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30.12.22

Recensione: "Ariaferma" - Su Prime

 

Dopo L'Intervallo, opera prima gioiello di 10 anni fa, ritrovo Leonardo Di Costanzo con un film altrettanto bello (forse mi resta meno nel cuore solo perchè il soggetto e i protagonisti del primo film sono, per me, indimenticabili).
Un carcere vecchissimo deve essere chiuso.
Tutti i carcerati andranno trasferiti.
Tredici di loro, però, devono rimandare il trasferimento.
E così si ritroveranno a passare dei giorni (che diventano sempre di più, in un film in cui il concetto di tempo sospeso e indecifrabile viene gestito in maniera mirabile) con i loro carcerieri.
Più tempo guardie e carcerati passeranno insieme (in un luogo unico e circoscritto, lo stanzone principale del carcere) più inizieranno ad avvicinarci, capirsi, parlarsi, forse persino riconoscersi e scoprirsi "più uguali" di quello che pensavano.
La scrittura di Di Costanzo è, ancora una volta, dolce e sussurrata, il suo modo di fare cinema mai urlato, tutto incentrato sui dialoghi e i rapporti umani che da impossibili diventano possibili e virtuosi.
E poi quando ti trovi Servillo e Orlando nella stessa stanza sei già a posto

Ritrovo Leonardo Di Costanzo dopo circa 10 anni.
Regista dalla parabola inusuale, primo film ben oltre i 50 anni e 4 soli lungometraggi in totale.
Vidi la sua opera prima, L'Intervallo, e il ricordo - bellissimo - è ancora forte.
Film dolcissimo, intimo, come sospeso nel tempo (del resto anche il titolo richiama questa sospensione temporale) che racconta l'obbligata convivenza pomeridiana tra due coetanei, in un vecchissimo edificio dismesso.
Lei ha fatto qualcosa che non è piaciuta ai boss del paese, lui, un ragazzo straordinario, deve stare lì a "controllarla" alcune ore.
Dieci anni dopo mi ritrovo Di Costanzo con un film che sembra completamente diverso ma, a ben vedere, ha punti in comune giganteschi con l'Intervallo.
Intanto la location, l'edificio distrutto del primo, il carcere ottocentesco vecchio e decrepito di quest'ultimo.
(Con la particolarità, tra l'altro, dell'unità di luogo per entrambi i film.)
E poi la presenza di due soli protagonisti, anche se in un caso abbiamo due persone singole (una ragazza e un ragazzo), nell'altro due schieramenti, le guardie e i carcerati.
Volendo forzare la similitudine potremmo anche dire che ne L'intervallo avevamo comunque una "prigioniera" - lei - e una buonissima e "involontaria" guardia, lui.
Entrambi i film poi raccontano "un'emergenza" che porta le due parti a dover passare del tempo insieme, impossibilitati ad andar via.


In Ariaferma l'emergenza è data dalla notizia che alcuni carcerati - 13 se non sbaglio - non possono essere trasferiti nel carcere dove erano destinati.
Il trasferimento è dovuto alla chiusura definitiva del carcere protagonista del film, una struttura vecchissima, distrutta, fatiscente.
Tutti i prigionieri devono dunque andar via ma per quei 13 c'è un inghippo burocratico (o logistico, non ricordo) che non può farli muovere.
Quindi, per un tempo che doveva essere di una sola notte e diventerà invece indeterminato (quasi alla Godot) guardie e carcerati dovranno convivere insieme in quella struttura, tutti riuniti in un unico stanzone centrale disposto di celle.
Come ne L'Intervallo questa convivenza forzata porterà le due parti a conoscersi sempre di più, parlarsi, capirsi, avvicinarsi.
E, soprattutto, riconoscersi.

Belli questi film di Di Costanzo, belli per questi soggetti minimi ma potenti, per questi minuscoli e temporanei status quo in cui i protagonisti, anche non volendo, sono costretti ad avvicinarsi umanamente.
Stavolta Di Costanzo si serve di mostri sacri come, per restare in metafora, il Mostro dei mostri Toni Servillo, il grande Silvio Orlando e quello che per me sta diventando sempre più una scoperta, Fabrizio Ferracane (visto in almeno 4 film in due anni, davvero notevolissimo, specie per quel suo viso "cattivo").
Sono davvero tanti i punti di forza del film, come l'atmosfera "sospesa" ("Potrebbe essere domani" dice continuamente Servillo riferendosi al trasferimento, ma quel domani mai arriva) che può ricordare - anche se con significati molto diversi, sicuramente qua meno trascendentali - quel capolavoro di film che fu Una pura formalità (del resto anche qua sembra che manchi "una pura formalità" per sbloccare la situazione).
Già detto degli splendidi attori, già detto della splendida location - vero personaggio del film - è inutile dire che i film di Di Costanzo eccellono però nei dialoghi, scarni, fatti di molti silenzi, ma capaci di creare connessioni umane di altissimo livello.


Di Costanzo, in Ariaferma. è bravissimo nel creare personaggi-pongo (come mi piace definirli), ovvero protagonisti che possono diventare tante cose diverse e te stai lì a cercare di capirli, a cercare di vedere cosa diventeranno.
In questo senso il più interessante è sicuramente Lagioia, il boss interpretato da Orlando. Per tutta la durata del film ti darà la sensazione che sotto ogni sua azione, dietro ogni silenzio, dietro ogni sguardo, ci sia qualche trama sotto, qualcosa che sta per esplodere.
E invece, e in questo Di Costanzo si conferma maestro nel disegnare personaggi dolcissimi e portatori di valori molto positivi (i due ragazzi de L'intervallo ma praticamente anche tutti quelli di Ariaferma), e invece no, e invece tutte le azioni di Lagioia sono semplicemente quello che sembrano, tentativi di migliorare quella convivenza, tentativi di avvicinamento tra persone che mai dovrebbero avvicinarsi, tentativi di umanizzare più che si può la situazione.

28.12.22

Recensione: "EO"

 

Purtroppo arriva a fine anno la delusione più cocente del 2022.
Un film che, visto la tematica trattata, visto l'asinello protagonista, visto il lancio che faceva leva sull' "empatia", visto che tutti ne parlavano di un mezzo capolavoro, ecco, ero convinto che lo potesse essere anche per me.
E invece mi ritrovo un film dalla fotografia straordinaria (avrò percepito almeno 6 luci diverse), con gli asinelli protagonisti (ne sono stati usati tanti) dolcissimi, con un paio di sequenze davvero belle.
Ma anche un film che, incredibile, non riesce ad emozionare quasi mai e, soprattutto, è costellato da una serie infinita di scene orribili, mal scritte, mal girate, mal costruite, due almeno confinanti addirittura col trash.
Tanto che, sempre col massimo rispetto, penso che scrivere di queste sequenze si può fare solo divertendosi.
Mi piange il cuore ma EO è un film meraviglioso in quello che voleva raccontare ma debolissimo nella sua realizzazione


Ed eccola che arriva, quasi cocente, la più grande delusione dell'anno.
Non solo le aspettative verso EO erano, per me, altissime, ma mi ero detto che anche nella peggiore delle ipotesi un film su un asinello e sul , come viene presentato, l'empatia, doveva per forza piacermi.
E invece no, e invece EO è un film scritto malissimo e a tratti ridicolo.
E, davvero, leggendo tanti critici che lo definiscono film dell'anno mi viene, quasi per la prima volta in vita mia riguardo il mondo del cinema, pensare ad una assoluta malafede.
Perchè se è vero che quello che racconta EO è di altissimo valore, se è vero che il tema è straordinario, nessuno, ma veramente nessuno, può considerare accettabili dei problemi macroscopici ed oggettivi.
E non parlo di piccolezze eh, ma di tante tante sequenze scritte da cani, recitate peggio e alle quali, anche volendo, si fa fatica a dare un senso.
Quindi con la morte nel cuore di dover parlare male di un film su un asinello e sull'empatia devo dire, con tutta l'onestà intellettuale che posso, quello che ne penso.



