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14.6.15

"Il bello d'esser brutti" di J-Ax spiegato ai grandi (più divagazioni varie) - Scritti da Voi - 42 - di Gianluca Memoli


Torna Gianluca con un altro dei suoi pezzi "importanti".
Si comincia con J-Ax, con il problema sempre più dominante dell'immagine, con il sentirsi inadeguati e con la chirurgia estetica che diventa difesa da un mondo che non ci accetta per quello che siamo. E poi se avete pazienza si parlerà di tutto. Prendetevi un giorno di ferie.

Ho ascoltato quest’album esclusivamente come ho imparato a fare, un po’ di tempo fa, con i miei primi cd, quando ancora non c’era l’attuale simbiosi di musica e immagine: nella mia stanza, steso sul letto, con le casse a debito volume. E ho cercato di dimenticare chi stava cantando, J-Ax, da dove proveniva, gli Articolo 31, dov’era approdato, ‘The Voice’.
Dovevano contare solo musica e testo.

E non perché nella contemporanea fruizione ‘social’ della musica ci sia qualcosa di assolutamente sbagliato, ma perché, per me, prima di tutto ciò che arriva tramite facebook e youtube – mezzi bisensoriali che stimolano l’udito, sì, ma anche la vista -, e cioè prima dell’immagine di J-Ax, dei suoi tatuaggi, prima del personaggio e di quella che in parecchi considerano una ruffiana sovraesposizione mediatica, conta ciò che hai da dire con le canzoni (oltre al fatto che una certa musica andrebbe ascoltata con la dovuta attenzione, e non come sottofondo mentre fai altro. Astenersi multitasker, ecco). Guai a credere nei cantanti: quasi sempre, prima o poi ti deludono; cambiano loro oppure cambi tu. “Io nella vita ho fatto tutte le cose più idiote, ho creduto ai libri, ai cantanti, alle mode”, lo ammette lui stesso. Ma delle canzoni, delle tue canzoni, sì, puoi provare a fidarti. Che quelle restano integre. E, personalmente, nei pezzi di J-Ax, in alcuni del suo ultimo album, io ci credo.
Parto dall’approccio.
Ho deciso di ascoltarlo perché un disco con un titolo così necessario, “Il bello d’esser brutti”, si ascolta e basta.
Penso infatti che, ancora oggi, la bruttezza sia uno dei più enigmatici, irrisolti e sostanzialmente irriducibili tabù. Materia da investigazione letteraria. Di quella letteratura audace, che si avventura nell’inarticolato, nell’indecifrabile. Che scandaglia gli abissi, la profondità, come la nave che non ha visibilità. E invece oggi, nella cultura popolare, se ne parla poco, se ne parla male. Sempre con quel misto di assolutezza e di luoghi comuni da un lato, di pietismo e di teorie compensatorie dall’altro.
La bruttezza è un’identità, sembra suggerire l’album.
E lì dove si limita a riconoscerla, a codificarla come fosse oggettiva, ne spiega alcune dinamiche e invita a superarla, a non farsene bloccare. Lì dove, invece, riesce ad andare oltre, ne mostra tutta la sua relatività.
Sono brevi cenni, a volte una singola, fulminante, frase; ma danno accesso a un mondo di idee. A chi, naturalmente, abbia voglia di entrarci.
Se volete spiegare a un liceale il Super-io di Freud senza che pensi si tratti di qualcosa di così lontano dalla vita da poterci soprassedere, una sorta d’evanescente idea fluttuante nell’aria, modello aurora boreale, provate a sottoporgli, entusiasti, “Rock city”; in particolare, il passaggio in cui parla di un certo tipo di donna:
“La mia segue le mode senza più neanche capirle, anche se non ha il fisico rincorre a stento i tempi, è una cicciona con i leggins se ne fotte e balla il twerking”.

