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26.5.17

Recensione: "Get Out" (Scappa)

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Sono dovuto andare a vederlo due volte al cinema.
E non per la difficoltà del film.
Ma ne è valsa la pensa perchè Get Out è un gioiello di sceneggiatura, un film quasi perfetto, cinema d'autore mascherato da horror di multisala.

presenti spoiler

Vi è mai capitato di vedere un film e accorgervi solo alla fine che praticamente non l'avete visto?
E non perchè stavate stirando, chiacchierando o eravate in dolce compagnia ma semplicemente perchè la vostra testa era completamente altrove.
O.k, sì, vi sarà capitato.
Ma al cinema?
Una settimana fa (o 10 giorni? o 15?) sono andato con i miei amici a vedere Alien Covenant.
Vi giuro, mi ricordo se va bene 2 scene. La mia testa non è mai riuscita a seguire un solo dialogo o uno sviluppo di trama.
Quattro giorni fa ci riprovo.
Vado con Federico a vedere Get Out.

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E stavolta riesco a far funzionare il cervello al 50%. Resta il fatto che alcune domande del mio amico alla fine del film per me erano quasi incomprensibili.
Ma avevo la forte sensazione di aver visto un gran bel film.
Provo a scriverne per 4 giorni, arrivo al massimo a riga 2.
Decido allora di tornare a vederlo, sempre al cinema, stavolta con mio fratello, Romina e un altro amico.
E uso una tattica perfetta. In tutte le scene che ricordavo perfettamente lascio andare il cervello a quell' altrove. Una volta sono uscito addirittura di sala per farlo.
Mentre in tutte le sequenze che ricordavo male sto là, concentratissimo, quasi da quiz televisivo.
E riesco a mettere insieme tutti i punti.
Praticamente ho speso 25 euro per vedere un solo film.
Ma Get Out è un grandissimo film, praticamente perfetto.
Una sceneggiatura in cui non c'è un dialogo, un movimento o un passaggio superfluo o sbagliato.
Un travestirsi da "horror" da sala quando in realtà ci troviamo davanti a vero cinema d'autore, quello delle idee, quello del gran sviluppo delle stesse, quello della cura di tutto.
A me ha ricordato tantissimo Quella casa nel bosco. Entrambi sono a mio parere dei film "operazione", dei progetti, degli esperimenti col genere, dei giochi con lo spettatore, dei modi geniali di usare l'horror per parlare di tanto altro.
Anche di noi.
Ma quello che rende veramente straordinario Get Out è questo suo essere un film che parla di un razzismo che, se lo vai a veder bene, è totalmente "al contrario".

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Grande l'incipit, bellissimo il brano sui titoli di testa, evidente sin dall'inizio la cura tecnica.
C'è un incidente con un cervo che ricorda molto quello dello straordinario The Invitation. Anche se qui la metafora è molto più chiara, la scopriremo dopo.
(Buffo che i punti in comune tra i due film non si limitino a questo)
Chris e Rose sono una coppia affiatatissima.
Rose vuole far conoscere Chris in famiglia. 
C'è un solo problema, Chris è nero. 
Ma lei lo assicura che i suoi non sono razzisti, saranno contenti.
E, attenzione, è qui una delle perle di sceneggiatura.
Se ci pensate bene che loro non siano razzisti è verissimo.
O meglio, lo sono per il fatto di dividere l'umanità in razze, ma non nel considerare quella inferiore...
Si arriva a questa splendida villa isolata.
E comincia un thriller in continuo climax, un cinema della minaccia e del tentativo di comprensione della stessa.
I due domestici neri della famiglia Armitage sono stranissimi, sembrano su un altro mondo (sembrano me). Chris, da bravo fotografo, inizia a vedere tutti i dettagli, a capire che là c'è qualcosa di completamente sbagliato.
Già, ma cosa?
Arriviamo alla scena di notte.
Scena a me cara perchè mio nonno era uno dei più importanti ipnotisti italiani.
E curava soprattutto il tabagismo, come qua.
La scena è resa in maniera perfetta. La colonna sonora che viene "affiancata" dal tintinnio del cucchiaino (e, attenzione, era già successo fuori, con i thè, è lì che è cominciato tutto), Chris che sprofonda in quel mondo sommerso (echecazzo, ancora me) e che vede la madre di Rose lassù, in cima...
Il senso di colpa per la morte della madre diventa il grimaldello per entrare dentro di lui.
(ecco che capiamo qui la scena del cervo investito e non soccorso che nell'incipit faceva tanto male a Chris...)
Lo spettatore fa presto 1 + 1, l'ipnosi, Georgina, Walter...

