarsi per ottenere un perdono che sente di non meritare. Un film orchestrato magistralmente, con due o tre scene di un livello cinematografico altissimo che lo potrebbero elevare a livello di cult. Il film non ha cali di rimo e, anzi, scorre che è una meraviglia.

Spero in una distribuzione in sala, sarebbe un film che rivedrei volentieri per poterne assaporare nuovamente il senso elegiaco e il profumo colorato che viene dato alla città sovietica, che diviene un organismo vivo, pulsante che assume nuove connotazioni mano a mano che conosciamo i suoi abitanti. Già dalla prima scena si può leggere una grande critica al potere, mentre i funzionari statali in divisa giocano a pallavolo in una stanza barocca, sfiorando e colpendo più volte un bellissimo lampadario in cristallo. Un lavoro accuratissimo a partire dai costumi e dalla scenografia, che reinventano l’immaginario della Russia sovietica, potenziandone, anche con una sceneggiatura e una regia di gran livello, le dicotomie e le grandi ombre.


FREAKS OUT di Gabriele Mainetti (Italia)


Finalmente. Io dico finalmente perché Freaks Out è un miracolo italiano, è un nuovo tassello per l’industria cinematografica nazionale, è un messaggio a produttori, autori e al mondo che anche noi possiamo fare qualcosa di bello, nostro ma con un respiro internazionale. Un film che possa andare in sala e muoversi insieme agli interpreti internazionali, ai loro effetti speciali. Che in sala possa richiamare i giovani e dimostrare che il cinema non è morto e resta a galla solo grazie ai film della Marvel. Freaks Out è un film semplice, la trama ha anche qualche buco ma, dopotutto, chissene frega. 

Un gruppo di fenomeni da baraccone si muove per la Roma dei primi anni ‘40, dove la guerra imperversa e i rastrellamenti nazisti stanno seminando il terrore nelle comunità ebree e nei quartieri popolari. I nostri vogliono scappare in America, ma proprio il loro capo Israel, un mago eclettico ma protettivo nei confronti dei suoi amici, viene preso e messo su un treno per la Germania. Il gruppo si divide fra chi vuole salvare Israel e fra chi vuole raggiungere il circo tedesco stanziato al centro di Roma, così da trovare una nuova casa. Non sanno che però il proprietario di tale circo li sta cercando per aiutare il Reich a vincere la guerra… 

Freaks Out è bello da vedere. Come il precedente di Mainetti è una rilettura italiana di un film di supereroi, ma ha un respiro unico, profondo, i personaggi sono intelligenti e ben calibrati. Io credo che questo film batta in bellezza e intelligenza almeno la metà dei film della casa americana dei supereroi, creando un nuovo standard italiano di film. Scenografie di ottima maestranza, costumi e iconografie da cinema pop, ma con una bellissima rilettura da favola dei partigiani, che mi ricordano una versione mista fra Miyazaki e Calvino. Non viene meno, comunque,  la presenza di una guerra crudele e violenta e una rappresentazione comunque reale di uno dei periodi più bui della storia umana. Resta il fatto che ci siano grandi interpreti (il gestore del circo è veramente spaziale), bellissime scelte registiche e una colonna sonora di grandissima qualità. Il film crea un universo tutto suo, in cui perdersi è un piacere. Non mancano difetti, e sicuramente chi si aspetta un film profondo e di grande riflessione resterà deluso. Questo è un blockbuster, ma che blockbuster.

Il film va visto, va supportato, va dimostrato che l’investimento incredibile portato in sala da dei produttori italiani può essere ripagato. Io mi sono commosso nel capire che effettivamente si può fare qualcosa del genere nel nostro paese, dove l’industria cinematografica relega la sala solo ai film d’autore di alcuni eletti o a pellicole internazionali. Qui c’è una favola partigiana, un film di supereroi, un film per il pubblico, ma un film nostro, un grande atto d’amore per il cinema. Andate a vederlo. Parlatene. E’ giusto che il coraggio venga ricompensato. 


PILGRIMAI (PILGRIMS) di Laurynas Bareisa (Lituania)


La mia recensione sarà falsata purtroppo, avendo io dormito per i primi 40 minuti di film a spizzichi e bocconi. C’è da dire che l’inizio non favorisce la visione, essendo un film dai ritmi inesistenti. Un ragazzo viaggia con l’ex di suo fratello per visitare in pellegrinaggio i luoghi chiavi del rapimento e poi dell’omicidio del suddetto fratello. E’ un viaggio lento e sentito, in cui i due riscoprono gli ultimi tragici momenti del loro amato.