Una delle immagini più demonizzate degli ultimi anni, le coscione rivestite dai leggins, di quelli che se sono neri cominciano a diventare trasparenti tanto hanno le maglie tirate, passata in rassegna tranquillamente. Quasi con la distrazione con cui sfogli un quotidiano. Sono grassa, e allora? Mi va di vestirmi attillata e di ballare, e allora? Cos’è: dovrei permettere a questo corpo che possiedo di possedermi? Di limitarmi? ‘Non te lo puoi permettere', percezione del ridicolo, canoni estetici, sì, d’accordo, tutto quello che volete. Ma io mi piaccio così. In barba a quest’interiorizzazione dei divieti delle leggi sociali, che spinge a subordinare i desideri dell’individuo alla coscienza morale, al suo immaginario. Il Super-io freudiano, appunto, richiamato e gentilmente invitato a farsi da parte.
E’ una semplificazione, naturalmente; e ogni semplificazione è tradimento: va quindi specificata, approfondita, completata. Ma può essere utile, all’inizio, per un approccio efficace con una materia, la psicoanalisi, che facilmente risulta aleatoria.
In ogni caso, senza arrivare a disturbare mostri sacri del pensiero, è un passaggio che ammette la bruttezza, ne prende atto, ma la supera. La descrizione di un gesto che non rincorre un apprezzamento estetico, ma che dichiara la sua legittimazione a essere, a esistere.
Una descrizione, insomma, necessaria.
Com’è necessario, personalmente, un altro passaggio, sempre sull’argomento, dell’Uomo col cappello:

“Da ragazzo misi l’ammoniaca nello shampoo,
per sembrare meno di Cologno e più di Seattle,
mi bruciai lo scalpo e più che giallo
uscii dal bagno con il cranio bianco
come un albino zarro pettinato a schiaffo.
E meno male così a scuola il giorno dopo
Ho capito che si prova quando ti chiamano ‘frocio’
Che se ti fanno odiare l’uomo nello specchio
Lui mette su un berretto lei le protesi nel petto.”

Le ultime due frasi sintetizzano perfettamente l’argomento di un pezzo che ho intenzione di scrivere da mesi, che continuo a rimandare e che, puntualmente, ritrovo urgente. Lo intitolerei, più o meno, ‘Dalla parte delle rifatte. Ovvero, le conseguenze’, ed elencherebbe una serie di comportamenti che, presi singolarmente, sarebbero (e di fatto sono) giudicati vanitosi e vacui, ma che, contestualizzati un attimo, assumono i tratti logici e disarmanti della conseguenza.
Dice, le donne con le tette rifatte sono delle idiote.
Dice, le donne con il naso rifatto sono delle vanitose.
Dice, gli uomini palestrati sono dei cretini.
Dice, che sfigati quelli coi parrucchini.
Sì, dice e dice questo comunissimo italiano medio, peccato che poi passi il resto del tempo a deridere, appena può, rispettivamente le donne senza seno, le nasone, i panzoni e gli spelati. Categorie estetiche, tra le altre, che quotidianamente subiscono una pressione ridicolizzante, una delegittimazione tale da autorizzare, o quanto meno rendere perfettamente comprensibili, scelte più o meno intollerabili di questo tipo.
E voi non fatevi condizionare, dice (sempre quello di prima), che ve ne frega.
Ascolta: al mondo non tutti sono forti e indistruttibili come te, ci sono anche i deboli, quelli sensibili, e non puoi incolpare loro se sei tu lo stronzo.
“Tutto comprendere significa tutto perdonare” faceva pensare ad un suo personaggio, in un certo discorso, lo scrittore Thomas Mann. E invece oggi prevale, in vari campi, la totale demonizzazione delle conseguenze, a fronte di una quasi nulla riflessione sulle cause.
Demonizzazione resa tra l’altro debolissima da un contesto che va sempre e comunque nella direzione della trasformazione, del perfezionamento della forma fisica. Che il trucco, un certo uso dei tacchi, le lampade, un certo tipo di sessioni in palestra o le sedute dall’estetista, questo sono: una forma larvale (e decisamente più economica) di chirurgia estetica. E continuo a non spiegarmi perché le prime siano non solo tollerate, ma anzi ben accette, incoraggiate, e la seconda, invece, considerata assolutamente inammissibile.
Qual è il confine, il limite tra le due cose?
Perché se fosse l’uso, l’abitudine o, peggio ancora, il dispendio economico, la risposta risulterebbe, francamente, fiacca.
Fin qui dei passaggi fondamentali, ma che ripeto accettano gli standard estetici, come fossero davvero oggettivi, e non piuttosto dettati dal contesto, dalla cultura.
Poi va oltre.
Non vorrei inceppare in una forzatura, ma io ogni volta che mi soffermo un attimo in più sul verso di “Rock city” in cui dice, in sostanza, che certe bellezze dipendono dall’effetto buio-luce, ci ritrovo la descrizione di quella strana circostanza per cui una persona ti sembra bella in una determinata situazione, con una luce particolare, in certe condizioni; poi la vedi in altre situazioni e ti ricredi, non ti sembra più questo granché; poi la rivedi in una terza circostanza e ti ricredi ancora, sembra esser tornata bella. E’ una questione molto relativa. Per cui, almeno io, sono arrivato a credere che i ‘belli’ non siano mai sempre e solo belli, e i ‘brutti’, viceversa, non siano mai solo e sempre brutti. Ma è una percezione che va molto oltre quel discorso per cui, se ti aggiusti un attimo, e c’è poca luce, puoi anche diventare carino/a; è più una questione di circostanza, di atteggiamento, di un certo tipo di luce. E di sguardo attento, ovviamente (che se non ci fai caso, dividi il mondo in belli e brutti e hai risolto). Penso abbia molto a che fare con quel discorso, alle volte anche particolarmente spiazzante, per cui la realtà non è mai una sola: ce ne sono tante quante sono le prospettive, i punti di vista, i momenti della giornata, le circostanze.
Ripeto, so che il rischio di forzatura è dietro l’angolo, ma se, come credo, anche solo potenzialmente riesce a suscitare suggestioni del genere, allora è un verso che va sottolineato.

