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30.6.17

Recensione. "Whiplash"

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Un coming of age di una originalità e forza pazzesca. 
Invece che gang criminali e pistole abbiamo musica e bacchette da batteria.
Ma lo stesso sangue, lo stesso istinto di sopravvivenza, la stessa necessità di crescita


Film di sangue e sudore.
Non avrei mai detto che a me, completo incompetente musicale, questo Whiplash potesse prender così tanto.
Tutta quella musica, tutti quei tecnicismi, tutte quelle dinamiche ero convinto potessero mettere un muro tra me e lui.
Eppure più il film andava avanti, più restavo quasi intontito dalla musica dentro al film e dal chiasso nel locale in cui lo vedevo, più sentivo che ci entravo dentro, che in mezzo a tutto quei suoni, diegetici e non, c'era una forza gigantesca che mi stava rapendo.
Whiplash è uno dei più originali, spietati e particolari coming of age che abbia mai visto.

Andrew è un giovane batterista che vuol diventare grande.
Ma per diventare un grande batterista deve prima diventare un uomo.
Non solo un uomo, ma un uomo capace di resistere a tutto.
Non c'è differenza tra Whiplash e quei film criminali di giungle urbane, di gang e di sparatorie dove un semplice ragazzino deve in fretta diventar grande, imparare a difendersi, sapersi muovere, acquisire quella cattiveria che gli permetterà di sopravvivere.
La gang rivale è uno spietato maestro di musica, le pistole le bacchette.
Ma il sangue e l'istinto di sopravvivenza sono gli stessi.
Film bellissimo, un conflitto a due che lo fa quasi sembrare un western metropolitano, una riflessione sulla vita, sul talento, sul successo come poche ne abbiamo viste questi anni.
Un film che va avanti quasi a sequenze, a scene staccate, quasi autoconclusive, una più bella dell'altra.
Un film a tesi probabilmente, che usa ogni singola scena come dimostrazione di un concetto per arrivare poi alla conclusione finale.
Probabilmente uno di quei film manifesto, uno di quelli da far vedere per spiegare cose.
E di cose che racconta ce ne sono tantissime.
Inutile dire che il personaggio di Fletcher, interpretato da un favoloso Simmons, sia l'asse portante di tutto.

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Cattivissimo, ambiguo, spietato, inumano ma anche terribilmente amante del proprio mestiere, ma anche virtuoso in quello che cerca, ma anche coerente, ma anche portatore sano di meritocrazia.
Un adulto notevole che, per certi versi, potrebbe rappresentare la fortuna di parecchi ragazzi.
Ma solo dei più forti, solo dei più determinati.
Già, i migliori membri della gang.
Io l'ho amato da morire sto personaggio, anche nei suoi lati più meschini e inumani.
Ho sempre visto una coerenza, un fine, uno scopo.
Quello scopo che, del resto, lui racconta ad Andrew in quel localino nel finale.
Quello scopo che porterà a quella sequenza finale talmente bella, emozionante e vorticosa da restarci secchi.


Sì, per me Fletcher è personaggio positivo. Io, come il 90% delle persone, ne sarei rimasto ucciso. Ma che esistano istruttori così, che esistano.
Tra l'altro la scena delle lacrime ricordando l'allievo ucciso (che scopriremo poi essersi ucciso per ragioni molto diverse a quelle che racconta lui...) valgono un'intera costruzione di un personaggio.
Ma è Andrew, in ogni caso, il personaggio più importante, quello che rappresenta "noi" spettatori.
Assistiamo in tempo reale ad ogni suo cambiamento.
All'euforia, alla disperazione, all'orgoglio, alla rabbia, alla gioia, al dolore, alla determinazione, alla violenza, alla maturità, alla resa, all'affronto, al trionfo.
C'è veramente di tutto in Whiplash, tutto.
Come detto questo non è un film fluido ma jazz anche nella sua struttura.
Una scena più riuscita dell'altra.
Quella dello "stonato" che richiama tanto Full Metal Jacket (ma tutto il film è un lungo Full Metal Jacket).
Quella dei 10 errori consecutivi di Andrew culminati con gli schiaffi.
Quelle delle scene di sangue, piaghe e sudore.
Quella della cena in cui lo sport di terza fascia adombra la grandissima musica.
Quella del racconto della morte dell'allievo.
Quella, magnifica, dello scontro a 3 batteristi.
Quella dell'incidente, dell'ennesima umiliazione e dell'aggressione.
Quella del dialogo al locale, che insegna più cose della vita che 10 film messi insieme.