Pilgrimai resta poco empatico come film, i suoi protagonisti sembrano non provare emozioni e il protagonista è un totale disadattato. Quello che sembra essere un bellissimo incipit si trasforma presto in un film trascinato e stanco, che cerca di raffigurare un paese intero come complice negligente di un efferato omicidio. Forse dovrei rivederlo, ma non ne troverò la forza per un po’. Affido a voi l’ardua sentenza.


LIFE OF CRIME 1984-2020 di Jon Alpert (USA)


Un documentario che nel modo di essere raccontato, nella dedizione con cui è stato montato e nella sua forza mi ha ricordato Dear Zachary, che già su questo blog è stato decantato (recuperatelo, ecco la recensione del nostro amatissimo Giuseppe http://ilbuioinsala.blogspot.com/2017/03/recensione-dear-zachary.html ).

Il regista segue dal 1984 al 2020 la vita di due ladri di Newark, New Jersey, e di una loro amica/amante/fidanzata, seguendoli passo a passo nel loro percorso nel crimine e nella droga. Un film fortissimo, cinico ma al contempo umano, che ci mostra il declino di personalità incredibili a cui riusciamo ben presto ad affezionarci. Ci vuole stomaco e forza per girare un lavoro del genere, per vedere ciò che si è costruito per anni tra amicizia e conoscenze lasciarsi andare in un percorso totale di autodistruzione. 

Un manifesto umano ed enorme sulla sensibilizzazione a ciò che la dipendenza da droga può essere, ma soprattutto, tre storie di persone speciali nella loro non specialità, che grazie a questa opera verranno conosciute e diventeranno bandiera di miliardi di senza nome che lottano ogni giorno contro la propria vita. Ho pianto copiosamente, non sarei mai stato in grado di avere la fermezza del regista in un progetto del genere. Da recuperare appena possibile.


INU-OH di Massaki Yuasa (Giappone)


Inu-oh è un nome perso nei secoli, un danzatore, un musicista, un artista autore di versi che hanno infiammato gli animi dei giapponesi secoli fa. Peccato che oggi il suo nome sia stato cancellato dagli annali e le sue opere siano scomparse. In una lettura rock-pop vediamo la vita di Inu-Oh e del suonatore di Biwa a lui amico correre lungo il Giappone. Nato mostro, piano piano si trasformerà in una rockstar rompendo la sua maledizione, arrivando addirittura a pestare i piedi all’imperatore. 

Inu-Oh è un’opera strana, complessa, a tratti animata con una forza incredibile, creando giochi visivi e trasformazioni di colore di grandissimo livello. Grande pecca è la continua ripetizione di intere scene, che vengono riutilizzate delle parti musicate, a mo’ di video musicale per intenderci. Il film è a tratti un musical e secondo me un’esperimento di grande valore cinematografico per la sua struttura narrativa. Capisco che possa non essere piaciuto a tutti, ma a ognuno la sua tazza di tè.


CONSIDERAZIONI FINALI

Mi è spiaciuto molto quest’anno restare meno al festival. Non vedevo una selezione così varia ed interessante da anni e, anzi, da quando vado credo sia la migliore selezione che io abbia visto. Non posso giudicare i premi non avendo visto nemmeno uno dei film vincitori (ahimè) ma so che chi ha visto il leone d’oro lo ha adorato trovando un film intelligente e di grande qualità. Io preferisco attenermi a ciò che so. Ho visto alcuni film davvero eccezionali, trovando diversi autori che avevano qualcosa da dire e a modo loro, passando da un film elegante come Ariaferma a qualcosa di sorprendente come possono essere Mona Lisa e Kapitan Volkonogov. Io sono stato contentissimo di poter tornare in sala con questa varietà e questa forza espressiva, spero davvero che tutti i film che ho visto possano trovare uno sbocco nelle sale italiane perché meritano di essere visti. Il Cinema non sta morendo ed ha ancora tanto da dare, e questo festival lo ha confermato. L’anno prossimo spero di poter dire la stessa cosa, nel frattempo mi godrò le uscite di ciò che ho visto e di ciò che ho perso. Andate in sala, loro vi aspettano.