“Se ieri ero un cesso,
oggi sono un tipo,
oggi sono eccentrico,
ieri rimbambito”

Questo invece è un passaggio che dà adito a pochi dubbi, soprattutto se inserito in una canzone dal titolo “Sono di moda”. Che certa percezione fisica delle persone così è: passeggera, relativa, cangiante. Come la moda. Se, diciamo, non sei proprio bello, e in più non sei nessuno, né hai soldi, poche storie: sei un cesso. Se, però, per caso diventi qualcuno e/o hai soldi, anche se rimani non bello come prima, intorno a te inizi a percepire un cambiamento…‘Eh però, sai, è interessante…’, ‘…non so, magari ci farei anche un pensierino’. Roba così. Sarà un caso, ma mi sembra curioso che, con i calciatori, la quasi universale regola dell’equilibrio estetico - lui bello quanto lei - pare non valere. Magari mi sbaglio, ma credo che i soldi, le possibilità e la fama, sotto sotto, una mezza influenza ce l’abbiano. E in fin dei conti non c’è niente di male; anzi, è una buona cosa che esistano modi per fregare la ‘forma’ che ci limita, per trascendere il corpo, come una sorta di trasfigurazione. Lo facciamo più o meno tutti, ognuno a suo modo: chi con i soldi, chi con la simpatia, chi con la personalità, chi con lo stile (di solito, quelli coi soldi), chi con la gentilezza, chi con le azioni. Ripeto, niente di sbagliato. Solo che poi fa un po’ ridere vedere quanto il mondo si impegni, oggi, a perder tempo dietro l’ossessiva ricerca di verità estetiche assolute. Che poi domani cambiano.
Ma rilassatevi, catso.
Naturalmente, l’album non parla soltanto di bruttezza: queste sono solo un po’ di righe ragionate, tirate fuori da versi che, in realtà, scorrono in pochi secondi.
Anzi, a proposito: per chi dovesse essere interessato all’argomento, consiglio l’ultimo libro di Piergiorgio Paterlini, “I brutti anatroccoli”. Ci potete trovare idee e storie di questa portata:

“…dove la parola ‘neutro’ – quella che più ricorre nelle testimonianze dei dieci intervistati ‘brutti’ – sta a indicare gli immensi ghiacciai d’indifferenza in cui si infrange uno dei bisogni primari di uomini e donne, ossia quello di essere desiderati. Non l’amore quotidiano, che seppure a fatica può anche arrivare. Ma la passione fisica che trafigge, il desiderio ardente che prescinde dalla testa.
[…]
E’ la nostalgia di una bellezza che non si può ricevere – annota Paterlini – perché non la si può donare.
[…]
‘Non mi sento un uomo, tutto qui’, taglia corto il luminare di medicina. ‘Non essere considerati è una piccola morte’, spiega uno studente di Perugia, ‘Se non piaci, esisti di meno’.” (Simonetta Fiori, ‘la Repubblica’)
“Non si tratta di mostri da Guinness, ma di tipi ‘un po’ più che semplicemente insignificanti’. […] Ci sono un’operaia modenese che nota come agli occhi altrui ‘il passaggio da cicciona a cretina’ sia brevissimo, e un’informatica fiorentina che descrive un passato di giornalista sportiva in cui scorazzava libera e invisibile negli spogliatoi maschili preclusi alle colleghe carine. […] c’è un operaio vicentino che osserva come le sue avances siano spesso prese per volgarità da ‘sporcaccione’. ‘Oltre a essere lui ridicolo’, dice, ‘il brutto rende ridicola la persona che gli sta accanto’.” (Matteo Marchesini, ‘il Sole 24 Ore’)

Tornando al disco. Un altro motivo su cui si diffonde è il diventar grandi. E, come per la bruttezza, non lo fa attraverso una sola canzone: c’è l’esplicita “Bimbiminkia for life”, è vero, ma disseminati qua e là ci sono continui riferimenti a quella che pare essere, e che personalmente è, una credibile bugia: crescere.
Non fisiologicamente, quello tocca a tutti; né a livello di maturità, che insomma la vita è un po’ come la provincia di Sopra la media: un paio di cose le insegna; e neanche, infine, nel senso di esigenze pratiche: quelle è normale che si modifichino. Ma quando si ragiona su qualcosa che abbia anche solo lontanamente, quasi di striscio, a che fare col senso ultimo delle cose, le esigenze pratiche bisogna sfrondarle; non eliminarle, né ignorarle: solo, ridimensionarle. Sottrarre loro il primato che hanno nella vita quotidiana. Che se ragionassi per necessità, potrei smettere di scrivere anche ora.
Crescere è una bella bugia nella misura in cui a restare fresche e immutate sono le passioni che ci danno uno o più motivi, al mattino, per scendere dal letto e ricordarci di vivere.
Come i desideri di Battiato, che non invecchiano quasi mai con l’età.
O come Dalla, che non è un cantante (e neanche un consiglio, come sulla maglietta): è il marchio della nostalgia. Nostalgia per desideri considerati fuori-tempo lì dove, appunto, il Super-io, quello di prima, ci dice che c’è un tempo per ogni cosa. E Dalla, sordo a ogni diplomazia, se ne frega e ci regala, tra le altre, “Cara”: struggente canzone sull’amore fuori tempo massimo di un uomo maturo per una ragazzina.

“Conosco un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento
per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento
E non c’è niente da capire, basta sedersi ad ascoltare
Perché ho scritto una canzone per ogni pentimento
E devo stare attento a non cadere nel vino
O finir dentro i tuoi occhi, se mi vieni più vicino.
La notte ha il suo profumo, puoi cascarci dentro
Che non ti vede nessuno
Ma per uno come, poveretto,
che voleva prenderti per mano e cascare dentro a un letto
che pena, che nostalgia
non guardarti negli occhi e dirti un’altra bugia
almeno, non ti avessi incontrato
io che qui sto morendo
e tu che mangi il gelato”

Può essere che mi sbagli, ma ho l’occasione di frequentare contemporaneamente persone con dieci anni in più e in meno di me, e mentre sono lì che li osservo, più d’una volta m’è capitato di chiedermi cosa li, cosa ci differenziasse davvero. E ripeto, a parte le necessità pratiche, che c’è chi il giorno dopo ha scuola e chi, invece, un bambino a casa che dorme, a parte qualche convinzione che col tempo s’è annebbiata, personalmente, non saprei rispondere. Che quel modo, accomunante, di provare a estorcersi la felicità sembra non avere età.