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E poi gli ultimi 10 minuti che sono un inno alla bellezza scenica, di scrittura ed emozionale.
"So che sei stato tu"
Il pezzo non conosciuto.
L'umiliazione.
La fuga.
Il ritorno.
E poi l'orgoglio, e poi il talento, e poi il coraggio, e poi la sfrontatezza.
Eccolo il cazzo di assolo più grande che poteva venir fuori.
Eccolo qua.
Un assolo che è figlio di un percorso terribile.
Un assolo che è merito di due uomini, uno che fu ragazzo e uno che a vederlo sembra terribile.
Un sorriso compare nella bocca di Fletcher.
Hai trovato il tuo Charlie Parker.
E adesso parte Whiplash.
Schermo nero.
Brividi



29.6.17

Recensione: "El Aura"



Un noir argentino di ottimo livello.
Come un uomo tranquillo, ossessionato dalla rapina perfetta, possa finire in un vortice di criminalità e violenza infinito.
In un' Argentina di grandi spazi, do boschi e fabbriche, l'ennesimo grande film di questi anni sui criminali per caso

Non c'è niente da festeggiare ma oggi il blog compie 8 anni.
Auguri amico mio

Questi ultimi anni mi son capitati sott'occhio parecchi noir/thriller col passo assolutamente lento e strutturato dei drammatici e con protagonisti personaggi che, in realtà, col phisique du role del thriller nulla c'entrano.
Che poi agli amanti dei generi non sai che dirgli, c'hai mille elementi per incasellarli e mill'altri per non farlo.
Limitiamoci, se possibile, a vedere bei film, il genere è giusto uno spunto.
Siamo in Argentina, 2005, e abbiamo il fantastico Ricardo Darin di quel capolavoro che fu Il Segreto dei suoi occhi (successivo).
Fa il tassidermista (scritto bene? non c'ho voglia di googlare), impaglia animali insomma. E' meticoloso come ogni buon tassidermista deve essere. 
In questo prologo possiamo intravedere due cose.
Uno la calma e, appunto, meticolosità del nostro.
Due il rapporto che ha il film con la morte.


Espinoza (lui) c'ha la fissa del colpo perfetto, è convinto che a rubare in una banca, se hai osservato ben bene tutto per mesi, non ci voglia nulla, chi è stato preso o ucciso semplicemente non era preparato.
La moglie l'ha lasciato, soffre di tremendi attacchi epilettici (si sveglia da uno anche nel prologo), attacchi epilettici che lui capisce di stare per avere, due secondi prima. Quel tempo sospeso tra lo star bene e l'attacco il suo medico lo chiama l'aura, un frattempo in cui il mondo di Espinoza si ferma, i sensi si acuiscono e dentro la sua testa entra di tutto, ricordi, odori, immagini.
Espinoza va con un suo collega nella foresta a cacciar cervi.
Da lì ne succederanno di ogni.
Gran bel film questo El Aura, una specie di crime improvvisato che per alcuni versi potrebbe rimandare al bellissimo Blue Ruin o al meno bello La vendetta di un uomo tranquillo.
Espinoza è un uomo che sembra vivere giorno per giorno, dallo sguardo spento, fatalista. Molto determinato sì, ma con quello sguardo e un respirare che lo fanno sembrare in perenne affanno, in perenne momento del cedere.
Quello che succede per sbaglio nella foresta (primo accenno sulla sua difficoltà di uccidere ma anche sulla sua capacità, volendo o no, di farlo) lo porterà in una spirale di sangue e criminale pazzesca. In realtà in questa spirale Espinoza ci sta dentro coscientemente, non è solo vittima degli eventi, anzi, la sua ossessione del colpo perfetto lo porterà a far di tutto per realizzarlo.
Ne nasce un film molto solido, forse un pelo lungo, quasi inattaccabile nell'intreccio però. Anche se fa specie che una persona sedicente gran criminale non spenga il cellulare della persona che ha ucciso.