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Ma avvengono tante più cose.
C'è la grande sequenza della cena, con l'attore che interpreta il fratello di Rose veramente formidabile.
C'è la corsa di Walter (ragazzi, questa è la vera scena horror del film, per mille motivi, pensateci... Quel nonno che fu battuto da Owens e che ancora adesso vuole correre, correre, sempre più forte, per superare quel trauma).
Una scena che per potenza mi ha ricordato quella nelle fondamenta di The Visit.
E Georgina che si trucca, che sembra una gran dama.
Straordinario.
Arrivano poi tutti gli ospiti.
E qui c'è una sequenza di 4 secondi che secondo me è talmente geniale da non rendersene conto.
Ad accogliere gli ospiti va il giardiniere nero, Walter. E tutti lo abbracciano...
Lo spettatore più scafato capisce che qui il nostro ragazzo sta finendo in qualcosa di molto grande. Ma è quasi impossibile prevedere cosa.
La sequenza del flash del cellulare che dà titolo al film (che grande attore quel ragazzo di colore), quella terribile, quasi horror, del bingo-asta. E tutti questi bianchi che adulano, che guardano...
Il climax è quasi al massimo ma ancora non si riesce ad intravedere il senso di tutto.
In mezzo a tutto questo il grande regista e sceneggiatore (nero, ovviamente) Peele, infila un personaggio straordinariamente comico, l'amico di Chris. Qualcuno storcerà il naso ma io l'ho trovata l'ennesima grande scelta. Oltre alle risate che fa fare questo è un grande personaggio per le intuizioni geniali che ha, praticamente tutte giuste.
Arriveremo all'ultima parte, quella dello svelamento.
Quella che ci fa capire che se c'è un razzismo è ribaltato.
Loro vogliono essere loro, incredibile.

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E ripensi a tante piccole battute, tante piccole scene ("io non obbedisco a nessuno" dice Georgina), a come il regista abbia messo tante piccole esche.
E c'è poco da fare, funziona tutto anche qui. Funziona la pazzia del progetto, funziona la parte violenta e quasi splatter, funziona alla grande il finale.
Quasi commovente come la "parte nera" di Walter in quei pochi minuti di lucidità decida di farla finita.
Funziona tutto.
Film anche profondamente politico, ma ci saranno fior fiore di recensioni a parlar di questo, io già è un miracolo se ho buttato fuori ste tre/quattro cose.
Mi piace sottolineare però la questione politica in un aspetto forse marginale, quello per cui a nessuno interessa dei neri scomparsi.
E alla fine arriva la polizia.
Eh, purtroppo il nero deve essere sempre il colpevole, sarà lui l'accusato della strage.
E invece no.
Perchè è giusto così.
Chris è finalmente fuori da tutto, anche dal mondo sommerso.
Speriamo di raggiungerlo.


20.5.17

Recensione: "Autopsy" (The Autopsy of Jane Doe)

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Un grande film horror, inquietante, profondo, benissimo girato.
Il corpo morto di una ragazza bellissima e dall'identità sconosciuta.
Un'autopsia che rivela segreti incredibili.
E una metafora straordinaria sul bisogno di tirar fuori le cose.
Prima che sia troppo tardi

La recensione sarà veramente pessima, viene 15 giorni dopo la visione del film.
Ne avrei scritto almeno il triplo.
Scusate.

The Autopsy of Jane Doe è uno di quegli horror che ti riconciliano col genere, uno di quelli dove trovi veramente tutto, regia, stile, inquietudine, profondità, letture, atmosfera, cambio di marcia.
E fa ancora più piacere che a girare sto notevole horror sia stato il norvegese Ovredal, il regista del mio amatissimo Trollhunter.
Una coppia di film mica da poco eh...
Ma lo vedi subito, lo vedi subito quando un horror ha dietro una cura, basta quel titolo iniziale che si svela a poco a poco, bastano le prime due inquadrature fuori di quella casa, roba che sembra di trovarci in It Follows tanta è la cura e il nitore.
E poi quella terribile scena del crimine e poi lei, la bellissima Jane Doe (nome che si dà per convenzione alle vittime prive di identità o agli sconosciuti in genere), quel suo corpo bianco disotterrato nella torba.
Poi siamo a casa Tilden, casa dove nel seminterrato padre e figlio svolgono il loro lavoro.
Obitorio/crematorio, a loro sono affidate le autopsie.
E il film svela subito il proprio coraggio, quello di mostrare senza alcun filtro (ma non con la sensazione di voler scioccare o avere questo come finalità principale) le pratiche autoptiche.
Corpi tagliati, ossa spezzate, campioni prelevati, cuori e cervelli estratti.
Sì, un grande incipit, vario, interessante, benissimo costruito.
Poi a casa Tilden arriva lei, Jane Doe.
C'è da sapere entro la mattina successiva di cosa sia morta questa ragazza trovata per caso nella casa dove è avvenuto un autentico massacro.
E niente, la ravvicinatissima god view sul viso della ragazza, inquadratura che tornerà decine di volte, è straordinaria.
Vi giuro che mi metteva un senso di inquietudine e al tempo stesso di "bello" che non vi so descrivere. Una di quelle inquadrature che mi ricorderò per davvero parecchio tempo.
La genialità di questo horror sta in questa tremenda situazione di stasi e morte che però nasconde un horror cerebralmente dinamico come pochi.
Lo spettatore sarà catapultato in una ricerca della verità che spazierà tra più generi.
E il trovarsi praticamente in tempo reale renderà ancora tutto più bello.
Il film avrà una svolta horror che se per certi versi ritengo strepitosa (chi è lei e cosa fa è perfetto) crea però, al tempo stesso, una serie di comportamenti nei due Tilden che molte volte fanno davvero arricciare il naso.
Se infatti la loro ritrosia al paranormale è assolutamente comprensibile, è davvero mal gestita la loro reazione quando quel paranormale sarà senza ombra di dubbio inconfutabile.
Sono due però quelli che ritengo i meriti maggiori del film.
Il primo è una grandissima riflessione sulla sofferenza. La ragazza presenta un corpo perfetto, senza alcuna ferita o altro.
Poi più lo aprono più vengono fuori elementi che fanno capire l'incredibile sofferenza che quella ragazza deve aver passato. E anche se alla fine scopriremo la sua identità questo non cambia una virgola sulle profonde riflessioni che questo aspetto ci aveva scaturito.
Non è un caso che al "Lascia che ti aiuti", di padre Tilden lei faccia provare a lui tutto quello che aveva passato.
Perchè è questo a cui lei tiene, liberarsi di quella sofferenza che la mangia viva dal dì dentro.
C'è però una scena piccolissima che secondo me ha una metafora straordinaria.
Padre e figlio parlano della madre defunta.
E di come lei abbia sofferto per aver tenuto "dentro le cose", non si sia mai liberata di quello che suo marito le faceva passare.
E questo probabilmente l'ha uccisa e ha privato di una madre il ragazzo.
Beh, questa metafora del tenersi dentro le cose in un film con questo soggetto, con le ferite che Jane Doe aveva dentro di sè, penso sia straordinario.
Perchè tenersi dentro le cose uccide.
E non dovrebbe servire un'autopsia per rivelarle.
Bisogna farlo in vita