ENRICO GASPARI

CORTOMETRAGGI

Tou sheng, ji dan, zuo ye ben

Cina, oggi: una scolaretta, rappresentante di classe, deve tenere un discorso sulla famiglia, mentre la madre a casa subisce le botte di un marito violento. Corto molto carino, a misura di bimbo, pur efficace nella denuncia di una situazione famigliare opprimente (e si scoprirà, diffusa) e l’ipocrisia della società che ci sta dietro.


Mulaqat

Ovvero tempesta di sabbia, corto pakistano, probabilmente il mio preferito di questa trafila, con una magnetica protagonista dal bel nome di Zara, ragazza che cerca di aggirare il tradizionalismo della società chattando online con un suo giovane connazionale. Praticamente è la stessa premessa del precedente “Hair tie, egg, homework books” (ora che ci penso, non ho visto uova nel corto cinese), cambia il paese e l’età della protagonista, ma lo stile è molto più vibrante, il finale interrotto ancora più angoscioso. Fa quello che un corto dovrebbe fare, raccontare una piccola vicenda senza farti perdere tempo. Da segnalare una rappresentazione dell’internet finalmente non idealizzato come strumento di fuga, ma come estensione digitale della nostra realtà, e quindi anche delle persone che ci vivono.


Heltzear

Ancora un racconto di ragazza adolescente, stavolta nella regione basca della penisola iberica. È una lettera aperta ad un fratello non in casa, da parte di un’aspirante scalatrice come lui fu. La protagonista è brava, l’idea buona, ma il corto è senza infamia e senza lode.


La Fée des Roberts


Ovvero la Fatina delle Tette. Delirante corto animato francese, ai limiti della presa per i fondelli, che intreccia (si fa per dire) due relazioni tossiche, una madre e una figlia che vogliono le bocce più grandi, e un perverso domatore del circo con la sua tigre. L’animazione è grottesca almeno quanto la storia ma con una sua personalità, e direi che vale per il corto in genere: pacchiano, ma talmente tanto che quasi fa il giro diventando divertente. Non annoia, questo è sicuro.


Il turno

Ecco, invece questo corto italiano oltre che pacchiano e stupido fa anche parecchio incazzare. Una vecchia morente, in Campania: si alternano notte e giorno una badante locale e una di colore. Oltre ad essere il nulla che racconta il nulla, diventando infine il nulla, oltre a spacciarsi per autoriale solo per un paio di montaggi veloci e musica metal in sottofondo (Miss Marx anyone?), questo spreco di un quarto d’ora commette anche l’atroce crimine di voler mandare un messaggio sociale totalmente immeritato. Chiudiamola così, che non ho più voglia di sprecare altre parole per questa spazzatura.


Don’t get too comfortable

Altro corto narrato in voice over dalla stessa regista, che parla della storia della sua famiglia. Poco da dire anche qui, purtroppo la narrazione è confusa e parecchio dimenticabile, tanto che faccio fatica persino a ricordare di cosa parlava. Da Youtube più che da cinema.


The Night

Proveniente da Hong Kong, qualcosa che potrei definire più collage che corto. Sono solo riprese di un quartiere, senza dialoghi, personaggi o storia. Molto noioso, specie per la poca varietà di immagini, tutte strade di notte e poca varietà.


Preghiera della sera (diario di una passeggiata)

Non posso per onestà intellettuale, dare un giudizio obbiettivo su questo corto, essendo uscito dopo 3 minuti su 17 di durata dalla sala. Certo, avevo il traghetto da prendere, ma forse avrei rinunciato se fosse stato interessante. Invece è solo il resoconto autopromozionale di una compagnia teatrale che denuncia le difficoltà degli artisti in periodo covid (ma va?). Mi stavano venendo i brividi al pensiero dell’anno scorso, quando vidi la versione di Guadagnino su questo, Fiori fiori fiori: almeno il 2021 me lo sono risparmiato, e sono uscito, via da lì.

