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11.6.16

Il Controfestival - Rocco

Con l'occasione ho pensato di ragionare su alcuni importanti esperimenti cinematografici che più in profondità articolano in maniera originale l'espressione con ciò che si esprime. A mio modesto parere si tratta dei film che hanno portato alle estreme conseguenze l'impossibilità di fare cinema col solo cinema. Aldilà del primato di ogni narrazione, della dittatura della scrittura di scena, si tratta di tratteggiare una ricerca intorno al cinema della forma e del linguaggio. Il linguaggio, infatti, anche quello specifico del cinema, è il luogo in cui si articola ogni determinazione tra uomo e mondo. Prima ancora di definire ogni oggetto di indagine, esso è preso, intrappolato, irrettito dentro gabbie linguistiche. Ogni ente, prima di essere, di cominciare ad essere deve essere significante linguistico. Ogni realtà esterna prima di cominciare la sua esistenza filmica, deve essere filmata. Si tratterà di tratteggiare quest'ansia delle origini con alcune opere recenti, ma già imprescindibili, rappresentare lo sforzo di riflettere questo fondamento, attraverso film cardine che sviluppano una riflessione sull' a-priori linguistico del cinema tanto come patrimonio di uso comune (la lingua comune) che come fondamento ontologico (il linguaggio che da vita e senso alle cose).

1) Il linguaggio e la verità. Herzog - Into the abyss

Risultati immagini per into the abyss

Accade un omicidio, poi accade un processo e accade una condanna. Fra di essi solo nebbia. Pur ricostruendo la cronaca di una verità processuale, ogni volta, siamo sempre di fronte al racconto parziale di essa. Non c'è mai una verità, ma sempre una narrazione che si sfalda in un prisma di proiezioni. L'inchiesta di Herzog procede per sondaggi e fonda passati virtuali. L'idea che possiamo farci è che l'insieme dei ricordi dei testimoni non è sovrapponibile, ogni ricordo è una propria costruzione artificiale.
Chi ha ucciso chi? Chi sono le vere vittime? I familiari delle vittime, emblematico che la sorella del ragazzo ucciso usi per se stessa la parola shot down (abbattuta, stroncata). Chi rimane è forse la vera vittima? Ma anche gli stessi carnefici sono vittime del sistema, senza genitori o con genitori in carcere. La verità si perde nel racconto di una tragedia di cui tutti sembrano vittime. Un'onda di male sembra avere investito tutti gli attori della tragedia. "Il destino ti ha dato delle cattive carte" dice lo stesso Herzog all'omicida.
E c'è la solita meticolosità per raggiungere e isolare quell'atto omicida. Risalire indietro, domanda dopo domanda, quasi arrotolando una pellicola, fotogramma per fotogramma, arrivare all'istante isolato. Arrivare finalmente all'atto. Come se fosse ancora possibile in una follia demiurgica riuscire a non farlo accadere. E' il tempo, insieme alla verità, la vera follia oggetto di questo lavoro. Il tempo così istantaneo che ci assale e che non ci dà speranza di comprendere né di agire razionalmente nel presente. Contro il tempo dilatato della pena, del carcere. Il tempo finalmente sentito, ragionato. Là solo dove è possibile provare vergogna, rimpianto, ma forse anche sperimentare la speranza di un possibile perdono