12.5.17

Me stesso. E una piccola spiegazione del momento



C'è una scena (che linko in fondo al testo) nel bel Angel-A di Besson che ho sempre ritenuto meravigliosa e devastante insieme.

L'Angelo Biondo porta Andrè davanti allo specchio.
E piano piano lo costringe a dirsi quanto si ama.
Non tanto quanto ama lei, ma quanto ami lui.
Lo costringe per la prima volta a guardarsi negli occhi.
Arrivato a quasi 40 anni mi accorgo di una vita vissuta quasi totalmente nell'interiorità.
Un'interiorità di cui vado orgoglioso e che negli anni ha portato centinaia di persone (comprese le "virtuali") a volermi bene ed aver stima di me.
Ma la vita interiore è anche quella dei dubbi, delle incertezze, delle paure e delle debolezze.
E a volte più che un tesoro può essere una prigione.
Forse anche io adesso ho avuto il mio angelo custode che mi ha costretto a guardarmi negli occhi. A non vedere solo il Giuseppe interiore ma anche quello di fuori, quello che si muove nel mondo.
Mi ha costretto a vedere chi sono.
E, per la prima volta in 40 anni, ho volto lo sguardo dal mio io interiore al mio viso.
Ho alzato la testa.
E fatto una foto.
E se è vero che ancora sono lontano dal dirmi "ti amo", se è vero che sono ancora l'Andrè che si dice "non ci riesco", intanto in quello specchio ci sto guardando.
E non uscirò dal bagno finchè non ce la farò.
E la stangona bionda può anche uscire. Che poi manco mi piace.
Meglio piccole e more.




I più attenti di voi avranno visto che da 15 giorni non aggiorno più praticamente nulla.
Ci sono tanti motivi.
Volevo solo dire che può darsi che sia così per un pò.
O magari invece posterò tantissimo.
Ma non posso sapere.
Quindi niente, Il Buio in Sala non chiude e forse nemmeno calerà.
Ma se cala per un pò vi ho avvertito.
Spero resterete qua.
E vogliatevi bene tutti


7.5.17

Scritti da Voi (105): Manuela - "Il mio Mulholland Drive"

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Manuela è lettrice da tanto tempo e carissima amica.
Lettrice silente.
E ancora più silente commentatrice. Anche se le poche volte che ha commentato, vedi I Origins, l'ha fatto in modo dirompente... ;)
Da tempo mi aveva mandato sto pezzo qua, ma un pò come Marco Giardino alla fine o non arrivava l'autorizzazione o non se ne parlava.
Quindi faccio di testa mia.
Non è una vera e propria rece ma, come piace a me, il raccontare il proprio rapporto con un film (specie nella seconda parte)
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Penso che Mulholland Drive sia stato il mio primo amore.
Non che non abbia visto film altrettanto belli prima ma pochi, davvero pochi, mi hanno trascinata nella storia e nelle emozioni come questo.
Ne è la prova averlo visto una decina di volte; ulteriore prova è aver nominato questo film almeno cento volte con Giuseppe, che, probabilmente esasperato, mi ha chiesto di scriverne.
Io non parlerò della storia, della trama, delle interpretazioni ecc, ecc. Per questo esistono recensioni e tanto di saggi, quindi io non mi prendo la briga né l’onore di farlo.