EO è la storia di un asinello da circo che più volte scapperà dal luogo dove viene tenuto e più volte sarà ripreso.
Quasi un film on the road su questo magnifico animale che ogni volta che ne ha la possibilità fugge dai bruti umani che l'hanno preso con sè.
Non solo, per andare incontro al lancio di locandina, che parla di un "film sull'empatia", EO un'empatia se vogliamo la racconta veramente, ed è quella dello stesso asinello verso tutti gli altri animali che soffrono.
EO, infatti, nel suo girovagare, scappare, essere rinchiuso, si troverà davanti animali torturati, altri tenuti in gabbia, altri sofferenti.
E farà sua tutta la loro sofferenza.
Cavalli, lupi, volpi, pesciolini, mucche, EO guarderà con i suoi occhi tristi tutti questi poveri animali maltrattati e offrirà loro il suo (purtroppo inutile) dolore.
Al contrario, tranne che in un paio di personaggi, di sicuro non verrà mai mostrata empatia umana nè nei confronti di EO nè verso gli altri animali.
In realtà questo mondo manicheo di esseri umani cattivi e animali maltrattati è un pò esso stesso un possibile limite del film. 
Ma, essendo il film una "favola" e volendo insegnare qualcosa credo che questa estremizzazione sia assolutamente perdonabile.
Sì, ok, però i problemi immensi sono altrove.
E no, non posso accettare che davanti queste 3-4 sequenze si possa "soprassedere" e mettere sto film come migliore dell'anno perchè parla di animali ed empatia.
Le scene che riguardano gli esseri umani sono, a dir poco, terribili.
E non parlo di terribili nel senso che mostrano umani terribili (sì, quello fanno, ma va benissimo) ma terribili per come sono state scritte e costruite.

E' bruttissima quella iniziale della manifestazione e dell'ufficiale giudiziario (oddio, quell'omino lì) che dice che il circo va chiuso.
E' brutta la scena di quella specie di inaugurazione del maneggio.

E' brutta ed inconcepibile quella del ritorno della ragazza del circo in cui:

1 Lei torna e non si sa come in centinaia di km sa che EO è finito in quella fattoria
2 Il ragazzo invece che aspettare 30 SECONDI le chiede se rimane lì o può andar via
3 Lei che dice che rimane
4 Lei che rimane davvero solo 30 secondi in più (ma allora perchè cazzo l'ha fatto andar via??)
5 Lei che si incammina a piedi (come poteva pensare di mandare via il ragazzo e restare a piedi al buio e in aperta campagna?)
6 Lui che invece è solo 100 metri avanti (ma allora perchè le aveva detto se poteva andare, e perchè è andato?)

E' brutta, ma tanto brutta, ai confini del trash la scena del camionista. Cammina mangiando patatine, fa dei segni strani a qualcuno dietro di lui, lascia le patatine in terra, dice a quella persona che può entrare nel camion. Poi sta ragazza arriva e ci sono due minuti di lui che prova ad offrirle cibo polacco che fanno male agli occhi (i minuti dico, oltre che il cibo). 
Poi lei scende per paura di un'aggressione e invece è lui che dopo 10 secondi viene ucciso da un'altra persona, senza motivo.
Mamma mia, 4 minuti orribili.

20.12.22

Recensione: "After Yang" - Su Now/Sky

 

La sci-fi che piace a me, quella usata solo come contenitore per raccontare tematiche intime e profonde.
Siamo in un futuro non troppo lontano dove convivono esseri umani (in larga maggioranza), cloni ed androidi.
Yang è un rappresentante di questi ultimi, "comprato" per insegnare le radici della proprio terra alla bimba cinese adottata dalla famiglia di Jake.
Un giorno, però, Yang smette di funzionare.
Lo si potrebbe semplicemente rottamare, sostituire, buttare.
Eppure Jake inizia ad analizzare il suo nucleo centrale e scopre che quel ragazzo-androide nella sua (lunga) vita era stato capace di provare cose che, in teoria, non era progettato di possedere.
Yang aveva saputo innamorarsi.
Yang aveva saputo emozionarsi.
E forse è questo l'ingrediente segreto, il vero quid mancante, per poter definire essere umano chi essere umano non era destinato ad essere.


Come chi mi legge sa amo moltissimo la fantascienza intimista, ovvero quella sci-fi che più che al lato spettacolare o di genere serve più da contesto e contenitore per raccontare storie di profonda umanità e affronta tematiche molto importanti.
Ecco, After Yang, se possibile, è proprio un film-scuola per questo tipo di sottogenere, visto che il suo lato drammatico o dannatamente umano è talmente preponderante rispetto alla cornice di fantascienza da riuscire quasi - e questo può esser visto sia come un difetto che come un pregio - eradicarsi da essa.
In realtà questo è un film che, secondo il mio parere, vive proprio del paradosso per cui più di un suo aspetto può esser visto al tempo stesso come grande pregio che come piccolo difetto, a seconda - forse - di quello che ci aspettiamo da un film.
Siamo in un futuro lontano (ma non poi così tanto lontano) in cui c'è ormai coesistenza tra esseri umani (ancora in larghissima maggioranza), cloni (quindi esseri umani ma creati in laboratorio) e androidi (quindi "non esseri umani" ma quasi in tutto e per tutto confondibili con essi).
Nella famiglia di Jake abbiamo la moglie Kyra, la figlioletta Mika e il "figlio" Yang, in realtà un androide "didattico", ovvero preso per far crescere bene la sorellina e insegnarle tutto il retaggio culturale della sua nazione, la Cina.
Facciamo un passo indietro, altrimenti non capiamo.
Mika è la figlia adottiva della coppia. 
Viene, appunto, dalla Cina ma è troppo piccola per conoscere il retaggio culturale della sua terra. Jake e Kyra sono realmente ossessionati dalla cultura orientale (i loro vestiti, la loro casa, lo stesso lavoro di Jake - vende thè - tutta la loro vita è in perfetto stile orientale) e quindi vogliono che anche la loro figlia conosca il massimo possibile di quella terra.
Ecco quindi che "comprano" Yang, un androide che attraverso aneddoti, storie, insegnamenti e gesti può insegnare "la Cina" alla piccola bambina.
Un giorno, però, Yang smette di funzionare, si spegne.
Aggiustarlo, lasciarlo perdere, adattarlo a nuove funzioni?
Jake è davanti a un bivio.
Cercando di capire cosa fare andrà a "conoscere" sempre di più Yang, scoprendo che forse dentro quel corpo automatizzato esisteva un cuore ed un'anima.