2) Il linguaggio e il giuramento. Rohmer - Gli amori di Astrea e Celadon


Si può amare nella strettezza delle regole grammaticali? Si può amare ed essere devoti ad un giuramento? Astrea e Celadon devono prima separarsi per scoprirlo. L'uomo, durante una festa, per non urtare i genitori, d'intesa con Astrea, finge di corteggiare Aminta che riesce a rubargli un bacio. Astrea vede la scena ed è così gelosa da respingerlo senza alcun appello, intimandogli di non farsi mai più rivedere se non su suo comando. Il dramma amoroso poggia le sue basi sul palazzo infernale della grammatica. Il rispetto della parola d'ordine, la preservazione del precetto, scatena il dramma umano, rinunciare al sacramento del giuramento è condannare e rendere impuro il proprio sentimento. Racconta il poeta Ibn Hazm la disputa che ebbe con un amico e compagno di lettere intorno all'amore non ricambiato. Che cosa fare quando la persona amata esprime il desiderio di non vedere mai più l'amante. Eseguire la sua volontà o obbedire alla propria passione? Ogni decisione che ne scaturisce è comunque il frutto di una costrizione esterna, dell'amata/o in un caso della propria passione nell'altro.
Rohmer ci spinge a vedere l'origine linguistica del giuramento e di ogni promessa. Ed è lo stesso che scrive secoli prima Tucidide a proposito delle città in preda alla guerra civile:  "non vi è più parola sicura né giuramento che incuta timore". Il giuramento e la promessa è ciò che conserva i rapporti e li rende stabili. Il linguaggio è il luogo dell'ordine. Una promessa ancora la sua verità alla semantica del linguaggio. Come si può venir meno alla parola data? Rohmer mette in scena le rigidi prescrizioni di ogni artificio linguistico in contrasto con le pulsioni e le buone passioni di una comunità arcadica. Ogni giuramento, come ogni linguaggio, ingabbia e allo stesso tempo vivifica i sentimenti.
L'unica possibilità per assecondare i propri sentimenti senza rompere la semantica e l'ordine grammaticale della parola è offerta da un espediente: il travestimento. Solo l'io è soggetto (sub-iectum) del linguaggio, Celadon può uscire da se stesso nella maschera preservando l'ordine delle cose e il suo giuramento. La maschera dell'io è funzionale al ricongiungimento della coppia, al sentimento puro aldilà di ogni dicibile. E' perdendo temporaneamente la propria identità che Celadon può essere riconosciuto, affidandosi finalmente alla pelle, senza mai rompere la semantica e la coerenza grammaticale, della legge, della convenzione. Il rigore di Celadon nel tenere fede alla parola data riproduce e moltiplica quello di Rohmer nei confronti del testo di Honoré d'Urfé. L'amore di Celadon per Astrea si raddoppia nell'amore di un regista per il testo scritto che porta in scena rinnovandolo senza mai tradirlo.


3) Il linguaggio e l'immagine. Greenaway - Goltzius and the Pelican Company


Uno dei primi incisori di stampe erotiche del tardo Cinquecento, Henrick Goltzius, è alla ricerca di un finanziatore per riuscire a finalizzare il suo progetto: un libro d'illustrazioni di alcune tra le più controverse storie del Vecchio Testamento. Il margravio di Alsazia è disposto a donare la cifra richiesta, ma solo se Goltzius e la sua compagnia, The Pelican Company, lo convinceranno mettendo in scena dal vivo gli episodi biblici legati ai vizi capitali. Solo che Goltzius ha un progetto audace in testa che è il medesimo di Greenaway: trattare le immagini come le parole, affinché si produca un connubio tra immagini e parole che superi la loro essenza isolata. Il lavoro diventa propriamente quello dell'artista che deve riuscire a vivificare la rigidità della parola morta, ingessata dalla religione e dal linguaggio  "sacro", nel senso di "sacer" separato. La messa in scena, il teatro, costituisce e spalanca la possibilità estetica di riportare nel piano immanente la parola delle scritture per conferirle un nuovo e liberatorio senso. Goltzius riproduce la lotta di corpi in cui è inscritta, tatuata, la parola del potere della sceneggiatura, della storia a tutti i costi, insieme al loro sforzo di liberazione. L'ortodossia religiosa è il massimo dell'allucinazione del cinema, laddove la parola è asfittica, non dice nulla oltre il suo dire. Svelare una volta per tutta l'artificialità del cinema, questo è il compito dell'artista. Per tale ragione, Greenaway si autorappresenta nelle vesti di uno stampatore nell'atto di scardinare tutti gli elementi di potere: primo fra tutti quello della parola scritta. Il testo illustrato, la didascalia conservano la violenza del principio sadico, perché mettono in scena ciò che lo scritto ordina imperativamente: l'immagine che rappresenta è dimostrazione cogente dello scritto. Più di una similitudine induce l'opera di Greenaway con il Salò/sade pasoliniano, ma mentre lì l'immagine è connivente allo scritto, sua diretta produzione, per Greenaway si tratta proprio dell'operazione contraria, quella di una messa in scena che produca un cortocircuito nel linguaggio del potere. Si tratta, dunque, di produrre un'immagine nuova che strappi le pagine e le restituisca alla vita, per un'espansione della potenza estetica oltre il testo scritto, oltre la scrittura di scena. Fabbricare un nuovo spazio, non più solo oggetto, ma potenza inglobante, in cui tutto l'universo che guarda è la dimensione da conquistare, fino a rompere in modo fittizio quello schermo che divide la scena dallo spettatore-voyeur. E fabbricare un nuovo senso, la parola che non cessa di produrre implicazioni e imbrogli, epigoni e traditori, non solo negli attori che la inscenano, ma finanche nelle segrete stanze del potere del margravio, che è trascinato nel pieno di un fastoso labirinto da cui non si può uscire, e nel quale viene presto trascinato anche Goltzius/Greenaway. E' infine l'ultimo cortocircuito quello che annulla ogni potere, anche quello dell'autore sulla propria opera che ora può scorrere placida, serena. Spira su tutta l'opera il freddo alito del principio di immanenza, l'espressione artistica sortisce modificazioni all'interno della corte committente e sull'autore stesso, ciò che si esprime modifica la stessa causa di espressione