Invece in un certo senso racconto di me, di quello che ho provato e provo ogni volta che sono di fronte a Camilla e Diane.
Non ho visto tutte le opere di Lynch, quindi spero di non sbagliarmi dicendo che questa è la sua più grande, quella con più equilibrio, meno egoismo nell’apparire e più rispetto della storia, e forse dello spettatore stesso, che non viene travolto dal surreale.  Ne viene solo un po’ confuso, perché lo stile lynchiano non manca mai. Per fortuna, direi. Ma lui è così, è un pittore che nasconde le verità dietro i mostri che dipinge e viceversa.

Prima ho detto di aver visto MD circa una decina di volte. Ormai riesco a guardarlo con occhi, testa, cuore, anima contemporaneamente. All’inizio non è stato così.
La prima volta ho guardato MD con occhi e testa. Ero consapevole della mente che lo aveva creato, e il mio solo obiettivo era cercare di capire la trama e seguire la storia, mentre ammiravo distrattamente qua e là luoghi, musiche, colori e personaggi. Ero un po’ Alice nel paese delle meraviglie.
Poi l’ho riguardato, era più forte di me. Dovevo riguardarlo con il cuore e con l’anima.
Dovevo rivedere Adam Kesher e Angelo Badalamenti. Dovevo riascoltare “Sixteen reason why I love you” e  “I’ve told every little star”.Dovevo rivedere il nano, e la morte che si nasconde dietro un Winkie’s, i due vecchietti, e il cowboy e la signora dai capelli blu.
Più di tutto, dovevo assolutamente rivedere Diane e la sua storia. La storia di chiunque abbia vissuto la frustrazione, il fallimento, il dolore, l’amore distruttivo. Chiunque fosse passato attraverso la disperazione e la vendetta, attraverso la speranza di sognare e ricominciare, fino all’angoscia del risveglio.
C’è una famosa frase di Nietzsche che dice . Io l’abisso l’ho visto e lui ha guardato me, attraverso gli occhi di Diane. Quella scena del bacio tra Camilla e Adam, quello sguardo, quella luce che si abbassa nella stanza, nell’anima e nella coscienza. Quel buio era l’abisso che ti macchia come inchiostro.
Quello sguardo accecato di rabbia mi ha trapassata, quel dolore mi ha ferito il cuore.
Ed il mio era un cuore già aperto in due dalla voce di Rebekah nel Club Silencio mentre canta Llorando. Quella lacrima finta sul viso di Rebekah, quella voce finta che forse serve solo a coprire il vero Silenzio. Cos’era finzione, cos’era realtà? La realtà erano quegli occhi. Come la pacca impietosita di Coco sulla mano di Diane, la freddezza degli amanti, il cinismo degli arrivisti, il ghigno della coscienza, il grido della consapevolezza.
La realtà è quello che sei, Diane, più di ciò che vorresti essere. Questa è la fine, la scatola si è aperta ed è il tuo vaso di Pandora. L’abisso ora ti guarda e tu non puoi farci niente. Ma sorriderai, come sorrideva Laura... perchè Lynch tutto sommato per le anime perdute ha pietà e compassione.

So bene quanto questo regista divida, come pochi, il popolo a metà. O lo ami o lo odi.
Ma se lo odiate, provateci comunque a percorrere Mulholland Drive. Guardate questo film e amatelo se potete. Fatevi trapassare da quello sguardo, da quella voce e da quelle lacrime. E provate a sorridere con Diane e per Diane, quando lei riuscirà a raggiungere i suoi sogni.

5.5.17

Recensione: "Sound of my voice"

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La conferma del talento incredibile della Marling che, anche in questo caso, oltre a recitare da Dio si è scritta pure il film.
Una ragazza che dice di essere arrivata dal 2054 sceglie un gruppo di eletti per affrontare il nuovo mondo.
Film sulle sette senza le insidie delle sette e sulla fantascienza senza alcun elemento fantascientifico, Sound of my voice è l'ennesima piccola perla di sceneggiatura che gioca con verità e menzogne, psicologia, menti fragili ed altre dominanti

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Per prima cosa c'è da dire, anzi da ribadire, che Brit Marling è una Dea.
Credo che insieme ad Anya Taylor-Joy possa tranquillamente dire che nel mio piccolo Olimpo ci sono loro due.
Anche perchè ormai Carey Mulligan credo di averla spostata nell'Olimpo di sopra, di quelle che ormai governano il mondo, con la Regina (non a caso) Natalie Portman sopra tutte.
Quando vedi il viso e la recitazione della Marling non è che rimani tanto affascinato dalla sua bellezza, ma da una sensazione di intelligenza, profondità, carisma, che poche hanno.
Ma del resto stiamo parlando di una che recita, scrive film (anche questo qua) fa regie, produce.
Una mente elevata.
Ed era quindi perfetta per questo suo (quasi) primo ruolo, quello di una ragazza a capo di una specie di setta.
Una che, appunto, deve avere intelligenza, profondità e carisma.