After Yang (titolo bellissimo che, pur suggerendolo, non va preso tanto come elaborazione del lutto - aspetto presente ma marginale del film - quanto come quel periodo in cui un affetto non c'è più e tu ti fermi un attimo per andare a conoscerlo meglio) è un film profondamente intimista, molto malinconico e dolce.
Come tematica principale ha quella per cui io stravedo, ovvero l'eterno dilemma tra umano e non umano, non tanto nell'accezione qualitativa del termine di "bene e male" (in quel caso avrei usato "inumano") quanto in significato fattuale, reale.
E' questa la sci-fi più bella, quella che racconta di "macchine" che in realtà nascondono al loro interno qualcosa che alle macchine non dovrebbe appartenere, ovvero la capacità di emozionarsi, di amare, di provare cose in teoria solo appannaggio dell'essere umano.
Yang era un androide capace di discutere, fare conversazione, capire molte cose, insegnarle altre.
Ma solo dopo la sua morte, analizzando il suo nucleo centrale, Jake capirà che quell'androide era stato capace di provare cose che i suoi stessi progettatori non pensavano potesse arrivare a vivere.
Yang era capace di amare, o almeno di capire che potevano esistere esseri umani (o cloni, o androidi) capaci di - lasciatemi passare il termine - "fargli avere farfalle nel software".
Ed è questo suo lato, quello di provare emozioni, che lo "umanizza" a tal punto da mettere in crisi Jake.
Il film ha uno grande stile, gran gusto delle inquadrature e degli spazi, molta classe.
Ha un passo lentissimo, sommesso, molto dolce e delicato.
Il problema che tutti gli aspetti che lo rendono bello al tempo stesso hanno il loro contraltare.
Ad esempio After Yang è un rarissimo film dove non ci sono contrasti, dove non ci sono personaggi negativi, dove tutti sembrano remare dallo stesso lato della barca. In qualsiasi film vengono sempre inseriti personaggi o situazioni atti a creare problemi, disturbo, antagonismo al personaggio principale o alle vicende principali.
Qui no, qui a parte il "dilemma morale" di Jake (un ottimo Farrell) abbiamo tutti personaggi che amano Yang (Jake, la madre, la sorella, la ragazza clone, ma persino la proprietaria del museo, se vogliamo, ha un proposito tutt'altro che inumano, anzi). 
Ecco che per questo motivo After Yang diventa un film "strano", a cui non siamo abituati.
Pregio, difetto? non so.
Altra cosa.
Nel film vengono messe dentro una quantità di tematiche impressionante.
Per prima cosa After Yang racconta di un mondo quasi utopico di convivenza estrema tra etnie e specie diverse.
Non mi riferisco infatti solo al contesto per cui esistono contemporaneamente esseri umani, cloni e androidi ma la stessa famiglia di Jake è formata da un bianco, un'afroamericana e una figlia cinese.

13.12.22

La Scuola Cattolica/Circeo/Pasolini /Calvino - A luci accese (divagazioni illuminate) - 3 - di Nicola C-

 

Terzo appuntamento con l'amico Nicola che scrive un pezzo magnifico, impegnato, forse scomodo, che, prendendo spunto dal film "La Scuola Cattolica", ripercorre un'epoca (quella del massacro del Circeo, cui il film fa riferimento), sfiora altre pellicole (come Il Divo e Todo Modo) fino ad arrivare a Pasolini e Calvino (e una loro celebre querelle).
Se potete ritagliatevi il tempo di leggere

N° 7  LA SCUOLA CATTOLICA (CITANDO IL DIVO) - IL POTERE SACRO DELLE CLASSI DIRIGENTI

Abbiamo un mandato, noi.

Un mandato divino.

Bisogna amare così tanto Dio

per capire quanto sia necessario il male

per avere il bene.

Questo Dio lo sa, e lo so anch’io.

 

[Paolo Sorrentino, IL DIVO]

 
 Chi leggerà queste righe avendo vissuto il periodo di cui parliamo, potrà trovarle forse pretenziose o a buona ragione retoriche; le consideri nel peggiore dei casi un’escursione nella memoria (parola abusata che uso e ascolto sempre con reticenza e che – assicuro – non ripeterò). La Scuola cattolica è film che si è imposto all’attenzione generale evocando la strage del Circeo (1975) e il carico scabroso del suo orrore, ma è bene dire subito che non è un’opera su quel delitto, nel senso che quest’ultimo è cronaca che rientra nel mondo che Stefano Mordini cerca di mostrare e che porta a considerazioni molto più ampie e direi interessanti. Sul piano formale viene descritto il mondo giovanile da cui scaturì quella mostruosa pagina di cronaca con un’analisi tutto sommato congrua del contesto, ed è proprio partendo da quella che ho sentito il bisogno di spingermi a una visione più ampia. Quegli eventi infatti andrebbero letti al di là della cronaca nera, per quanto orribili, anche a costo di andare sopra le righe. Guardare oltre è un atteggiamento sempre costruttivo e a volte anche iperboli apparentemente audaci aggiungono un patrimonio di riflessioni preziose.  Al tempo poi il compito di dar loro la giusta dimensione. A me La scuola cattolica è subito apparso come un resoconto di come mantenendo un ordine costituito si stesse già definendo di fatto quello che sarebbe seguito, attraverso l’inevitabile osmosi dalle aule e i cortili scolastici ai rapporti “fuori” che ne sono la naturale prosecuzione fino a diventare uomini. Un travaso di identità dal passato alle nuove generazioni, dagli adulti ai giovani, dai padri ai figli. Qui non interessa valutare gli elementi estetici del film, ma semplicemente approfittare dei contenuti per comprenderne il soggetto così come – piaccia o meno – è stato rappresentato. Personalmente la considero una pellicola che merita uno sguardo attento, anche al di là dei suoi meriti di scrittura e direzione; non che manchino opere sul tema, ma questa ha il pregio di inscriverlo esattamente nell’ottica di allora. Il film di Mordini prova a riavvolgere il nastro fermandosi in un quotidiano giovanile in cui apparentemente non succede nulla di eclatante; non mette a fuoco i fatti cruciali dell’epoca ma lo sfondo su cui accaddero fuori dal conformismo della cronaca. Dico solo, casomai, che ho trovato didascalici i passaggi che tentino di spiegare i rapporti tra adolescenti solo attraverso l’azione corrosiva di certe dinamiche del mondo adulto (figure familiari o educative ridotte perlopiù al grottesco). Non che disapprovi il metodo, è solo che la rappresentazione mi è apparsa sbrigativa nel merito senza osare in profondità. Detto questo, ho trovato certamente più convincente la narrazione di quella gioventù quando si disvela in assenza degli adulti mettendone in evidenza finalmente l’influenza concreta.



Il primo elemento che emerge è che i giovani rappresentati sono esattamente ciò che quei modelli educativi - famiglia, società, scuola -  volente o neolente dovevano produrre.  Nel contesto di cui parliamo i loro comportamenti non potrebbero mai essere effetto di un disagio sociale con il suo carico di rabbia dovuta all’emarginazione, ma piuttosto sono oggetto dello scrupolo di un apparato “adulto” che si è occupato di loro con intenzioni calcolate. Tutto quanto si rappresenta nel quotidiano è il risultato di un indottrinamento puntuale nel metodo, coerente nelle intenzioni ed efficace nel risultato. E certo tutto si svolge in seno a una classe sociale che plagia, come sotto cultura, quelle subalterne quale modello dominante. L’Istituto cattolico raccontato da Mordini raccoglie la “meglio gioventù” dell’alta borghesia romana, individuando accuratamente (in una ricostruzione che mi è parsa appropriata) un perimetro narrativo entro cui definire il topos della continuità di quelle generazioni, ma soprattutto delle condizioni che la  resero possibile. Si ravvisa sempre la misurata intenzione di dare ordine al caos dell’adolescenza, il che porta a sistemi educativi precisamente orientati all’imperativo di “dover funzionare”. La religione di Stato (come paradigma retorico) declina l’autoritarismo in una veste confessionale, disinnescando qualunque visione critica dell’individuo. La devozione ridotta ad attitudine all’obbedienza induce a percepire come inadeguatezza il disagio verso valori e rapporti imperanti, che quindi vengono subiti o assunti acriticamente: quanto necessario per una società bipolare nel concepire quello di “dominante” e “dominato” come unici ruoli possibili cui ricondurre ogni rapporto. Il potere assume un carattere sempre soggettivo: è tollerabile essere dominati solo nell'illusione narcisistica di essere dominanti a propria volta o subendo la fascinazione del potere. Il compiacimento dell’autorità quale unica gratificazione erotizza l’esercizio del potere stesso, tanto nel carisma dei suoi attori quanto in ogni singolo atto che lo determina. Una dimensione predatoria dell’eros: tra adolescenti, l’amicizia o l’approccio tra i sessi, è un quotidiano addestramento ai rapporti di forza in cui prevale sempre la negazione del sé. E’ la stessa frustrazione che ha ormai avvizzito i rapporti tra adulti su cui – mi permetto – Mordini però calca davvero un po’ la mano nella direzione sbagliata. 