Grandi interpreti, buona tensione, alcune grandi scene come quella della rapina-massacro in fabbrica sentita tutta attraverso i rumori degli spari.
Davvero ottimi alcuni dialoghi, come quello al casino.
Un film sulla paura di uccidere, sull'essere lupi (come il cane sterminatore di pecore rimanda) o pecore stesse, su come i ruoli molto spesso possano scambiarsi o modificarsi.
Incredibile come Espinoza non abbia mai reazioni, come accetti quasi sempre tutto quello che gli succede (vedi sparo alla testa) ma al tempo stesso sia uno capace di fare quello che fa.
La sequenza in cui prende calci e pugni dall'altro criminale è emblematica, Espinoza non è uno di loro, non è un uomo forte, ma uno che ha una stanca determinazione che, se tutto va bene, potrà portarlo a grandi traguardi (lui che sfiora attraverso la rete il blindato è emblematico).
Noir atipico perchè tutto en plein air, le uniche scene in interni sono soltanto dei semplici raccordi. Ovviamente la foresta la fa da padrona, il fascino del bosco è sempre imbattibile.
Ecco, semmai dispiace un pò che la faccenda dell'aura non abbia l'importanza che uno si aspetti, ma serva solo a caratterizzare il personaggio.
Forse però è proprio il suo essere epilettico, il suo vivere a volte in quel mondo-altro ad avergli dato quel carattere al tempo stesso dimesso, fatalista ma deciso.
Alla fine sarà un massacro.
E tornerà ancora quella tremenda paura di uccidere, tornerà l'immaginazione di riuscirlo a fare (come del resto l'immaginazione gli faceva fare le rapine).
Forse Espinoza, però, ce la farà.
Avremo un finale un pelo troppo affrettato, non del tutto soddisfacente.
Ma l'ultima inquadratura su quegli occhi buoni, quegli occhi buoni in un animale che però è capace di compiere massacri, ecco, è bellissima


28.6.17

Recensione: "Orecchie"


Una deliziosa, quasi perfetta, opera seconda italiana.
Divertentissimo, tragicomico ma anche tanto profondo.
Una piccola perla comica ed esistenziale.
Cercatelo

spoiler dopo ultima immagine

Si comincia con un formato 1 : 1, ristretto, in cui vediamo un giovane ultratrentenne, supplente di Storia e Filosofia (ma supplente, lo vedremo, della vita in genere) apprendere dalla ragazza appena uscita di casa, tramite post-it, che è morto un suo grande amico, Luigi.
Comincia così Orecchie, una tragicommedia italiana in bianco e nero veramente deliziosa, divertentissima a tratti, mai banale, per certi versi pure profonda.
Aronadio, all'opera seconda, gira un film che sembra quasi un fumetto, una scenetta dopo l'altra, un personaggio dopo l'altro, tante piccole sequenze che raccontano la tremenda giornata, assurda, surreale, di un giovane svegliatosi con un tremendo mal d'orecchi.
Si parte con un formato ristretto come detto, formato che piano piano, che quasi non te ne accorgi, ti porterà alla fine a quello classico "a tutto schermo".
Praticamente la scelta che fece Dolan nel meraviglioso Mommy.
Ma se nel film del talento canadese l'allargamento era improvviso e destinato poco dopo a crollare (a manifestare l'improvvisa, rabbiosa e, ahimè, effimera felicità del ragazzo) nel film di Aronadio è lento, costante, quasi invisibile ma duraturo, a raccontare, in questo caso, la lenta ma costante presa di consapevolezza del nostro protagonista.

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Perchè di questo parla Orecchie alla fine, di una presa di coscienza, di sè e del mondo, di un uscire dal guscio, del trovare coraggio, di sapersi muovere nel rumore del mondo.
Aronadio dimostra di divertirsi con la tecnica. Se non bastasse il sopracitato discorso sui formati basterebbe vedere l'incredibile e funambolico gioco di campi e controcampi del dialogo tra il protagonista, le suore e la dirimpettaia.
Raramente ho visto campi e controcampi con altri soggetti in mezzo tra A e B.
Ma quello che sorprende più di tutto nella prima parte è una vena comica quasi irresistibile.
La donna dell'accettazione del pronto soccorso.
Il bancomat.
La strepitosa sequenza col rapper (la paperona vince), scena che mi ha ricordato la celeberrima sequenza di Boogie Nights, loro e il fattone (e anche qui i rumori di fondo sono importantissimi).
Si ride, tanto.
E, se possibile, il climax del divertimento sale ancora con le due sequenze mediche, quella dall'otorino e quella successiva dal, mi pare, gastroenterologo che, per quanto mi riguarda, raggiunge livelli poche volte battuti in questi anni nella commedia italiana.
Se fermassimo il film qua ci troveremmo davanti un gioiello comico senza alcun difetto, alcun tempo morto.