Sì, detta così può fuorviare.
In realtà Maggie (la Marling) dice di esser venuta dal futuro, dal 2054. Si è risvegliata nella vasca da bagno di un hotel, nuda, senza nulla.
Piano piano ha riacquistato memoria e consapevolezza. E adesso, dopo vari test esterni, ha scelto un gruppo di Eletti, una decina di persone che devono aiutarla ad affrontare il mondo che verrà, un mondo dove gli Stati Uniti saranno mezzi distrutti da una guerra civile, dove ci sarà poco cibo, dove paradossalmente la tecnologia verrà soppiantata da un ritorno alle cose naturali e semplici.
Una coppia riesce a far parte degli Eletti ma è lì solo per girare un documentario che smascheri questa donna.

2.5.17

Scritti da voi (104) Marco Giardino - Sull'Arte e sul Cinema dell'orrore – parte I: Le origini. Appunti d'un brevissimo viaggio, appena un milione di anni o giù di lì, per associazioni più o meno libere, per quanto un'associazione possa essere libera

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Ormai un annetto fa arrivò nel blog un lettore molto interessante, Marco Giardino.
Intelligente, ironico, colto, altezzoso, snobbetto.
Tutte le discussioni con lui, mie o di altri, furono al tempo stesso molto stimolanti e anche un filo nervose, visto questo suo modo di porsi un tantino arrogantello.
A me piaceva molto.
Gli affidai una rubrica, lui mi mandò questo primo pezzo (molto bello) e io gli scrissi di darmi il titolo della rubrica.
Non l'ho più sentito.
Non arriviamo al caso di Giorgio Neri, il Late Answer's Man, ma certo che è strano pure questo...
A sto punto passato tutto sto tempo io il pezzo lo metto lo stesso.
E, Marco, se ci sei, batti un colpo

Un estratto

"Quando ha avuto origine l'orrore? Bene, penso che si possa ipotizzare che l'orrore abbia avuto origine quando l'uomo ancestrale ha abbinato per la prima volta il pensiero simbolico a ciò che lo spaventava. Mi spiego meglio: l'orrore non è la belva ferina che l'assaliva massacrando i suoi compagni, e dal quale lui riusciva a scappare. Ma i pensieri che lui rivolgeva alla belva ferina. Quando ha cominciato a pensare in termini nevrotici. Quando, distogliendo lo sguardo da una femmina, ha pensato: "La belva potrebbe tornare... cosa succederà allora?". Allora ha avuto origine l'orrore."
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Inizio dicendo la cosa più importante: questo breve articoletto, con il quale inauguro questa Rubrica (che non sarà una rubrica di recensioni, ma di riflessioni sul Cinema, e sulle altre sei forme d'Arte, a cui il Cinema deve la sua esistenza... e anche un po' sull'esistenza in particolare), si prefigge semplicemente di elencare una serie di considerazioni, e cercare d'esprimerle in una maniera quanto più possibile lineare e comprensibile. Non è un saggio, né una tesi – per cui diversi aspetti non saranno approfonditi quanto meriterebbero - e non pretende, ma questo è scontato, d'affermare cose universalmente condivise.