La scuola cattolica descrive il prodotto culturale di una visione politica in senso stretto, che garantisce sotto traccia un vivaio tanto al nuovo modello autoritario quanto alla silenziosa complicità della moltitudine dei suoi servitori, per i quali la ragion di Stato (sotto le spoglie democrazia) sostituirà i feticci clericali (la cui funzione pedagogica è assolta). Essere “iniziati” a quel determinato assunto di valori, nella condivisione tacita dei suoi codici, ne implica un’appartenenza totalizzante, pena l’atteggiamento vessatorio (magari sottoforma di certa virile goliardia) a cui il mondo adulto appare sempre senziente. Il film ha la giusta intuizione, le cose effettivamente avvengono dove e come le vediamo rappresentate e lo scenario ha tutti gli elementi simbolici e concreti per mostrarci dove può spingersi il limite strisciante dei rapporti, fino al momento in cui limiti non ce ne saranno: l’assimilazione al mondo adulto.  E’ l’investitura alla libertà di concepire (attivamente o passivamente) qualunque atto nella mostruosa, inconfessabile contraddizione di perpetuare il male per garantire il bene” (Il divo), quale distillato della maturità cui sarebbero destinati i protagonisti dell’affresco di Mordini. Parole, quelle del Divo, che sono parafrasi evidente del “Todo modo para buscar la volontà divina” evocato da Elio Petri nel 1964 in Todo modo a sradicare l’anima del cattolicesimo democristiano: il diritto (divino) di agire aldilà del bene e del male di cui si appropria una classe dirigente all’interno dell’apparato democratico. Il film ne inscena la grottesca rappresentazione (dando visionario seguito alla necessità di processare la DC denunciata da Pasolini) nel rito di espiazione collettiva della dirigenza del partito, riunita per l’occasione negli esercizi spirituali ignaziani. Tuttavia su quell’altare non vedremo altro che la reiterazione sempre più efferata delle colpe fino all’epilogo di una condanna perentoria e definitiva. Colpe che solo in virtù dell’immunità del proprio rango possono essere confessate: lo stesso “mea culpa” che risuona nel Divo (di cui il film di Petri a mio avviso non può che essere stato d’ispirazione) al cui monologo appartiene qui ogni citazione.


L’autoreferenzialità incensata dal divino rappresentata in Todo modo è dunque un filo sottile ma robusto che lega i mondi esplorati dai film di Sorrentino e Mordini nei diversi gradi e momenti del proprio sviluppo. Il Divo fa due passi avanti, proiettandone la spregiudicatezza nella forma più compiuta, arrivando a evocare la lunga stagione dell’estrema ratio quale opzione risolutiva per conservare il controllo della società con ogni mezzo (todo modo, appunto). E questo esige un’applicazione quasi ascetica, con il distacco e la motivazione necessari per elevarsi al di sopra della colpa in nome di una causa più giusta. Un’orrenda fede ideologica negli atti stessi che si è chiamati a determinare. Nella Scuola cattolica vediamo quindi allevare in erba proprio quanto già compiuto nel Divo nell’atto di aver officiato il sacrificio con i paramenti sacri del potere

 

La responsabilità diretta o indiretta

per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984,

e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti.

A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso.

Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa,

per mia grandissima colpa.

Questo dico anche se non serve

7.12.22

Recensione: "Boiling Point - Il disastro è servito"

 

Dopo Athena un altro grandissimo film del 2022 che sfrutta in maniera eccezionale (qui ne abbiamo addirittura uno soltanto) una tecnica che mi fa emozionare ogni volta, quella del piano sequenza.
Siamo dentro il ristorante (con cucina a vista) di un importante chef.
In tempo reale vivremo tutto lo stress, le difficoltà, le pressioni psicologiche che questo lavoro può comportare.
Eppure Boling Point  - oltre che piccolissimo affresco di un mondo, quello dell'alta cucina - è anche viaggio psicologico e intimo di un solo uomo, un uomo che in un'ora e mezza vive e trattiene mille emozioni.
E forse trattenerle così a lungo può portare solo a un epilogo, quello del meltdown, del punto di ebollizione

Cinque-sei anni fa il mondo dei film in piano sequenza (unico o no, vero o no) sembrava popolato sempre dagli stessi nomi, film grandi e piccoli che hanno fatto la storia di questa magnifica tecnica (che distrugge uno degli aspetti più importanti e forse difficili del cinema, il montaggio).
Adesso, invece, vuoi per sperimentalismo, per necessità, per sfida o per spettacolo, i film che puntano sui long shot sono sempre di più, tanto che sarà forse arrivato il tempo di fare una bella lista qui nel blog.
Boling Point è forse uno dei più particolari, sia perchè molto circoscritto (siamo letteralmente in 50 metri quadrati o poco più) sia perchè riesce quasi del tutto a "nascondere" il piano sequenza che, qui, non si fa mai spettacolare, non si fa mai "fine", ma soltanto mezzo.
Un piano sequenza quindi che più che tecnico diventa contenutistico. 
Siamo in tempo reale nella cucina di un ristorante di classe a Londra, e per dimostrare in maniera perfetta e realistica tutto quello che accade ecco che il piano sequenza diventa elemento straordinario - vero - perchè ci permette di vivere tutto quello che contemporaneamente si può vivere in una cucina. Andremo in mezzo ai tavoli, poi nella cucina a vista, poi nel retrocucina (dove c'è la pasticceria), poi fuori, poi in bagno, e tutto questo continuamente, senza - ovvio - soluzione di continuità.
Solo così potremmo vivere realmente tutto, senza "trucchi" (i trucchi che ovviamente un montaggio può contenere, vuoi per la messinscena o le piccole e grandi ellissi temporali).
Attenzione, non pensiamo che un film con montaggio non possa dare la stessa adrenalina, anzi - vedi ad esempio i fratelli Safdie - è possibile realizzare film con montaggi frenetici ed estenuanti che regalano la stessa immedesimazione ed atmosfera, ma è ovvio che il senso di "realtà" di un P.S era e resterà unico.
In più anche in una simile tecnica è possibile "respirare" e qui il regista lo fa ad esempio in due sequenze che uno spettatore occasionale può vedere solo come "narrative" ma in realtà sono assolutamente costruite ad hoc per altri motivi.
Mi riferisco al lavapiatti che va a prendere la droga fuori dal locale o alla proprietaria che va a piangere in bagno.
A cosa servono queste due scene?
Hanno due finalità.
La prima è quella di far riorganizzare tutti gli attori, prendersi una pausa dalla frenesia, preparare tutto quello che verrà da lì in poi. Quando il lavapiatti va fuori in quei 5 minuti nel frattempo, dentro al locale, tutti gli altri attori e la troupe hanno finalmente un momento di respiro e di riorganizzazione. E' come se si fosse completata una tappa, ora si respira e poi via con la seconda.
E questo serve anche agli spettatori che finalmente possono uscire da quel turbinio ininterrotto di cose ed emozioni ed andare a rifiatare là fuori, con quel personaggio che li accompagna.
Stessa cosa, come dicevo, nella scena della proprietaria, con l'operatore che se ne va via solo con lei e regala 5 minuti di pausa a tutti, inquadrando per un buon minutino anche una porta chiusa.