“Nessuno cresce veramente, fanno tutti finta”

Detto per inciso: Bimbiminkia for life parte benissimo: sfatando uno dei luoghi comuni più banali del crescere: quello per cui, appena hai qualche anno in più, inizi a parlar male dei piccoli. E’ il modo peggiore di ‘passare dall’altra parte’. Che le persone, come le situazioni, prima di essere contestate, vanno contestualizzate. E allora se provi un attimo a calare i ragazzini di oggi nella società in cui vivono, forse noterai che il tentativo di adattarsi, di stare a galla, non è poi così diverso da quello che avevamo noi dieci anni fa, o i nostri genitori trent’anni fa.
Insomma, ‘zio, niente di nuovo’.
Per cui, davvero, quando i grandi partono con le solite, decontestualizzate filippiche contro le nuove tecnologie, non possono che farmi scendere il latte alle ginocchia. O, che rende meglio, le palle sotto i piedi.
Parte bene, dicevo, la canzone e poi continua meglio: con quel ritornello sulle rimpatriate di classe, che sono un modo, bellissimo, di fregare il tempo, di illudersi per una sera che non sia mai passato, che tu sia ancora lì, in quelle aule, a condividere esperienze quotidiane con le stesse persone per cinque lunghi anni (un’occasione che dopo difficilmente si ripresenterà e che, magari, più d’una volta, tornerai a desiderare).
Sono, le rimpatriate, un modo di convincerti che la tua fosse davvero un’era gloriosa. E che non ritornerà.
L’intero album, a ogni modo, con i suoi riferimenti a Peter Pan, al ritorno nel suo quartiere popolare e nella vecchia stanza della casa dei genitori, agli anni degli Articolo 31, col coro ‘Non ti vergogni alla tua età’, è un continuo ripensare al tempo che passa e al modo di approcciarvisi. E questo per J-Ax, un nostalgico cronico, che “Piccoli per sempre” e “Decadance” sono due pezzi da groppo in gola, è una piacevole conferma. A proposito della seconda: con le sue campionature degli 883, di Jovanotti e di Corona, con le sue citazioni di Fantozzi, Lino Banfi ed Edwige Fenech, col Calippo Fizz e il Sega Mega Drive, capace com’è di prenderti e buttarti di peso negli anni ’90 (non senza un ingombrante magone sullo stomaco, naturalmente), credo possa permettersi di restare sorda a ogni critica di compromesso pop. Al netto di eventuali furbate commerciali, le emozioni suscitate, a volte, sono l’unico metro di giudizio.
A proposito di quest’ultimo punto, di “Decadance” e più in generale di come esaminare un risultato profondamente relativo quale può essere un’opera creativa, ho sentito più volte proporre una teoria in cui credo anch’io: conta solo ciò che, autenticamente, senti di dover dire. Ci sarebbero delle precisazioni tecniche da fare, è vero, e uno sguardo minimo al contesto è auspicabile, per evitare ripetizioni; ma il fulcro è quello. Personalmente, ho un metodo per auto-valutare in modo critico ciò che scrivo: se, ogni volta che so che qualcuno – soprattutto che conosco – sta leggendo qualcosa di mio, provo quell’imbarazzante eppure vivida sensazione di sentirmi nudo, scoperto, come adesso, c’è una buona probabilità che abbia scritto cose valide. Credo abbia molto a che fare con quell’idea, onesta, di scrittura come continuo confronto con i propri limiti. Ecco, è esattamente ciò che ho provato ascoltando l’album: in alcuni punti, ho provato un imbarazzo direttamente proporzionale al tentativo di personificarmi in chi cantava. In due canzoni per tutte: “Intro” e “Tutto o niente”. Tutte le botte di ego che, in quanto disco rap, elargisce dettagliatamente, vengono poi rimpicciolite da vari picchi di fragilità; che sono come dovrebbero essere i conti con se stessi: spietati.
L’immagine di lui – J-Ax, quello che sta in televisione, quello che ha l’avvocato di Andreotti e Amanda Knox, e che ha ‘tre partite iva, casa, barca, moto, Porsche’, insomma quel tipo distante lì – che, a Natale, piange in cantina sui cartoni del trasloco, è tra le più umanizzanti del disco.
Modello “Lo scotch” di Daniele Silvestri:

“Sarà successo pure a te sicuramente
di ritrovarti affaccendata in un trasloco
che era iniziato forse superficialmente
e che immancabilmente poi si è complicato, poco a poco.
Avrai raccolto qualche foto spensieratamente
assecondandone il ricordo come fosse un gioco
per ritrovarti persa disperatamente
a maledire sia la foto sia il trasloco.
Ci sono scatole che sembra si rifiutino
di contenere anche lo stretto necessario
e l’inventario che credevi facilissimo
ora è un calvario
che mette in crisi sia l’umore e sia lo scopo"

Per Intro, comunque, lo ammetto: il tentativo di ascoltare l’album ignorando chi fosse a cantare è fallito. Qui e, appunto, in “Tutto o niente”. Perché i pezzi – validi anche come ‘universali, come la descrizione rispettivamente di una sconfitta e di una rottura – acquistano molta più significanza se li riconduci al fu Articolo 31. E se sai cosa ha rappresentato il duo di Milano per la musica italiana, degli anni ’90 ma non solo, se intuisci o provi a immaginare cosa ha potuto voler dire quel duo per J-Ax, allora riesce molto difficile, personalmente impossibile, ascoltare la seconda di queste due canzoni senza ricondurla alla fine fatta dalla sua prima band.
Un pezzo, Tutto o niente, dal nucleo importante: complessa e dialogica è la verità. Per la fama che ha, J-Ax avrebbe anche potuto rinfacciare accuse al suo ex socio in modo unidirezionale; certo che, a causa dell’ormai poca notorietà di Dj-Jad, questo doloroso caso di dissing fra ex amici si sarebbe risolto quasi certamente a suo favore. Il pubblico, insomma, avrebbe creduto a lui. Invece no: J-Ax di certo non si è risparmiato quanto a risentimento, ma ha evitato di omettere gli ipotetici (neanche tanto, forse) rimproveri rivolti a lui. Avvalorando, così, sia l’idea di un mondo fatto di punti di vista e sia quel discorso per cui, di certe intricate vicende, non c’è mai una sola, vera versione: ce ne sono tante quante sono le persone coinvolte.
Dovendo concludere, il disco continua tornando più e più volte su temi come l’ingombranza del contesto - “ho smesso quando i preti hanno iniziato a farsi righe, che oggi vomita sul palco anche Justin Bieber”; l’ormai totale insignificanza dell’estetica - “la maglietta dei Ramones senza mai ascoltare il punk, la camicia di flanella presa in prestito dal grunge” -, che se prima, per dire, le borchie erano distintive dei metallari, ora le puoi trovare, senza difficoltà, in un qualunque negozio di scarpe da donna; ancora: l’empatia, nonostante i suoi grossi limiti, con la provincia e lo spettacolo della gente che ci abita: che non è mai ridicola in sé, ma lo diventa solo se finge di essere altro da sé – come le ragazze col trucco alla Moira Orfei o il Bar Sport che parla di Von Trier (le sedicenni col pancione, i balordi col T-Max blu e l’inferiorità provata davanti alle commesse snob sono dettagli fulminanti. Pasolini l’avrebbe ascoltata con le cuffie ad alto volume, “Sopra la media”); infine, il potere salvifico dell’amore di “Miss&MrHide”.
C’è chi dice che il rock è morto, diciamo da Hendrix in poi; io credo che il panorama musicale sia troppo diversificato per esprimere giudizi assoluti come questo. Allo stesso modo l’album di J-Ax ha troppa roba buona per essere etichettato come commerciale (o, come ho letto più volte, infantile; da qui il mio titolo) per qualche elemento che si potrebbe dire vada in queste direzioni. “Il bello d’esser brutti” è come quei cestini strapieni in cui tu provi ad affondare il piede per comprimere le cartacce; e quelle strabordano lo stesso. Solo che questa non è carta straccia, tutt’altro: è roba buona, goliardica ma buona. Che può far bene al Paese.


4 commenti:

  1. Belle parole! Mi hai fatto scoprire significati che non avevo colto di questo stupendo album! Grazie Gianluca! :)

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    1. Mi fa piacere Fabio, grazie a te per averlo letto! ;)

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