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INU-OH di Masaaki Yuasa


Premetto, nonostante la mia grande passione per gli anime giapponesi, di essere solo superficialmente informato sul cinema di Masaaki Yuasa. Lo so essere un regista molto prolifico e in rampa di lancio negli ultimi anni, apprezzato per il suo stile sperimentale in opere come “The Night is short, walk on girl”, e quel Ride your wave che a pelle pare davvero meraviglioso. Avevano in programma di proiettare quest’ultimo al cinema nella primavera 2020, prima della nota chiusura delle sale, e lo consiglio a scatola chiusa visto che è recuperabile su Prime. Questo per dire, è il mio primo contatto con il suo cinema, e lo dico subito con completa onestà: probabilmente non è la mia tazza di latte, ma Inu-Oh rimane un film da vedere. La storia, come ci informa un velocissimo testo all’inizio (nel senso che riesci a malapena a leggerlo prima che scompaia, anche vedendolo due volte ho avuto difficoltà), è basata sul vero. Fanno infatti da sfondo due classici spunti per l’arte visiva giapponese: le mitiche lotte tra clan nel Giappone pre-isolamento e il celeberrimo teatro Noh. L’epoca dove quest’ultimo era appena stato sbozzato, il XV secolo, è lo sfondo meravigliosamente musicato a colpi di biwa, di quella che il regista ci presenta come una storia di amicizia tra due ragazzi, Tomona ed Inu-Oh. Il primo è un giovane pescatore di Dan-no-ura, dove il clan Heike venne sconfitto dagli ancora regnanti Genji nel 1185 (battaglia questa, che è un po’ lo sfondo dello sfondo); il secondo, un deforme essere nascosto sotto una maschera di zucca, forse maledetto. Da queste informazioni che ho faticosamente allacciato in una sintesi si può avere una prima idea di che bizzarria sia questo film, anche per gli standard dei film animati giapponesi: Storia, musica a profusione, spiriti che vivono tra noi, politica. E non ho nemmeno menzionato un decimo di tutto quello che l’anime mette dentro questa folle ora e mezza. Da non fraintendere il mio discorso, è un accumulo a suo modo affascinante, che comincia a stufare (diciamo che lo spettatore raggiunge il punto di saturazione) dopo i primi quaranta minuti di film, paradossalmente proprio quando la storia sembra trovare per la prima volta una propria struttura. Si scopre infatti una misteriosa connessione tra la disfatta degli Heike e l’aspetto raccapricciante di Inu-Oh, che torna più umano ad ogni racconto sui samurai sconfitti. Racconti che, non c’è altro modo di dirlo, si trasformano presto in altrettanti videoclip che prendono praticamente in ostaggio il film. Certo, già prima era di fatto un musical, ma nel contesto della musica tradizionale dell’epoca, dichiaratamente omaggiata (“la nostra Storia, che ci è stata portata via”); da quel punto, le canzoni prendono una deriva totalmente antistorica sia nel suono, con schitarrate elettriche, batteria e chi più ne ha più ne metta, sia nelle immagini, con effetti luminosi da concerto rock, folle che si muovono a ritmo, persino un cacchio di scheletro samurai che fa la breakdance. All’inizio sei pure sorpreso e divertito, poi per Dio, dopo un quarto d’ora senza dialoghi ti sei anche rotto le scatole di tale festone.

Dico peccato per questi difetti perché in gran parte concentrati nel mezzo, mentre l’inizio e la fine vanno dal “bello” al “geniale”. Le premesse sono molto originali, abbastanza coraggiose da mischiare un’amicizia quasi miyazakiana e una certa violenza grafica. L’animazione è non solo bella durante tutto il film, ma anche molto particolare (l’inizio al villaggio dei pescatori mi ha ricordato un “I figli del mare” minore), colorata, ricca di dettagli e design tutti diversi anche per le comparse, gestita in vere e proprie inquadrature molto cinematografiche, tra cui un piccolo piano sequenza. Come ho detto la musica, fino a che rimane quella malinconica del biwa, è una gioia per le orecchie: ma devo ammettere che il mio momento preferito, quello che mi ha letteralmente strappato un brivido, in cui le note si compenetrano perfettamente con la storia e l’animazione, è durante l’ultima performance. Non solo c’è una grande costruzione (l’eclissi, lo shogun e la sposa che assistono), non solo la vista è ottima (le luci, il volo a pelo d’acqua), ma soprattutto si chiariscono tante cose che, specie ad una seconda visione, elevano immensamente anche il resto del film. Non me ne voglia il bel finale in stile “Una Tomba per le lucciole” e l’intenzione di Yuasa di parlare d’amicizia prima di tutto: per me questo è stato un film di uomini e di mostri, di ossessione, di innocenza sacrificata, ad una vecchia maschera cattiva.