Tutto questo è mascherato come fossero scene narrative, chapeau (anche se quella del ragazzo di colore si vede da lontano che sia leggermente forzata e fuori fuoco, mentre quella della proprietaria, oltre che "furba", rende anche più bello e complesso un personaggio).

Ma dopo il solito prologo tecnico (quando ci sono i piani sequenza mi ci perdo sempre) andiamo al film.

5.12.22

Torino Film Festival 2022 - 10 film recensiti da 4 amici (post unico ed esaustivo)

 

E così anche quest'anno (purtroppo per un pelo) ho mancato il Torino Film Festival.
Ma ho sempre la fortuna di avere lì qualche amico/scagnozzo che ha voglia e piacere di scrivere per il blog.
Ecco quindi i film che hanno scelto Gaia, Alessio, Riccardo e Stefano!


I 3 FILM SCELTI DA GAIA BARUSCOTTI

THE WOODCUTTER STORY, MIKKO MYLLYLAHTI, 2022



The Woodcutter Story è il film che Søren Kierkegaard avrebbe girato se fosse nato un secolo dopo. O se qualcuno decidesse di realizzare una trasposizione cinematografica del Libro di Giobbe ambientandola in una cittadina un po’ Fargo, un po’ Twin Peaks, tra le foreste e le montagne innevate della Finlandia. Fuor di metafora, il protagonista Pepe (Jarkko Lahti) è il beniamino della piccola (e all’apparenza) felice comunità che vive intorno alla segheria in cui lavora la popolazione maschile. Operaio indefesso, marito fedele, padre premuroso del Piccolo Tuomas (Iivo Tuuri), così soprannominato per distinguerlo dal suo migliore amico, anch’egli chiamato Tuomas (Hannu-Pekka Juhani Björkman), con cui condivide il lavoro in fabbrica e i sabati sera passati a giocare a carte. Ma l’idillio è destinato a finire per volere dei due misteriosi manager con cui il film si apre, personificazioni moderne degli asi scandinavi o delle forze oscure del caos che sembrano dominare la vita umana: la segheria viene venduta e gli operai, tra cui Pepe e Tuomas, perdono il posto. A questo rovescio di fortuna, il secondo reagisce con violenza, contro gli altri e contro se stesso, mentre il primo decide di affrontare ogni disgrazia, dal tradimento della moglie alla morte della madre, fino all’ultimo, drammatico lutto, con la stessa aria naïf, la stessa meraviglia per ogni aspetto dell’esistenza e la stessa incrollabile fiducia non tanto nel futuro, quanto nel proprio, personale presente fatto di ciò che “non è inferno” da difendere e custodire nel proprio intimo. Una sorta di religiosità laica, che non cerca facili e convenzionali soluzioni al mistero della sofferenza inflitta alle persone buone, come cerca goffamente di fare il “medium-cantante” in visita nel paesino, sfruttando l’ingenuità e le sofferenze degli abitanti, o l’operaio che guida l’assalto alla miniera in cui ha trovato impiego Pepe per realizzare un’utopia politico-religiosa in ultima analisi impossibile.

Animato da uno spirito bizzarro à la Aki Kaurismäki, unito a un pizzico di surrealismo della scuola di Buñuel, il film è un riuscito connubio di commedia grottesca, tragedia ambientata negli anni ‘70 e fantasy, dove, tra una palla di luce che inesplicabilmente si anima e rapisce il Piccolo Tuomas e una macchina in fiamme senza guidatore vagante per le vie del paese, giganteggia Pepe, l’uomo comune che ha compreso l’assurdità della vita e, proprio per questo, riesce sempre a sorridere.

HUESERA, MICHELLE GARZA CERVERA, 2022


Che cos’è il contrario di un miracolo? E’ da questa premessa che prende le mosse l’opera prima di Michelle Garza Cervera, una favola nera che attinge a piene mani dal folklore messicano e dal body horror per ottenere una critica - a dire il vero, talora semplicistica - ai ruoli tradizionali che l’attuale società ancora impone alle donne.

La protagonista, Valeria (Natalia Solian), chiede alla Madonna la grazia di poter concepire il primo figlio ma a risponderle non è la Vergine dallo sguardo impassibile della statua a cui prega, bensì una qualche entità atavica, sopravvissuta alla violenza e alle conversioni forzate dei conquistadores. Forse la stessa “huesera” che dà il titolo al film, spirito femminile che vaga per il deserto alla ricerca di ossa, e che si manifesta nelle visioni terrorizzanti della donna in figure con arti piegati in maniera innaturale. Appare subito chiaro che non bastano lo yoga o altri prodotti della pseudo religiosità contemporanea per sconfiggere la forza occulta che si è manifestata, ma è necessario risponderle sullo stesso piano con un rito di sangue e fuoco.

La gravidanza di Valeria non è mai un fatto intimo e privato, diventa immediatamente un evento da condividere “pubblicamente” non soltanto con il compagno Raul (Alfonso Dosal), ma anche con la famiglia allargata e l’intera comunità. Il corpo femminile non è mai dunque di proprietà esclusiva della donna stessa, è corpo “sociale” e sono altri attori, di maggiore importanza e generalmente di sesso maschile, a normarlo e a prendere decisioni su di esso: dal marito al medico che, prima di prescrivere degli antidepressivi alla futura mamma, si consulta con Raul e la suocera Norma (Anahi Allue), passando per l’infermiera che, appena terminato il parto, sutura Valeria senza chiederle il permesso e senza spiegarle alcunché. La sensazione (o per meglio dire, la consapevolezza) di non avere il controllo sulla propria corporeità è rinforzata dalle parole rivolte alla protagonista che si sente spiegare come sia normale, durante la gravidanza, sentirsi “divise in due” e che durante il parto le sembrerà che “tutte le ossa del corpo le si spezzino” - ma allo stesso tempo valga davvero la pena sopportare questo dolore: infatti, ciò che è davvero importante per la società non è la madre, a cui viene dedicata una giornata di festa ormai svuotata di significato, bensì il neonato, una nuova vita da inserire nel tessuto produttivo e riproduttivo per garantire la sopravvivenza delle attuali strutture oppressive. E chi, come Valeria, non è in grado di proteggere la sua prole deve essere allontanato dal consorzio umano.

Anche l’abbandono della sua passione giovanile per il punk e del lavoro per diventare moglie e madre a tempo pieno rivela la stessa impossibilità di scegliere liberamente il proprio presente e il proprio futuro: chi ha optato per una strada diversa, come la zia Isabel (Mercedes Hernandez) che ha preferito non avere figli o l’amica d’infanzia Octavia (Mayra Batalla), escono sconfitte da questo scontro impari - derisa dalla famiglia e costretta a nascondere la propria relazione omosessuale la prima, rassegnata all’idea di dover abbandonare la città e vivere isolata la seconda. Le frustrazioni di Valeria trovano sfogo solo contro se stessa, contorcendosi dolorosamente le dita delle mani, e nelle spaventose visioni di corpi senza giunture che si dimenano come ragni e tentano di farle del male. Proprio il ragno è uno dei simboli più potenti del film, dal momento che, come afferma la sciamana Ursula (Martha Claudia Moreno), esso è sia madre sia predatrice e tesse una tela che funge tanto da casa quanto da prigione. E chi meglio di Valeria, colei che si è - consapevolmente o meno - rinchiusa in una gabbia dorata di convenzioni borghesi, portando con sé anche la neonata destinata a ripercorrere lo stesso tragitto, può identificarsi in questo animale?