4) Il linguaggio e il potere. Godard - Adieu au Langage


Siamo all'assoluto filmico, alla riflessione estrema. L'ultima fatica di Godard arriva con la perentorietà e l'acutezza di una freccia ad incidere nella carne viva cento anni di storia di cinema. Spalanca uno squarcio nel cielo di carta di questa gigantesca messa in scena. "Io sono qua per dirvi no, sono qua per morire e dirvi no". La denuncia della falsa neutralità del fondamento linguistico. Niente è neutrale, né istituzioni, né linguaggio. Esso è costruzione, artificio, ma anche e soprattutto la principale architrave del potere. L'uomo crede di essere libero, ma è rinchiuso in una grande prigione, quella del linguaggio. Una grammatica lo incatena alle parole d'ordine che rinviano a comandi,  tutti gli atti sono enunciati da un obbligo sociale. Il linguaggio ordina. Dà ordini alla vita ("sono ai vostri ordini"). E, prima di esso presuppone sempre altro linguaggio, non si può in alcun modo uscire da esso. Si va sempre da un dire ad un altro dire, di rimando in rimando, costruendo la prigione-labirinto che abitiamo "dove non ci sono scale da salire né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo". Dire addio al linguaggio è dire addio a Dio e allo Stato, alla coercizione, alla relazione comando-obbedienza ("Ah Dieu"). L'opera del regista francese si confonde e si vivifica nelle parole del giovane antropologo Pierre Clastres: la legge che si fonda su se stessa mente doppiamente, solo nelle società primitive non si presenta questo caso, perché esse sono in guerra contro lo Stato. Addio al linguaggio come metafora del rifiuto dell'unificazione di una molteplicità, la fatica di scongiurare l'Uno. La fatica di scongiurare finalmente la comunicazione e ogni parola d’ordine. Il rimando al magnifico esperimento Hollywoodiano “essi vivono” è quasi naturale, nella lotta per liberarsi dalle parole d’ordine da cui siamo circondati. Il grande cinema è stato solo scrittura di scena, la preminenza dello scritto sull’atto, il cinema minore è lo smarrimento dello scritto, è dimenticanza, contraffazione. Uno schiaffo alla parola scritta. Demistificazione. Un pube femminile attraversa lo schermo, una lingua smitizza e demistifica il suo immediato linguaggio sessuale "gli indiani Apache chiamavano il mondo la foresta". La sottrazione e la rivoluzione della grammatica delle parole d'ordine. Ritrovare ovunque la contingenza del linguaggio, ovvero tra ciò che è detto e poteva essere detto altrimenti, sottrarre, dunque, il corpo allo sfruttamento del linguaggio e al suo uso comune, flussi di significanti-immagine non sottomessi alla tirannia del significato e della grammatica. E' l'evenemenzialità ad imprimere su un opera il sigillo della necessità, la  sua contingenza. Niente è più contingente di una costruzione linguistica. Ciò che discrimina l'uomo dall'animale è il linguaggio, questo, però, è tutt'altro che un dato naturale, ma una produzione storica che non può essere attribuita né all'uomo né all'animale. Se si toglie il linguaggio, l'uomo equivale ad un cane. La vita percettiva del cane sullo schermo, forse, ha la valenza di ricalcare e riprodurre uno stadio pre-linguistico e post-linguistico dell'uomo, una soglia in cui uomo e animale siano indistinguibili. L'addio al linguaggio è forse anche il superamento dell'ultima soglia che ci avvicina al regno messianico in cui l'uomo si riconcilierà con la sua natura animale? Ah Dieu. Adieu. Adieu au langage

20 commenti:

  1. Ho letto i primi due gran bei pezzi, gli altri me li lascio per quando vedrò i film relativi. ;)

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  2. Intense e importnti dissertazioni, per ora ho letto e digerito solo quella di Godard. Con il tempo, mi addentrerò nelle altre terre.

