L'opera quarta dei gemelli D'Innocenzo (una miniserie che uscirà su Sky ma che sta passando adesso nei cinema anche come "film lungo") è, ancora un volta, la conferma di trovarci davanti a dei grandi talenti, a dei veri autori che fanno un cinema in Italia che pochi hanno il coraggio di fare.
Un cinema che racconta violenze sempre più estreme, dolori mai superabili, vite perse mai più recuperabili, un cinema "nero" e pieno di cose orribili ma che, per eleganza e qualità di scrittura, emoziona come le cose belle.
La storia di un serial killer che lascia "lettere letterarie" sui luoghi dei suoi omicidi.
E la storia di un poliziotto, uomo devastato da un senso di colpa insuperabile, che prova a dargli la caccia, in un misto tra odio e fascinazione.
E anche la storia di una figlia anch'essa devastata dalla vita e da una mancanza d'amore e d'affetto ormai croniche e probabilmente mai più guaribili.
Dostoevskij (girato in pellicola) è grande cinema, cinema della disperazione e del dolore.
PRESENTI SPOILER!
"Le bombe delle 6 non fanno male,
è solo il giorno che muore
è solo il giorno che muore"
cantava tanti anni fa Antonello Venditti, tra l'altro romano come i fratelli D'Innocenzo.
Le bombe, a Roma, sono bomboloni dolci che, di solito, come nel brano di Venditti, si mangiano la mattina presto (o la notte tardi, per i festaioli).
E proprio una bomba fritta ripiena di cioccolato sta mangiando adesso Ambra, ragazza problematicissima e tossica, figlia del poliziotto Enzo Vitello.
Ecco, in quella strofa di "Notte prima degli esami" sembra esserci gran parte dell'anima di questa miniserie (ma io l'ho vista come film lungo al cinema) dei gemelli D'Innocenzo, loro opera quarta e - per l'ennesima volta - bellissima.
Perchè quella bomba "che non fa male" rimarrà proprio l'unico momento in cui una ragazza con la disperazione addosso e un padre che addosso ha anche cose più grandi - tipo la voglia di morire e un senso di colpa mai più estirpabile - dicevo quello rimarrà l'unico momento in cui i due, in qualche modo, vivranno un momento di "fottuta vita normale", quella cosa che quasi tutti noi viviamo costantemente ma che loro, insieme, non sanno nemmeno cosa sia.
Lei mangia di gusto, lui la guarda, le consiglia come inzuppare il bombolone e in questa stupida ma incredibilmente magnifica scena ci rendiamo conto di come questo minuto e mezzo sia magico, unico e, forse, irripetibile.
Nemmeno le successive scene alle giostre riusciranno ad avere questa potenza della "condivisione", perchè Ambra - tornata bambina - guiderà un autoscontro e si tufferà dentro palle colorate senza che suo padre trovi la forza di vivere quei momenti insieme a lei.
Anzi, se ne andrà al bagno, lasciandola sola.
E noi ci incazziamo, ci chiediamo come cazzo fa un padre che ha finalmente l'occasione della vita di riavvicinarsi alla figlia a scappare poi in quella maniera, l'unico giorno in cui stanno in qualche modo riuscendo a stare insieme.
Sembra quasi un errore di sceneggiatura, una forzatura.
No, non lo è, ma lo scopriremo solo poi, quando ci verrà rivelato il "segreto".
E allora capiremo perchè quel padre, anche provandoci, non si sentiva "degno" di essere felice con sua figlia, non si sentiva libero nel vivere momenti di svago con lei.
Un senso di colpa troppo forte lo uccideva, un senso di colpa che poi si "raddoppiava" con quello di non averle detto ancora niente.
E allora in 5 ore di film o, se volete, in 12/13 anni di vita di quella ragazza dopo l'abbandono, solo quella "bomba delle 6" resterà l'unico momento di "connessione" e leggerezza tra un padre e una figlia che, una connessione, mai l'hanno avuta e mai più potranno averla.
"E' solo il giorno che muoreè solo il giorno che muore"
prosegue poi Venditti.
Anche questa è un'immagine che racconta tanto della serie.
Non solo perchè si svolge in gran parte di notte ma anche perchè tutto in quest'opera muore o sta morendo.
Le vittime di Dostoevskij muoiono continuamente, tutte in maniera diversa e tutte, in qualche modo, senza alcuna motivazione.
Lo stesso serial killer è una persona che brama la morte, vista come unica salvezza dalla sofferenza della vita.
La morte che "regala" alle proprie vittime è, filosoficamente, una guarigione, guarigione che probabilmente auspica anche per sè stesso ma - e nel finale questa probabile ipocrisia verrà fuori - non riesce a darsi.
Voglia di morire ce l'ha anche lo stesso Enzo Vitello che, anzi, a morire c'aveva pure provato, eppure poi si era alzato e aveva camminato nel fango e nel sole, fino a quella chiamata dei colleghi che, forse, avrà visto come un segno del destino.