Concedendo uno spazio minimo ai jumpscare e lavorando soprattutto su un immaginario, specialmente uditivo, disturbante, l’orrore proviene dalla sensazione che ci sia qualcosa di “altro” fuori dal nostro campo visivo oppure nascosto nei corpi dei protagonisti. La performance di Natalia Solian, qui nel suo debutto attoriale, è magnetica e in grado di sopportare in eguale misura i momenti più drammatici e quelli più spaventosi. In conclusione, ci troviamo di fronte a un’opera potente e originale, sia sul piano dei contenuti sia su quello della forma, che non sfigurerebbe accanto ai più noti The Babadook e Rosemary’s Baby.

PALM TREES AND POWER LINES, JAMIE DACK, 2022

 


Lea (Lily McInerney) si muove nel mondo apparentemente senza lasciarvi traccia. Le sue attività quotidiane durante le lunghe e monotone vacanze estive sono le stesse di schiere di altre ragazzine diciassettenni che l’hanno preceduta. Anche la sua famiglia è uguale a quella di tanti altri film: padre assente che si è rifatto una vita lontano dalla sonnacchiosa provincia americana e madre gentile ma distratta dal lavoro e dagli amanti. La vita della giovane cambia all’improvviso quando, durante la solita uscita serale con gli amici, un uomo con il doppio dei suoi anni, Tom (Jonathan Tucker), la nota e, nell’uscire dalla tavola calda, le fa l’occhiolino: un gesto che gela gli spettatori  ma che alla nostra protagonista sembra il mezzo per sfuggire alla monotonia della cittadina californiana dominata dalla palme e dai cavi dell’alta tensione, dalle case modeste e dai centri commerciali al neon. Non è difficile per Tom conquistare la fiducia prima, l’amore poi, della giovane resa vulnerabile dalla solitudine e dall’apatia nutrita di social network. Per quanto Lea cerchi disperatamente di ignorare i campanelli d’allarme, quella che definisce “relazione” non è altro che un rapporto malato senza futuro che la lascerà ancora più estraniata di quanto non fosse prima.

Il punto di forza del film è il casting, senza cui perderebbe ogni credibilità e incisività. Ci sembra davvero di trovarci di fronte a un trentaquattrenne e una diciassettenne, un imbroglione e una ragazzina innamorata, un abusatore e una vittima. La recitazione di Tucker si articola su due piani distinti e complementari: quello che vede Lea e quello che percepiamo come spettatori. La sua gelosia appare alla ragazza la prova del suo amore, mentre noi siamo consapevoli che si tratta di possessività rapace; la sua cautela non è rispetto dei tempi e dell’innocenza della ragazza, bensì timore di spaventarla e perdere la sua preda; i confronti tra Lea e la sua cerchia di amici, a vantaggio della prima, non sono un mezzo per complimentarla bensì per alienarla ulteriormente dal gruppo dei pari e averla completamente sotto il proprio controllo. McInerney è invece il cuore pulsante del film, il catalizzatore di tutte le nostre paure e preoccupazioni, il grande enigma che ci poniamo quando sentiamo storie simili: perché, pur essendo così intelligente, non abbandona il suo carceriere, ma anzi ogni umiliazione la spinge ancora di più tra le sue braccia? La nostra partecipazione simpatetica alle sue vicende è sottolineata da una macchina da presa posta ad altezza del suo viso che trasmette un universo di sentimenti con una smorfia della bocca o un luccichio degli occhi, mentre la causa di questo cambiamento resta fuori campo. Ed è proprio il suo volto fresco e innocente l’unica cosa che vediamo nell’ultima (ma purtroppo non definitiva) mortificazione in slow motion che Lea deve patire a causa di Tom. Evitando ogni glorificazione o una rilettura in chiave romantica delle scene di sesso, il momento in cui la cinepresa si allontana dal primo piano della ragazzina è anche quello in cui è lampante la distanza siderale tra Tom e Lea: quando il primo chiede alla seconda di spogliarsi senza tirare le tende della stanza, come aveva finora fatto, li vediamo per quelli che sono realmente - una bambina confusa, impacciata, incredula, e un uomo avido, lascivo, famelico. Il senso del film è in questa frattura insanabile.

 

I 3 FILM SCELTI DA RICCARDO SIMONCINI

RODEO - LOLA QUIVORON - 2022

 

Un folgorante esordio energico e adrenalinico, di pirati dell'asfalto e di una sirena selvaggia della motocicletta in grado di sovvertire quell'ordine corsaro.
Sull’asfalto rovente, tra i suoni reboanti di motori a 2 ruote su di giri, la protagonista Julia cerca infatti di trovare il suo ruolo nel mondo, farsi strada in un contesto dove non viene considerata, ma sempre ignorata se non addirittura annientata.
Arrivata come un'estranea amazzonica ("Sconosciuta" la chiamano) tra un branco di rider da cross che ha più le sembianze di un clan di contrabbando, Julia cercherà a qualunque costo di ritrovare il suo spazio e sentire finalmente la libertà furiosa e viscerale che cova dentro di sé, pronta a scoppiare ed esplodere in sella.
Ha bisogno di moto, ha bisogno di cavalcarle, ha bisogno di sentirne la fisicità a contatto con il corpo, toccando tra quegli animali notturni metallici la libertà più grande possibile: essere criminali. E volerne di più e sempre di più. Con un meccanismo strategico che via via si ripete sempre uguale e sempre efficacemente: individuare su Ebay annunci di moto in vendita, provarle di persona e poi scappare via senza farsi più vedere, sfrecciando in un’adrenalina che in quell’aria improvvisa diventa ebbrezza e ubriachezza, dove il tremore non è paura, ma pura esaltazione.

Con il sogno costante di un grande colpo (non di un portavalori, ma di un camion ricolmo di veicoli a due ruote) Julia inizia così la sua scalata (da “sconosciuta” diventa  “strega”), in un sistema maschilista che la vorrebbe invece relegare in un angolo come giovane donna d’attesa, a guardare chi corre, o ancor peggio a casa con le tapparelle abbassate nemmeno a poter osservare (come accade ad Ophélie, moglie del Boss continuamente subordinata).
Ma a Julia neanche i soldi interessano, quelle banconote sonanti e abbondanti che non mancano mai di girare e comprare ogni cosa, persino in carcere per corrompere le guardie (perché anche le forze dell’ordine sono fantasmi scrutabili solo all’orizzonte, lontani sui ponti ad arrivare quando ormai è troppo tardi). Quella di Julia invece è vita pura, all’ennesima potenza ("non sono nulla senza la mia moto" urla fin dalle primissime concitate scene). In un moderno rodeo che, come da titolo, è fatto di tori a pistoni da cavalcare, non da domare, ma da condurre nel proprio regno, mentre gli incubi di fantasmi dolenti lacerano il corpo.

Gravitante tra l'incendiaria azione di Mad Max e la passione carnale dei motori di Titane, Rodeo riprende insomma (de-costruendola) quella tradizione di cinema delle banlieues  (tra cui spiccano i recenti Les Misérables e Athena), ma dove le armi sono motori, i gangster ladri di motociclette e i palazzoni in cui barricarsi fatiscenti garage dei desideri, che, come in un mondo dei balocchi impregnato di benzina, offrono opportunità, sogni all’odore di kerosene, infinite nuove vite per quelle carcasse di motociclette che lì rinascono con altrettante nuove modifiche e trasformazioni (il numero di serie come un genoma, i pistoni come cuore pulsante).