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  3. Purtroppo non ho visto nessuna di queste opere, sarei incuriosito dal documentario di Herzog, ho visto quasi tutta la sua filmografia e i suoi documentari sono tra i più belli che abbia mai visto. Di Rohmer ho visto diversi film ma questo non l'ho mai sentito. Di Greenaway ho visto solo Il Cuoco, Il Ladro, Sua Moglie E L'Amante che èun capolavoro, di questo non sono molto attratto. Infine Godard lo conosco molto bene, questo Adieu Au Langage non è stato incomprensibilmente distribuito in home video, sarei curiosissimo di vederlo.

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    1. Allora visto che siamo in tema ti consiglio "La nobildonna e il duca" di Rohmer, nightwatching di greenaway.(difficilissimo da trovare in italiano però). Per Godard ed Herzog dove peschi, peschi bene.

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  4. Ieri documentandomi su Zulawski dopo la visione "apocalittica" di possession, mi sono imbattuto in questa sua frase: "Se mi domandassero perchè scrivo, vorrei rispondere: perchè sono un cineasta. Perché faccio dei film: perché sono uno scrittore". Ecco lungi da me un paragone con questo grandissimo artista, ma mi servo volentieri del suo aforisma per spiegare la diversità e la carenza di questo mio post rispetto agli egregi lavori dei miei compagni di scrittura. Per me si è trattato ( e si tratta sempre) di scrivere di cinema per parlare d'altro. Come Zulawski e Carmelo Bene sono convinto che non si possa fare cinema col solo cinema, teatro col solo teatro, e non si può scrivere con la sola scrittura, ma la vera posizione critica è porsi ai bordi. Stare in guardia al limite della variazione, della sfumatura. Ne approfitto però per fare i complimenti ai bellissimi e generosissimi post dei miei "compagni" (abuso per la seconda volta di questa parola perché dopo avervi letto sono molto orgoglioso e onorato di aver scritto questo post collettivo) per la certosina ricerca e applicazione che hanno messo nei loro lavori e il sentimento col quale lo hanno espresso.

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    1. Rò, ma mica ho capito di che stai a parlà? il tuo pezzo è perfetto, grande e, probabilmente, il più lungo di tutti per testo.
      Cioè, non ho davvero capito a che ti riferisci quando parli di diversità, carenze e di post degli altri più generosi

      poi altre cose che dici o.k, veramente belle e molto interessanti, come sempre, ma ste carenze non le vedo, nè in qualità nè in quantità (beh, qui è addirittura oggettivo)

      (a parte

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    2. No non hai capito, non volevo far notare nessuna mancanza i pezzi sono tutti perfetti come sono, ovviamente. Stavo semplicemente spiegando la diversità del mio pezzo che dipende dal fatto che sono "un'analfabeta" cinematograficamente parlando, e che sono realmente meravigliato e colpito dalla ricerca e dalla raffinatezza (e gusto) degli altri lavori.

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    3. No no, avevo capito perfettamente e con questo tuo commento a maggior ragione.
      Te dicevi che il tuo pezzo era carente e diverso rispetto ad altri più generosi e meglio fatti

      ecco, a me non mi pare assolutamente

      a quantità, ripeto, hai scritto più di tutti, a qualità non hai niente da invidiare a nessuno

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    4. daje mo' l hai fatta diventa' più grossa de quella che era... non era riferito a nulla se non al numero di film e dei generi più vari che si sono trovati e visti i miei compagni di scrittura, era un modo per far loro un complimento, ecco. Adesso l'ho detta proprio "tera tera" come dicono i romani.

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    5. Io t'ho capito, almeno credo. Non mi aspettavo niente di diverso da te, ed è assolutamente un complimento.
      ;)

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    6. Beh tu non te saresti dovuta aspettare niente di diverso, le prime due rece sono la traduzione di ciò che ci eravamo già detti per chat. ;)

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    1. beh... tu hai steso anche la rosa della squadra, mi sono adeguato al gergo calcistico.