EL OTRO TOM di Rodrigo Plà e Laura Santullo


Ovvero l’altro Tom: la versione ideale di un bambino, quello che Elena forse vorrebbe, o il figlio turbolento e problematico ma autentico? Rodrigo Plà lo conosco solo di striscio, per l’importanza avuta dal suo primo film qui dove si scrive, ma lo precede la fama di autore scomodo, i cui film (im)pongono domande e riflessioni. El otro Tom, in co-regia con la da me sconosciuta Laura Santullo, non fa eccezione, trattando il riconosciuto uso eccessivo dei medicinali negli Stati Uniti. In questo caso in particolare, psicofarmaci per bambini. Davvero lodevole l’idea di questo cinema impegnato, che fa informazione attraverso la drammatizzazione: non un documentario quindi, ma nemmeno un film d’intrattenimento che cerca di apparire moderno lanciando nel mucchio qualche pretesa di critica sociale. La storia di una madre separata che deve crescere il figlio tra ogni sorta di difficoltà viene affrontato nel modo ideale, senza fronzoli e con una regia invisibile, dedita solo alla narrazione. Se il film pecca, è probabilmente nel non scegliere una precisa strada, dramma materno o denuncia sociale. Devo ammettere che questo non è il mio stile, il cinema che mi entusiasma è altro. Ma se devo vedere un bel film politico o un bel film drammatico, preferisco sia deciso nei suoi obbiettivi, e non aiuta che El otro Tom sia pure leggermente annacquato da una durata eccessiva, quasi due ore che dalla metà in poi tendono abbastanza ad annoiare. Rimane una pellicola coraggiosa, per niente spaventata da temi così difficili e potenzialmente anticinematografici, e anche se non lo rivedrei mai, mi sento lo stesso di consigliarne almeno una visione.
 

THE LAST DUEL di Ridley Scott


Ridley Scott torna all’epica in costume, dovrebbe bastare per dare un’occhiata a The Last Duel. Certo, il regista inglese potrà anche aver perso la capacità di scegliersi i progetti dato che non seleziona una sceneggiatura veramente brillante da anni, ma quella di dare un perché, anche solo visivamente, ai propri progetti rimane indiscutibile. Questa poi è materia per lui, una storia ambientata in quel Medioevo dei cavalieri franchi che aveva già raccontato in Kingdom of Heaven, ma da una prospettiva molto più intima del grande racconto delle crociate: l’ultimo duello è quello detto “di Dio”, forma giuridica oramai in disuso in Francia ma concessa per l’ultima volta nel 1386, dove due avversari in un processo si battono appunto, chiamando a testimone l’Onnipotente perché premi il giusto con la vittoria e colui in torto con la sconfitta. Protagonisti, Jean de Carrouges, in nome della moglie Marguerite, accusante il cavaliere Jacques Le Gris di stupro.