Ma in mezzo a quei telai solitari dagli scarichi ingrassati, dentro Julia continua a divampare un fuoco di libertà, sempre più desideroso di urlare indipendenza in ogni sua piccola scintilla. E sarà così incontenibile che dovrà liberarsi all’esterno, non più solo come semplice fiamma tenuta a bada da un mondo ignifugo, ma come vero e proprio incendio distruttivo.
E da fuoco sarà cenere.
E da cenere sarà fenice.
Lì finalmente dimenticarsi del freno.
E accelerare, accelerare.


DRY GROUND BURNING - ADIRLEY QUEIROS e JOANA PIMENTA - 2022


Un documentario può essere distopico? Si può raccontare un reale che ancora non esiste? È l’impresa riuscitissima (e davvero impressionante) di questo innovativo film diretto da Adirley Queiros e Joana Pimenta, che unendo realtà e finzione tratteggiano la sovversiva mitologia del reale che potrà esistere da qui a poco tra le vie periferiche di un Brasile profondamente lacerato (dal regime di Bolsonaro in primis). Un gruppo di sorelle (figlie sparpagliate di un noto criminale locale - “una figlia lì e l’altra qui”) si destreggia tra i luoghi dimenticati di Sol Nascente, alla periferia di Brasilia. Qui infatti sono diventate proprietarie di un lotto di terreno, sotto il quale si intersecano varie tubature di petrolio. E da lì hanno creato un business estrattivo familiare altamente redditizio, allestendo persino un vero e proprio avamposto, sospeso tra le torrette di guardia armate e quelle di petrolio, che esce densissimo a riempire fiumi di barili. L’oro nero viene così aspirato dal cuore della terra per poi essere trasformato in altri infiniti ori, per guadagnare, da barattare, con chi si trova in quelle aree di favelas. E poco importa se è considerato criminale. Chitara, la capa tra la sorelle, detta le regole di quel microcosmo, impone prezzi e condizioni persino ai rider più temuti e spietati del posto. E intanto il petrolio brucia, con un fuoco tossico e artificiale, aranciato come un tramonto che in Brasile tarda ad arrivare. Ma se nel già citato “Rodeo” le fiamme faticavano ad uscire rimanendo solo scintilla interiore e simbolo perfetto di una libertà sopita ma ancora possibile, qui il fuoco è sì costante presenza sul terreno, ma a rappresentare l’aridità, come da titolo, di una terra infertile che può tornare a vivere solo accesa dalla benzina. Anche in “Ema” di Pablo Larrain si appiccavano incendi, ma di nuovo per urlare la propria indipendenza, annunciare a gran voce (in quel caso ballando) la propria libertà. In “Dry Ground Burning” invece la sensazione è che persino le fiamme siano imprigionate dalla dittatura di Bolsonaro, con i fucili puntati e l’assetto d’attacco spianato.

Avevamo Sol Nascente in pugno, abbiamo incasinato le cose” dice una di loro. E quel momento segna infatti un cambiamento per le sorelle. Un prima e un dopo. Quando si era unite, quando ci si è separate. Prima della prigione, dopo la scarcerazione. Un tempo in cui esisteva la notte e uno in cui esiste solo il coprifuoco. Di armi esibite per difendersi, e ora riposte come cimeli di un passato impossibile. Perché ora non si lotta più sulle torrette, ma in mezzo alle strade proponendo un alternativo programma politico sullo scooter. Ma quella è solo la prima impressione, perché in realtà in Brasile nulla è mai cambiato, se non in un paesaggio ancora più dimenticato e ancora più ricolmo di polizia (che è ovunque, anche se non si vede), ora a cavallo, ora in tecnologici tank militarizzati da combattimento (che sembrano usciti dalla migliore fantascienza), ma sempre corrotta e corruttibile, anche se grida gran voce “Brasile al di sopra di tutto”. Perché lì gli ultimi rimangono ultimi, e Bolsonaro rimane Bolsonaro, sempre al potere ad essere festeggiato per l’ennesima ingiustizia, dove solo la musica diventa ipotesi di sogno, di amori, di serenità. Con la notte cupissima illuminata sempre e soltanto dalle luci di petrolio, fanali in avvicinamento, fari puntati. Perché “se vedi qualcosa lampeggiare devi fare attenzione”. A rimanere uguali sono infatti anche le battaglie per cui combattere, le ingiustizie da contrastare.
E ora bisogna essere sorelle guerriere con ancora più convinzione, farlo per i propri figli, “i propri prìncipi”. Perché è tutto ciò che conta, lì dove tutto è sempre uguale. L’unico futuro possibile, quando ritorni in prigione, con i figli da crescere senza madre.
Ma potrai loro raccontare una leggenda, quella di Chitara, la gasolineira.
Che con il petrolio ha sconfitto il sangue.
È storia.  

GODLAND - HLYNUR PALMASON - 2022

Già vincitore del Torino Film Festival 2019 con “A White, White Day” (e recensito proprio sul blog dal sottoscritto), Hlynur Pálmason torna alle bianchissime terre desolate di mondi nordici al confine tra visibile e invisibile, dando vita ad un film profondamente esperienziale con le tinte del western più vero, un’epopea tragica dalla Danimarca all’Islanda del XIX secolo. Un prete-fotografo, Lucas, e un’unica missione: costruire una chiesa, diffondendo la fede in quella terra di nessuno, un luogo a cui non appartiene, estraneo alla lingua e alla sua gente. Ma estraneo soprattutto ad uno sconfinato paesaggio incontaminato che non lascia scampo, nella sua fatale natura distruttiva, che tutto divora senza curarsi della lingua che parliamo e del dio in cui crediamo. Così Lucas parte via mare, ma soprattutto si inoltra via terra, con pesanti casse di legno in spalla per trasportare tutto il necessario (fotografico e religioso) e partire per quell’avventura di fatica e gelo, dove i morti (umani e animali) vengono abbandonati sul cammino, come tombe inaspettate a tracciare la strada solcata, come alimenti di una terra affamata e mai sazia. Come nei precedenti film (cortometraggi compresi) Pálmason indaga i luoghi da abitare, o meglio abitabili, con edifici da costruire nel mezzo di un niente inospitale e che rimangono in sospeso prima di diventare casa di qualcosa, dal sapore di famiglia o, come in questo caso, di spirito. Era una casa da ristrutturare resistente alle intemperie in “A White, White Day”, un memoriale sacrificale in “Winter Brothers”, una capanna su un palo per giocare in “Nest”, una chiesa ai piedi di una montagna appunto in “Godland”. Ma rimane il dubbio di come inserire un’anima in quella materia (ciò che l’inglese distingue tra “house” e “home” per tradurre “casa”), come fare entrare insomma il calore familiare in mezzo a quattro mura di cemento, come invitare i fantasmi degli antenati tra i sassi di un monumento sacrificale. Come può allora entrare Dio tra quei pezzi di legno inchiodati insieme, in una terra la cui unica legge punitiva pare essere invece quella del paesaggio più distruttivo?