Dopo “chi sei?” e “che senso ha la tua esistenza?”, una delle domande più ostiche e stordenti in assoluto è “che cos'è l'Arte?”. Inutile dirlo, sono un signor nessuno e non pretendo di avere una risposta. Ma, avendo sempre pensato che l'Arte, al pari della Filosofia, del sesso, e di pochissime altre cose, avesse un ruolo fondamentale nella vita di ogni singolo essere umano, di ogni epoca (e intendo proprio ogni epoca), mi sono spesso interrogato sulla sua natura, e su quale potesse essere la sua più genuina ed intima essenza.
Fondamentalmente, credo che l'Arte abbia avuto origine nei sogni.
Quando dormiamo, quando sogniamo, l'inconscio si libera dei vincoli della veglia, delle poche regole che scegliamo di darci, dalle innumerevoli che ci vengono imposte, e dell'ordine costituito dalle nostre illusioni – prima tra tutte, quella di possedere un'identità -, e ci consente di assaporare una realtà senza dimensioni e senza tempo.
Faccio presente che non sto affermando che la sfera onirica trascenda l'esperienza cosciente (c'è chi pensa chi i sogni non siano unicamente una sorta di “discarica”, usata dalla nostra mente per rielaborare il vissuto, e potrebbe anche essere vero, potrebbe non esserci niente di più, ma rimane il fatto che i rapporto tra conscio ed inconscio, ci consente di interpretare, processare e donare un senso a tutto ciò che viviamo), così come non affermerei il contrario. Credo che, più importante ancora di stabilire esattamente da cosa sia composta una data dimensione, e cosa provochi esattamente una data esperienza, sia vivere l'esperienza in sé; e l'esperienza onirica, molto semplicemente, ci porta in luoghi oscuri. Luoghi da cui possono nascere associazioni ed intuizioni estranee alla vita cosciente, in grado a loro volta d'influenzare, attraverso il pensiero creativo (o trasversale, che dir si voglia), il nostro modo di vedere le cose da lucidi. Un sogno, particolarmente vivido, oppure un sogno lucido particolarmente intenso, al pari di un viaggio allucinogeno, o un'esperienza mistica, possono portarci a mettere in dubbio quel che crediamo di sapere, empiricamente, senza usare la mente, senza filosofeggiare, ed avvicinarci a quello che potremmo definire la "sorgente" della realtà.
Vi siete mai osservati allo specchio senza riuscrire a riconoscervi? Ecco, più o meno sto parlando di questo.
Si può manifestare in mille modi, ma di fatto si tratta di un'esperienza di epifania, piuttosto destabilizzante, che porta ad una serie di altre esperienze simili, in un percorso di continua, e probabilmente infinita, ricerca. Non si tratta di uno sterile, per quanto brillante, ragionamento a mente fredda, costruito a tavolino, si tratta di un'esperienza sciamanica (se volete un esempio di quello di cui sto parlando, uno tra i tanti, fate riferimento alle esperienze di Artaud, che certo in questo era "facilitato" dalla schizofrenia, o di P.K. Dick, autentico sciamano, filosofo e scrittore del XX secolo, che non costruiva le sue storie meccanicamente, sulla base dei gusti del pubblico, ma vi arrivava rimaneggiando le sue ossessioni sulla natura delle percezioni, al punto da auto-convincersi di ricevere messaggi da altre realtà parallele), che, personalmente, ritengo una scintilla indispensabile per fare dell'Arte.
La linearità, vagamente confortante, del quotidiano si disgrega pericolosamente nel sogno. Ed ecco che, allora, immagino uomini primitivi, vissuti migliaia di secoli fa, che attraverso il sogno hanno vissuto le prime esperienze proto-sciamaniche, in grado di influenzare la loro coscienza, di scuoterla nel profondo. E non mi riesce difficile convincermi, pur senza averne le prove, che alcuni dei graffiti, o dei primordiali oggetti scolpiti o intagliati, o delle prime melodie di tamburi (in Lovecraft, il suono arcano del cosmo è un rullio concitato di tamburi), non fossero solamente un'esigenza data dalla tensione verso una colletiva ritualità, o dal voler comunicare con altri esseri umani (per quanto, naturalmente, la volontà di comunicazione, sia fondamentale, e credo lo fosse anche prima dell'invenzione della parola, e del linguaggio stesso!... a proposito, fermatevi un attimo a riflettere sul fatto che oggi, pur avendo un linguaggio relativamente complesso, a disposizione, fraintendiamo più dell'80% di ciò che crediamo di capire attraverso di esso, ed inoltre non siamo in grado di comunicare efficacemente molte dele cose che ci passano per la testa. Il linguaggio è un'elegante trappola, direbbero alcuni. Anche perché spesso va in direzione contraria rispetto all'empatia, e non serve a capire gli altri, ma a giustificare soprusi sugli altri), ma soprattutto una priorità dell'anima, un'impronta vigile ed assoluta d'indicibile sempriterna ricerca di sé(nso).
Sarebbe intellettualmente disonesto non associare questo discorso all'uso di sostanze psicotrope (si sa per certo che già dall'epoca Sumera ne facevamo uso, ma è facile intuire come è probabile che alcuni allucinogeni naturali fossero conosciuti da molto prima), ma evito di prolungarmi su questo, non perché non sia importante, ma perché non arricchirebbe il discorso che sto facendo. Aggiungo solo che Arte, esperienze sciamaniche e droghe sono sempre andati di pari passo, il materialista vedrà la cosa con spirito pragmatico, il mistico in maniera quasi diametralmente opposta, ma ai fini del mio discorso cambia il giusto.
Si parlava dunque, forse in maniera un po' confusa, delle origini... le origini dell'Arte, e del pensiero simbolico, la galassia di cui l'orrore è, se vogliamo, un sotto-insieme.