Una storia estremamente affascinante di cui ammetto non aver mai sentito parlare, nonché attuale; pure troppo, forse. Il difetto maggiore di The Last Duel è essere un film hollywoodiano del 2021, che quindi deve piegare la propria storia al messaggio che si vuole dare. Chiariamoci, ho precedentemente citato Le Crociate (ma potevo dire anche Il Gladiatore o 1492) come esempio positivo non a caso: anche quello è un film che preferisce decisamente il mito alla Storia, e va benissimo perché il compromesso è chiaro, fatto in nome dell’intrattenimento e della spettacolarità. Il nuovo film di Scott vorrebbe invece trasmettere un messaggio attualissimo e da prendere molto seriamente raccontando la solita versione bugiarda del Medioevo tenebroso, superstizioso e misogino che ormai ha rotto ampiamente le scatole; preoccupante poi che un film costruito come il racconto di tre diversi punti di vista vada contro la propria stessa struttura narrativa, insinuando che esista una sola verità, quella di Marguerite. Ed è un peccato, perché si vede benissimo come Ridley Scott ami quel mondo di dame e cavalieri, da come lo riprende, da come l’ha allestito in modo da renderlo vibrante, appassionante, pieno di vita. Basta vedere la scena iniziale da brividi per rendersene conto, che getta lo spettatore in quel mondo freddo e bluastro da cui uscirà solo due ore e mezza dopo, nel mio caso senza il minimo senso di noia, anzi esaltato da un grandissimo finale. Al massimo rimane un po’ di frustrazione nell’assistere a questo scollamento tra l’immagine e la parola, curata molto meglio in Old Henry per dire, che è ambientato solo 100 anni fa. Giudizio spaccato a metà anche per gli attori: lei è la migliore del cast, Adam Driver ottimo come sempre anche in un personaggio ambiguo e a tratti odioso; da segnalare il suo servitore, ovvero Hickey dalla prima stagione di The Terror, ancora nel ruolo del viscido. Matt Damon invece è sempre un buon attore, ma con quella faccia da brioche che c’ha impossibile prenderlo sul serio nel terzo atto, quando diventa a random il marito possessivo e superbo. Ben Affleck in versione ossigenata invece è un pugno in un occhio, per di più in un ruolo che sembra uscito da una parodia se non direttamente un so-bad-it’s-so-good. In breve, la prescrizione del dottore (ovvero me) dice: da guardare con entusiasmo, ma all’uscita dal cinema (perché va visto sul grande schermo) controbilanciare con almeno 4 ore di conferenze di Alessandro Barbero (personalmente consiglio Sesso nel medioevo tra piacere e pregiudizi + le 3 parti di “Come pensava una donna nel Medioevo”), così da unire l’utile al dilettevole.


TRES di Juanjo Giménez


Possibilmente noto come “Out of sync”, questo film spagnolo è forse stata la grande sorpresa del festival (va detto, ero già stato messo in allerta da un consigliere di fiducia): è la messa in atto di una sola, grande idea, ovvero cosa succederebbe alla nostra vita se sentissimo i suoni fuori sincrono. È quello che succede alla protagonista senza nome e vagamente somigliante a Rosamund Pike di Tres, che per ironia metacinematografica lavora in uno studio del suono. Li, tra pubblicità e lungometraggi da completare, si accorgerà di quel mezzo secondo di scompenso, che poco a poco diverrà interi minuti di ritardo. Non è il primo film a giocare con il ruolo dell’udito, specie in campo meta: andrebbero almeno citati il classico di Brian de Palma Blow Out, anch’esso con protagonista un tecnico del suono, nonché il più recente Berberian Sound Studio. Rimane la prima volta che vedo l’attuazione di qualcosa di così radicale, che ancora più dei modelli appena citati, mi ha fatto venire in mente l’analogo gioco intellettuale che il bellissimo Pontypool faceva con la parola. Misterioso, particolare, questo Tres non si risparmia una certa dose di umorismo nero (immaginate solo gli inconvenienti di avere l’intera vita fuori sincrono), così come momenti davvero emozionanti. No, non tanto nel finale un po’ troppo spiegonato e dove vengono suggeriti sviluppi onestamente non necessari, ma nella parte centrale, dove per un breve momento di pace la nostra protagonista si gode la vita persino in quella condizione unica. E non fatemi cominciare su quel punto dove il suo collega la porta al cinema in tempi sfasati, che è probabilmente la scena dell’anno e di sicuro migliore di interi film visti qui a Venezia. Dategli una possibilità, non ve ne pentirete.