Nel frattempo si accumulano storicamente le prime fotografie di quei luoghi sperduti in cima al mondo (ritratti soprattutto), scattate proprio da Lucas su antichissime lastre al collodio, prima testimonianza ingannevole di un tempo statico che in quell’Islanda selvaggia pare invece del tutto impossibile. Impresa fotografica assimilabile per certi versi a quella del protagonista del meraviglioso “Blanco en Blanco” di Theo Court, anche lì un fotografo, anche lì in un mondo desolato ad inizio del XX secolo da rappresentare (in quel caso la Terra del Fuoco). Ma dove quest’ultimo lavorava su una violenza amorale perpetuata dalla stessa umanità, in un genocidio truculento che l’immagine latente fotografica poteva solo manipolare, in “Godland” Pálmason è ancora più pessimista circa il ruolo di quella fotografia, perché in Islanda ad essere violenta è innanzitutto la natura stupefacente che ci si ritrova davanti. Impossibile quindi trasformarla in un istantaneo quadro pittorico da contemplare, perché prima di guardarla ci avrà già fulminato mortalmente, come esseri di passaggio in una terra dove il nostro contributo è solo aggiunta o sottrazione. Sì, perché, come suggerisce il titolo originale (Volaða land - “Terra malformata/malferma”) il tema essenziale che Pálmason sviscera è proprio l’inestinguibile metamorfosi, il mutamento inarrestabile a cui tutto è destinato. Nemmeno infatti l’arrivo alla meta, quella chiesa finalmente eretta in un luogo stabile, può donare tranquillità. Perché la calma di quei paesaggi allo stesso tempo infuocati e gelidi è solo illusoria, tanto che cambiano completamente di colori e struttura a distanza di pochi chilometri, dove l’ombra di un ghiacciaio si localizza dinamicamente a pochi passi dai piedi di un vulcano in eruzione.
Persino il linguaggio si fa variabile, perché quell’islandese tanto complicato per Lucas è infinitamente differenziato, frammentato, in un divenire di parole in cui “pioggia” si può dire con centinaia di termini diversi. Sfumature di lingua per una terra a sua volta sfumata, dove la via di mezzo non esiste, è tutto e nulla insieme (una terra, da titolo, malformata ma che continua a formarsi).

Pálmason trova insomma la sua perfetta sintesi cinematografica, di visione e di estetica: dove l’ormai consolidata immagine granulosa a pellicola (meravigliosamente organica) si unisce ad una materica musica frastornante che nel farsi suono diventa richiamo della natura eppure anche suo dolorosissimo lamento. Impossibile allora immortalare vite, impossibile congelare la fede, impossibile persino assecondare la propria presunzione di colonizzatori.
Come una trave vacillante sempre pronta a cadere.
Come la carcassa di un cavallo che continua senza sosta a trasformarsi, mentre la montagna la osserva imponente diventare scheletro e il paesaggio la inghiotte in un pasto senza fine.



I 3 FILM SCELTI DA STEFANO DE ROSA


VENUS - JAUME BALAGUERO - 2022



Il mio viaggio nelle incursioni di matrice iberica al TFF40 inizia con Venus, il nuovo film del leggendario Jaume Balagueró (che avevo frequentato per l’ultima volta nell’amatissimo, da me, “Mientras duermes”), che dietro una facciata noir molto godibile, con inserti horror dai connotati “suspiriani”, nasconde un’accorata denuncia contro il dilagare incontrollato della violenza fisica e psicologica sulle donne.

E le donne sono il fulcro e la luce della “pelicula”, come si evince a partire dai nomi delle tre protagoniste (due sorelle e la bambina di una di loro): Lucia, Rocío (rugiada) e Alba, che l’evolversi della storia condurrà in un edificio fatiscente e semiabbandonato (metafora potentissima!), chiamato Venus, abitato ormai, appunto, solo da donne. Ma il titolo è evocato anche dal pianeta Venere che inspiegabilmente ha cambiato la rotta della propria orbita, avvicinandosi alla Terra fino a provocare un’eclissi di Sole, quasi a voler nascondere le nefandezze perpetrate dal genere maschile sul nostro pianeta.

Durante la visione lo spettatore assiste ad un’escalation di terrore ed orrori, fino ad arrivare ad un finale pieno di poesia e di speranza: terminata l’eclissi, Lucia e sua nipote Alba escono dal palazzo accolte con devozione e rispetto da coloro che le avevano perseguitate e si dirigono mano nella mano verso un nuovo giorno pieno di luce…


VIEJOS - RAUL CEREZO - 2022



La seconda pellicola ci porta in una Spagna attraversata da un’eccezionale ondata di caldo che ha un impatto devastante sulla salute fisica e mentale della popolazione più anziana. I viejos, guidati da una misteriosa forza esterna (aliena?) si coalizzano contro i giovani, in una spirale di terrore che vede come protagonista nonno Manuel (interpretato magistralmente da Zorion Eguileor, che avevamo già avuto modo di apprezzare in una precedente edizione del Festival nello straordinario “El Hoyo”) che ha perso da poco la moglie in circostanze misteriose.

La storia è raccontata dai due registi (Raúl Cerezo e Fernando González Gómez) con una mise-en-scène di gran classe, a cominciare dall’incipit con la macchina da presa che indugia su un primissimo piano del dipinto di Goya “Due vecchi che mangiano”, dove compaiono due personaggi anziani: quello di sinistra, fa una smorfia con la bocca, probabilmente per la mancanza di denti, mentre l'altro ha il volto di un cadavere. E proprio in tale opera troviamo una prima chiave di lettura del film che mostra, con una fotografia “calda” (soffocante come il clima di Madrid) che vira spesso sui toni del giallo e del marrone, quanto possa essere terribile la condizione di un essere umano giunto ormai alla fine della propria esistenza.

Ma Viejos è anche (e direi soprattutto) un film sull'essere ignorati se non addirittura invisibili, un grido di dolore indirizzato alle generazioni più giovani, con un finale aperto che mi ha ricordato molto quello di “The invitation”.


MANTICORA - CARLOS VERMUT - 2022



“La manticora è una creatura mitica, una sorta di chimera dotata di una testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione, in grado di scagliare spine velenose per rendere inerme la preda” (da Wikipedia)

Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore

Julián come lavoro disegna mostri atroci

un mostro atroce abita in Julián

Julián salva un bambino da un incendio

il mostro che abita in Julián desidera quel bambino

Diana è una ragazza in cerca di amore che si innamora di Julián

anche Julián è in cerca di amore e prova ad amare Diana

Julián perde il lavoro a causa del mostro che abita in lui

Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore

Diana scopre il mostro e lascia Julián

Julián non disegna più e il mostro lo porta dal bambino

il bambino ha disegnato una manticora con sotto la scritta “Julián”

Julián decide di uccidere il mostro che abita in lui e vola, vola giù

Julián è paralizzato… il mostro non può più uscire

Diana torna da Julián

Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore……

Manticora è un film di Carlos Vermut

Manticora è un capolavoro


IL FILM SCELTO DA ALESSIO NENCIONI (che siccome è uno snobbone dice che gliene è piaciuto solo uno, mah...)

FAIRYTALE



Hitler, Stalin, Mussolini e Churchill imprigionati in un oscuro limbo fiabesco, attendono kafkianamente l’incontro con un divino ambiguo. Il maestro russo “anima” queste figure titaniche del novecento, estrapolandole direttamente da filmati d’epoca, moltiplicandole in una ricorsività asfissiante. Tanti Hitler, Stalin, Mussolini e Churchill con diverse monture, che si offendono, rincorrono, chiamano all’infinito.

Fairytale è un film ossessivo, ripetitivo, appunto asfissiante, come il limbo dove i nostri sono prigionieri: figure in bianco e nero, impresse e autoreferenziali, che si aggirano in cerca di un giudizio da parte di una divinità stanca, che ha abbandonato anche il proprio figlio.

Perchè Sokurov ci sottopone a questo strazio? Sono solo assilli? Gli spettri del novecento che continuano a tormentarci? Posso solo dire che il suo tocco, la sua atmosfera è sempre quella, sempre unica, un velo distorcente, nebbia incantata, quasi una droga, e l’esperienza vale, vale come tale: Merita sentire quell'esplosione disperata e prolungata di spettri adoranti e odianti che si radunano ai piedi dei dittatori. E loro, mai domi, mai risolti, si offrono nella loro disumana umanità, strappandoci anche qualche sorriso pietoso.

Un’esplosione indefinita di morti, milioni di morti fuori fuoco.