Immaginiamo, per quanto sia possibile, la vita di un uomo delle caverne, vissuto 150 mila anni prima dell'invenzione della scrittura. Quali erano le sue paure più grandi, ne aveva? Di sicuro sì, ma è più che probabile che non ci rimuginasse sopra più di tanto, come faremmo noi. Il suo approccio era decisamente più simile ad un animale, e in molti sensi è un cosa positiva. Di sicuro non stava a filosofeggiare, ma in compenso era pressoché avulso dal pensiero nevrotico. Non poca cosa (avete presente quelli che meditano un'ora al giorno, con l'incenso e compagnia? Stanno solo provando ad essere meno nevrotici, meno "automi", ed a vivere con più presenza il momento presente... cosa che un gatto fa per sua natura, senza il minimo sforzo). Le sue paure erano certamente iscrivibili in due macrocategorie: i pericoli imminenti (e qui entravano in gioco le automazioni del cervello, che, se ci pensate su un attimo, sono le stesse che ci fanno dannare quando non vi sono pericoli imminenti eppure ci facciamo problemi su tutto, entrando in circoli d'ansia, o peggio. In pratica, percepiamo un pericolo inesistente, e lo simuliamo migliaia di volte, a volte con tale pervicace talento da indurci reazioni piuttosto realistiche... un esempio su tutti, il classico attacco di panico: temiamo così tanto di poter provare una certa sensazione sgradevole, che la stessa finisce, fuor d'ogni logica, per assalirci, che sia un senso di soffocamento, o un forte dolore, o chissà cos'altro), ed i pericoli conosciuti, non imminenti, ma prossimi, o che si pensa si potrebbero realizzare (ad esempio: un terremoto, un'eruzione, o più probabilmente un uragano. Sapendo di cosa si trattava avrebbe potuto interpretare i segni, ed ipotizzare il suo arrivo). Tutto il resto, verosimilmente, era fuori dai suoi pensieri, appartenendo alle sfere del passato o del futuro era altro da lui, e non veniva temuto.
Un uomo moderno, trovandosi, senza preavviso né preparazione, a vivere in Natura, impazzirebbe all'idea di poter incontrare chissà quale strana bestia, magari di quelle che ti entrano silenziosamente sottopelle e depositano le uova, oppure entrerebbe in paranoia nel dubbio d'aver mangiato, due giorni prima, qualche bacca velenosa, o ancora sarebbe preso dallo sconforto, dal senso di solitudine, dal disagio, cercherebbe di stabilire come tornare ad una vita agiata, ed in quanto tempo, passando più tempo a fantasticare e pianificare che non a vivere (che è esattamente quello che facciamo noi, ed il motivo principale per cui abbiamo sempre tanti "problemi", più o meno gravi). L'uomo primitivo, invece, si preccupava, perlopiù, di quello su cui poteva agire. Pensava al fuoco, a raccogliere cibo o cacciare animali, a trovarsi un riparo, ad accoppiarsi, e a pochissime altre cose. (di certo non passava il tempo a fantasticare su altre ere evolutive, come sto facendo io, giusto per sottolineare la differenza tra loro e noi).
Ecco allora che sono arrivato al punto. Quando ha avuto origine l'orrore? Bene, penso che si possa ipotizzare che l'orrore abbia avuto origine quando l'uomo ancestrale ha abbinato per la prima volta il pensiero simbolico a ciò che lo spaventava. Mi spiego meglio: l'orrore non è la belva ferina che l'assaliva massacrando i suoi compagni, e dal quale lui riusciva a scappare. Ma i pensieri che lui rivolgeva alla belva ferina. Quando ha cominciato a pensare in termini nevrotici. Quando, distogliendo lo sguardo da una femmina, ha pensato: "La belva potrebbe tornare... cosa succederà allora?". Allora ha avuto origine l'orrore. Ed il suo circolo vizioso, tra paure irrazionali e trasposizione onirica del vissuto.
Anche il più grande dei misteri, ha cominciato a diventare un problema, ed a inquietare, ad un certo punto dell'evoluzione umana. Per molto, molto tempo, gli ominidi si sono limitati a nascere, esistere, e poi morire, senza che lo scopo ed il significato di tutto ciò fosse per loro particolarmente rilevante. Poi qualcosa è cambiato, lentamente s'è cominciato a riflettere su questo fenomeno, sulla propria caducità, e porsi delle domande. Anche e soprattutto in quelle domande, è insito il senso profondo dell'orrore.
Chiaro che pure i fenomeni che sovrastavano l'uomo evidenziandone l'impotenza, e ne minacciavano l'incolumità fisica, abbiano avuto bisogno d'essere ammantati di un qualche significato; agenti atmosferici particolarmente violenti, fuochi che divampavano apparentemente senza motivo, tsunami o attacchi di predatori, diventarono così un atto compiuto da una non meglio precisata entità, che in seguito, molto più tardi, venne identificata con divinità, o spiriti di vario stampo, oppure segni divini da interpretare.
Avremmo, in questo caso, una sostanziale convergenza, tra nascita dell'orrore e nascita della religione. Inutile dire che la cosa è di per sé molto affascinante.
Le radici dell'orrore sono quindi, come qualsiasi cosa riguardi la natura più intima dello spirito umano, legate a doppio filo con il linguaggio simbolico, e, nei millenni, hanno finito con l'intrecciarsi con quelle della speculazione filosofica, sfociando, attraverso l'immaginazione ed il talento creativo, nell'Arte.
Ecco allora che il Cinema dell'orrore, emanazione diretta della Letteratura gotica, a sua volta figlia, dei racconti trasmessi oralmente, e degli antichi miti, parla sì delle paure irrazionali (e non) dell'Uomo, ma le pone su un piano d'indagine e di ricerca. Possiede quindi una sua profonda dignità, di cui tutti quelli che vi si avvicinano, come spettatori o autori, dovrebbero tenere conto.