Ritardo la mia morte per depressione per inseguire un killer che quella depressione la canta e glorifica.
Con la morte flirta continuamente anche sua figlia Ambra, ragazza tossicodipendente poliedrica (si fa di tutto quello che ci si può fare) che è probabilmente morta già quando era bambina, adesso ridotta a magrissima e distrutta ragazza, potenzialmente bellissima (interpretata in maniera egregia da Carlotta Gamba, la ragazza di Fabio D'Innocenzo) ma completamente spenta, e non solo dalle droghe, ma soprattutto da una cronica e ormai non più recuperabile mancanza d'amore.
E una stanchezza di vita sempre più prossima alla depressione ce l'ha anche Antonio, superiore e amico di Enzo, un uomo che sta vedendo lo stesso amico - sempre più abbracciato alla perdizione - andarsene via, un uomo con una moglie che risponde a domande esistenziali parlando del meteo o a quelle esiziali sul loro rapporto con una faccina che ride e la richiesta di comprare il latte (ho trovato incredibile quella faccina che ride in risposta al messaggio di Antonio, una sola emoticon e hai raccontato una vita intera).
Enzo, sua figlia Ambra, Antonio, Dostoevskij, tutte le vittime di quest'ultimo, ogni personaggio della serie muore, vuole morire, è morto dentro o sta morendo.
E la location per morire è più morta dei morti che raccoglie, una provincia fatta di sterpaglie, cemento, case non finite, altre cadenti e decrepite, altre sporche, una provincia in cui anche quando ti imbatti per caso in qualcosa di bello e lucente (come il bar dell'ottima scena del tramezzino e del ragazzo) quello è comunque perso in non-luoghi bui e deserti.
I D'Innocenzo creano una specie di Gotham City dove è sempre notte, dove le persone sono quasi sempre sporche e cattive, dove si nascondono segreti terribili e inconfessabili dietro ogni essere umano, dove la stessa stazione di polizia è decrepita e malmessa.
E ad accrescere questa sensazione di "irreale realismo" è soprattutto questa stazione di polizia dove è sempre buio e ci sono dentro una decina di poliziotti a non fare un cazzo, a qualsiasi ora, anche di notte, con un effetto veramente straniante.
Se non fossimo in un film che - comunque - racconta fatti realistici, penseremmo di essere nella stazione di polizia di quel capolavoro che fu "Una pura formalità", dove quel luogo era anch'esso decadente, ipnotico e malmesso, ma per ragioni trascendentali che, in teoria, non fanno parte invece di Dostoevskij.
E' come se i D'Innocenzo usando luoghi veri abbiano comunque voluto portare tutto al parossismo (come del resto fanno coi loro personaggi) cercando di raccontare luoghi, fatti e persone sempre attraverso una luce nerissima, incapace di far venir fuori i colori, le speranze, i bagliori.
Ma del resto - vedi Favolacce ad esempio - anche quando usavano un significante opposto (le villette a schiera, i giardini verdi e curati, le famiglie "per bene" e ricche) poi quello che c'era dentro era esattamente quello che c'è dentro Dostoevskij, ovvero il racconto di anime morte (non alla Gogol), di malattie, di perversioni, di violenze, di disamore, di schifo, di voglia di farla finita.
Non c'è niente da fare, il mondo raccontato dai D'Innocenzo sembra dover escludere a priori la serenità, l'amore, la felicità, l'affetto, la speranza.
Questo è sicuramente il loro marchio (e anche uno dei motivi per cui adoro i loro lavori, io persona comunque molto lontana da certi concetti ma terribilmente affascinata da essi) e mai come in Dostoevskij sono arrivati all'estremo di questa "poetica".
Mi auguro che nei loro prossimi lavori qualche volta possa essere visibile una luce perchè sono convinto che due ragazzi di tale sensibilità e "poesia" quella luce ce l'abbiano dentro, la conoscano, possano raccontarla e crederci.
E stavolta, a differenza dei film precedenti, non abbiamo nemmeno donne o madri a provare a fare da contraltare a questi uomini e padri sempre terribili, sempre sbagliati.
La prima parte di Dostoevskij è leggermente più debole o, se vogliamo, più classica.
Un serial killer, gli indizi lasciati, i sopralluoghi, le indagini annacquate, ci sono molti elementi di un crime visto tante volte (del resto obbligatori in un soggetto del genere).
Certo la grana della pellicola (bellissima), la presenza di un personaggio principale così tormentato e complesso, l'idea delle "lettere letterarie" lasciate dal killer, danno comunque a Dostoevskij una sua anima abbastanza riconoscibile che, pur in binari visti e rivisti, fa uscire prepotentemente una propria personalità (che verrà poi completamente fuori nella stupenda seconda parte).
Lo stesso film (perdonate se a volte l'ho chiamato "film" ed altre "serie", questione che alla fine non è affatto di lana caprina in effetti ma, anzi, potrebbe offrire spunti di analisi) parte con una lettera, quella "suicida" di Enzo.
Poco dopo avremo la prima lettera del killer.