 
A PLEIN TEMPS di Eric Gravel


“A tempo pieno” credo mi rimarrà dentro, se non altro per via della sorpresa. È stata una sorpresa scoprire quanto fosse bello, ma anche scoprire il fatto stesso che lo avrei visto. Non era scontato cosa sarebbe venuto fuori da quella prenotazione “proiezione miglior regia Orizzonti”, almeno fino alla sera dell’ultimo giorno, dopo le premiazioni. Va detto, un premio più che meritato. A plein temps racconta di una madre separata, Julie, e del suo giostrarsi tra il lavoro e i due figli piccoli. A plein temps, anche se non sembra dalla trama, è un film d’azione. Anzi, forse è il film d’azione più concitato mai visto ad un Festival. Ovviamente non parliamo di pistole, inseguimenti in macchina e botte da orbi, ma della frenesia di una vita qualsiasi nel nostro tempo. Julie si alza ogni mattina, in campagna, ben prima che il sole sorga. Il suo lavoro di cameriera a Parigi non le permette una babysitter, deve lasciare i suoi bambini a casa di un’anziana vicina. La sua vita è una corsa, per arrivare il mattino presto ad un hotel a 5 stelle della capitale francese, e ha il ritmo di una colonna sonora martellante e opprimente, quasi alla Hans Zimmer ma meno barocca (sconsiglio caldamente la visione a chi soffre di ansia o tachicardia, questo film non lascia requie alla propria protagonista o tantomeno agli spettatori). Una settimana succede tutto quello che potrebbe succedere: uno sciopero che non sembra finire mai e paralizza i mezzi di trasporto, il compleanno del figlio, un colloquio segreto per un lavoro meno logorante, e tantissimi altri problemi che tengono Julie in tensione come una corda di violino, e sai che quella corda si spezzerà, prima o dopo. Tutto questo rende “A tempo pieno” un’altra versione di El otro Tom, fatta in modi completamente diversi e decisamente a me più congeniali: una vera esperienza cinematografica, di quelle opprimenti ma impossibili da mollare, con un ritmo impazzito che non molla mai per quella oretta e venti di durata e un’attrice fantastica, anch’essa giustamente premiata alla mostra. Lascio a chi vorrà vederlo il dubbio sul finale: il punto di rottura arriverà, spezzando ogni sforzo di Julie di tenere la sua vita assieme, o ci sarà una ricompensa per tutto ciò che ha attraversato in quella folle corsa? Da scoprire e da godere, con i nervi a fior di pelle.

CONSIDERAZIONI FINALI

Anche quest’anno Venezia è andata, ed è stato un privilegio vederla (e raccontarla) fino all’ultimo. Non commenterò i premi, poiché non è stato possibile avere una visione né complessiva del Festival, specie all’inizio con tutti quei grandi nomi (mi limiterò a questo: il miglior film Orizzonti è uno scandalo e non avrebbero potuto darlo a film peggiore), né in particolare del vincitore del Leone d’Oro 2021. Ancora, nulla di nuovo, l’importante è stato potersi immergere in quel clima febbrile da Festival, che è stato all’insegna dell’arte e dell’improvvisazione anche in quest’anno di rigidi controlli e prenotazioni all’ultimo sangue. Alla fine, una volta posata la polvere, rimane solo un po’ di stanchezza e tanto, tantissimo cinema: spero che tutto questo sia trasparso dalle mie umili e totalmente soggettive recensioni. Un grazie a chi ha letto e commentato, da Venezia 78 passo e chiudo.




7 commenti:

  1. Lo so che sono un rompicoglioni... ma perché vi ostinate a chiamare "Festival" la MOSTRA del Cinema di Venezia? Le parole sono importanti, diceva qualcuno.

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    1. non sei rompicoglioni, hai ragione ;)

      me so sbagliato anche st'anno

      il prossimo anno avverteme un mese prima che preparo già i post col titolo giusto

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    2. in ogni caso è un festival Sauro eh, hai ragione di mettere i nomi ufficiali ma sempre un festival rimane, qualsiasi definizione troverai in rete di Venezia ti dirà festival

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    3. Alberto Barbera è riuscito, lentamente, faticosamente, a restituire dignità e prestigio a Venezia, che ormai è sullo stesso livello di Cannes. Chiamare "festival" la Mostra sminuisce la rassegna e la rende subalterna ai cugini francesi. Stiamo pur parlando della rassegna cinematografica più antica al mondo.

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    4. Capisco la tua battaglia

      sarà che io alla parola festival non vedo niente di sminuente

      e alla fine quello è, c'è una giuria e dei premi, qualsiasi cosa ho trovato in rete dice "La mostra di venezia è un festival..."

      quindi boh, non vedo nei nomi un plus o un malus, alla fine contano i film ;)

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  2. Sì dai non litigate per questo!!!
    Già in giro vedo Blog/blogger scannarsi per la questione vaccino e l'apocalisse che questo porterà , se vi mettete pure voi per sta cosa.
    Sai Caden che fra poco parte il FESTIVAL DI SAMBUCA? -:)))
    Però Sauro ...se cerchi su google ti da Festival del cinema per Venezia.
    Poi per far contenti tutti Wiki ti scrive la Mostra di Venezia è un Festival cinematografico.

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    Risposte
    1. No, ma chi litiga :)

      Poi Sauro st'anno ha il Montevarchi in serie c ed è teso del futuro derby sol Siena, ci sta

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