1.5.17

Recensione "To steal from a thief" (Cien anos de perdon)

Risultati immagini per cien anos de perdon poster

Un heist movie spagnolo a mio modo di vedere davvero consigliabile
Magari un filo televisivo, magari con qualche attore fuori parte.
Ma ci sono almeno due personaggi che valgono il prezzo del biglietto, una bellissima ambientazione e una storia che, partendo da una rapina, andrà a colpire l'intero apparato politico di un Paese.

Toh, dopo una settimana ci si rivede...
In realtà prima di questo bel thriller spagnolo avevo visto un altro film -casualmente e curiosamente sempre spagnolo- che ritengo veramente bellissimo, Magical Girl.
Il problema è che un film di quel valore e di quella "difficoltà" non può avere una recensione a 6 giorni dalla visione, lo rovinerebbe.
Magari un giorno ci ricapito.
Ho messo volutamente entrambi i titoli del film nel post, e li ho messi sempre volutamente in quest'ordine.
Infatti, per un curioso caso, il titolo originale è praticamente la continuazione di quello internazionale.
"Chi ruba ai ladri avrà 100 anni di perdono"
recita un detto spagnolo.
E, attenzione, perchè il titolo è anche in qualche modo un aiuto per la lettura "morale" che il regista dà alla sua opera.


Siamo a Valencia, un una giornata di tregenda.
Piove in un modo impressionante, la città è in tilt.
In una delle banche più grandi della città irrompono sei rapinatori. Cercano di portare via tutto il possibile. Ma ad un certo punto si viene a sapere che quello che c'è di più importante dentro quella banca non sono i soldi, ma qualcos'altro...
Io l'ho trovato un gran bel heist movie, pieno di qualità e pieno di difetti.
Anche nelle stesse "categorie" possiamo trovare gli uni e gli altri.
Ad esempio se è fantastica ancora una volta la prova di Luis Tosar (che attore...) e se possibile ce n'è uno ancora più bravo di lui, Rodrigo de la Serna, è anche vero che qualche altro personaggio lascia a desiderare, su tutti l'insopportabile milf direttrice della Banca, che non so se è colpa del personaggio o dell'attrice, ma fosse per me le avrei sparato subito.
Certo che è difficile dirigere un cast di quasi 40 persone, visto che nel film, a mò di Quel pomeriggio di un giorno da cani, vengono tenute in ostaggio diverse persone.
Ho amato l'ambientazione, questa banca-cattedrale, questa città sotto la pioggia.
Ho amato il personaggio del rapinatore capo, sboccato, intelligente, cattivo ma poi nemmeno così tanto. Mi sono piaciuti molto quasi tutti i suoi dialoghi.
Ma ho trovato davvero buona anche una sceneggiatura che non cerca mai colpi di scena ma è solida, ben calibrata, con qualche buona trovata (il tunnel costruito da loro che si allaga proprio quel giorno) e, in un certo senso, pure "importante".
Sì perchè questo film, e torniamo al titolo originale, è un durissimo attacco verso i poteri forti, dal capo di stato ai politici, dalla polizia ai banchieri. Tanto che alla fine ci ritroviamo a parteggiare per i rapinatori che saranno sì dei balordi ma dietro la loro presunta cattiveria e propositi di devastante terrore (pensiamo ai giubbotti esplosivi) nascondono invece una buona etica e dei caratteri affatto terribili.
Penso ad esempio a 2,3 scene in cui persone veramente cattive avrebbero tranquillamente ammazzato quella che avevano di fronte, anche fosse della "loro" parte.


Tornando a sopra se è interessante la parte politica del film (e di conseguenza quella morale) è anche vero che ad un certo punto si inizia a faticare un pò a seguire questi inciuci, questi segreti, questi rapporti ambigui e il film perde molto del ritmo che la rapina in sè per sè aveva regalato.
Ho trovato molto strana la scelta di avere quelle mascherine per coprirsi il volto. E addirittura uscire per strada e farsi vedere. Cioè, veramente vogliamo credere che i sei poi non verranno riconosciuti se la scamperanno?
La richiesta di avere un minibus per essere portati all'aeroporto mi ha richiamato, ovviamente, i fatti di Monaco 72 raccontati in modo magistrale in un documentario stupendo che vi consiglio, One day in september.
Ah, dimenticavo il personaggio che, dalla metà in poi, diventerà la variabile impazzita che in almeno 3 casi deciderà il destino del film. Mi riferisco al Loco, un bel ragazzo ma con quoziente intellettivo ai minimi termini, un buono e un pazzo (vedi nick) allo stesso tempo, uno capace di mandare in vacca qualsiasi cosa in qualsiasi modo. Anche lui l'ho amato molto.


Ma quello che mi è probabilmente più piaciuto è questo dipendere del film e delle sue azioni dal tempo meteorologico. E in questo senso considero la top scene quella in cui lui, attraverso le tapparelle, vede splendere il sole.
Che dire, a volte si ha la sensazione di qualcosa di un pizzico televisivo. Ma c'è ritmo, ci sono buoni attori, ci sono buoni spunti narrativi, c'è un bel film di genere.
E, almeno per me, c'è una cosa più importante.
Son tornato a scrivere.
Poco e male, ma l'ho fatto

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