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  6. dittatura o no qui c'è tanta e interessante scrittura!
    pur conoscendo altre opere di questi registi mi mancano tutti e quattro i film :(

    leggendo ne Gli amori di Astrea e Celadon "Come si può venir meno alla parola data?" mi è venuto un pensiero a latere sulle acrobazie di apparentamento elettorale di questi ultimi giorni: la politica attuale è priva di amore! :)

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    1. Grazie Elena,
      hai colto bene, ed effettivamente è un paragone che ci sta tutto. Anzi il primo giuramento/promessa è quello che riguarda la cosa pubblica, violando quello, come diceva Tucidide le città cadono nel disordine.

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  7. non si finisce mai di recuperare :)

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  8. Ieri ho visto Into the abyss e vorrei fare una riflessione.
    Partendo dal presupposto che siamo tutti contrari alla pena di morte: è questa che condanniamo o la morte di un detenuto/essere umano? Mi spiego meglio.
    Se la pena, a danno di chi ha commesso il fatto, venisse perpetrata da chi ha subito l'ingiustizia (la famiglia della vittima chiaramente), saremmo lo stesso contari? Non diremmo: "è giusto?", "han fatto bene?", "meritava di morire per quello che ha fatto".
    Siamo contrari sul fatto che sia lo Stato ad arrogarsi questo diritto di vita e di morte o semplicemente siamo contrari all'idea di uccidere chi ha ucciso?

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    1. Ciao Rachele,

      credo che la tua sia una riflessione tutt'altro che banale. Nietzsche nella Genealogia della morale forse sviluppa una tesi molto simile alla tua. Infliggere un castigo più che una punizione del colpevole nella storia dell'umanità sarebbe stato l'appagamento di un istinto, la contropartita di un danno sofferto. Solo in seguito quest'istinto si è istituzionalizzato e sublimato nella punizione di Stato: l'ammanda, la multa, il carcere. Solo che in questo modo, rileva sempre Nietzsche, si è perduta anche uno degli aspetti originari della relazione umana che è quello tra debitore e creditore, o meglio della possibilità del debitore di estinguere il suo debito col creditore, attraverso una pena comminata dal creditore. L'entrata in scena dello stato presuppone una mediazione, ma anche l'idea che ogni debito, come ogni colpa sia irredimibile, perché non dipende più dal giudizio del creditore/danneggiato.

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    2. Molto, molto interessante, Rocco.
      Dunque, se non ho capito male, per Nietsche, l'attuale sistema giuridico-istituzionale risulterebbe fallace (dal punto di vista della pena) in quanto non soddisfa pienamente il diritto al credito del creditore.
      Se il desiderio della parte lesa, fosse, però, nel caso specifico, la morte di chi ha cagionato il fatto(rimanendo in tema con il doc), potremmo affermare che la pena di morte è l'unico modo per ripristinare quel rapporto obbligatorio, proprio delle relazioni umane, che lo Stato ha arrogato a sè.
      Dal doc si evince chiaramente il desiderio della sorella della vittima (non ricordo il nome) di vedere l'assassino morire tramite iniezione letale. Nel caso in esame, pertanto, lo Stato sta attuando la volontà del creditore (sorella) e se la sorella di quel ragazzo ucciso, ritiene giusta la pena di morte come punizione, non potrebbe essere lo stesso per le migliaia di persone che hanno subito lo stesso fato? E, ritornando al mio commento, se fosse la vittima a volere la pena di morte questa non diverrebbe automaticamente giusta?

      Credo di aver reso il tutto più difficile di quello che è. Confido nella tua capacità di interpretazione ;)

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    3. Sì e per certi versi, non tanto la pena, ma lo "spettacolo" della pena sarebbe l'appagamento del debito. In un certo senso è attraverso il cerimoniale della pena che il danneggiato baratta il suo danno con la crudeltà della comminazione di altra sofferenza: "senza crudeltà non v'è festa". Cioè banalmente infliggere una sofferenza rituale serve a far stare meglio l'individuo che l'ha subita. Quanto al secondo punto a cui tu arrivi, ovvero se tutto ciò sia giusto credo che comporti un'ulteriore determinazione: giusto per chi? Per i familiari, per la società per l'ideale di giustizia in quanto tale. Giustizia è l'espressione o la maschera delle forze che la blandiscono. Potremmo pensare in effetti che l'assenza della pena di morte è un grande progresso dal punto di vista sociale, dall'altra si potrebbe certamente dire che l'individuo che abbia subito un danno e si trovi ad esercitare una commisurata "vendetta rituale" riesca a sublimare questa perdita. In ogni caso entrambe le situazioni avvengono nel contesto cerimoniale o rituale di una istituzione e a pieno titolo vengono definite da coloro che le praticano giustizia.

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