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E analizzando ci verrebbero in mente tematiche come l'inferno burocratico (accettazione, il bancomat che non va, le difficoltà coi medici) oppure il confronto tra un ragazzo senza palle e un mondo invece pieno di sè (il rapper e il primo medico sono esempi egotici incredibili. E la trovata di "lei è il migliore" pazzesca).
Un uomo nel suo percorso kafkiano nei labirinti del mondo o il suo confronto con esseri più forti di lui?
Eppure più il film va avanti più la piega esistenzialista sembra prendere ancora più piede. 
Si ride un pò meno, ci sono scene meno riuscite (su tutte l'amico scopatore) e, per chi come me di film di questo tipo ne ha visti parecchi, c'è la sensazione che si potrebbe veramente andare a parare ovunque, anche in derive di crisi d'identità pirandelliane ("lo vedi quel sorriso? non è felice") o esperienze post mortem (chi è quel Luigi? e se fosse lui stesso?).
La scena al fast food, ottima nell'incipit col commesso, è poi tirata troppo per le lunghe a mio parere.
Ma funzionano anche il personaggio della madre e del fidanzato performer.
A tal proposito notevole la scena del suo spettacolo, divertente ma anche malinconica e caustica.
Il rumore alle orecchie non passa, le disavventure continuano.
Stiamo per capire.
Arrivano gli incontri più profondi, quelli con la Degli Esposti, la Vukotic e Papaleo.
(a tal proposito applausi alla recitazione di tutti, il protagonista Daniele Parisi in primis, una specie di, per tempi, flemma e malinconia, nuovo Mastandrea. Ma mi ha ricordato anche il concorrente di Amadeus nella parodia di Tortora).
Quel fischio alle orecchie potrebbe essere inadeguatezza o semplice "rumore dei pensieri".
Ma ad un certo punto il protagonista capisce.

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Lui ha paura.
E quella paura sa cos'è.
Avere un bambino.
E lui che corre per andare da lei, che la trova a casa, che le dice finalmente che sì, che vuole averlo, ci regalano 3 minuti di straordinaria commozione e verità.
Alla fine, anche se con percorsi completamente diversi, Orecchie sembra un pò quello che fu "Mine", una metafora sul "fare il passo".
E ripensiamo all'otorino che gli parlava di bambini, alla paperona, al gastroenterologo che lo fece credere incinto, all'amico che gli parlava di famiglia, al sorriso di lei che non era vero, a tanti piccoli momenti in cui, in maniera subliminale, avremmo potuto capire.
Avrei voluto che il film finisse qua, sarebbe stato un finale meraviglioso.
E invece, purtroppo, ci sarà lo spiegone in Chiesa, troppo lungo, ripetitivo, forzato.
Ma poco cambia, dentro Orecchie ci siamo tutti noi, specie questa generazione impossibile tra i 30 e i 40.
E se questo sibilo che sentiamo sia paura di fare i passi, difficoltà di stare al mondo o il sentirsi tremendamente diversi poco cambia.
L'importante è andare dal medico giusto.
Noi stessi.


27.6.17

Raduno 2017, date e prime informazioni ufficiali


A due mesi dal raduno faccio questo primo post ufficiale.
Tra un mese ne farò un altro, quello dove inizio a "piazzare" tutti nei vari alloggi e fare un pò di conti.

Il raduno si svolgerà al ciracolo di Vernazzano (Pg) l'1 e 2 settembre.

Gli alloggi, a meno d cambiamenti, saranno quelli dell'anno scorso, o un agriturismo con piscina a circa mezz'ora di distanza o un albergo a Perugia. Come l'anno scorso tenterò di fare prezzi non più alti di 25 euro a persona.
Ovviamente chi vuole può anche venire una settimana, ci mancherebbe.

Quest'anno pensavo di fare due giorni, anche se rimane il sabato il giorno ufficiale.
Se riesco il venerdì mi piacerebbe fare una giornata di film, possibilmente con registi.
Il sabato poi come l'anno scorso, tanto tempo insieme, tantissimo cibo, il quiz e tutto quello che ci verrà in mente.

Pensavo di iniziare a rendere ufficiali le prenotazioni solo tra un mese ma, insomma, già adesso chi è quasi sicuro me lo appunto.

E niente, tra un mese magari metto il menu, i prezzi degli alloggi e tutto il resto.

Per ogni cosa scrivete qua o privatamente.

L'obbiettivo è essere almeno 1 di più dell'anno scorso.



21.6.17

Recensione: "Re della terra selvaggia"



Una favola sul coraggio, sulla dignità, sulla felicità nonostante tutto.
Hushpuppy è una bambina meravigliosa.
E quello che ognuno di noi dovrebbe provare ad essere.

Ci son talmente tante coincidenze, e tanto profonde, riguardo questo film che mi fa un pò fatica scrivere.
La prima, la più innocua, è che arrivi proprio un giorno dopo Little Miss Sunshine.
Ancora una volta una bambina, praticamente coetanea di Olive, ad insegnarci tante cose della vita.
Hushpuppy è coraggiosa, forte, fortissima (ma che spettacolo la scena del granchio e dei muscoli) ha uno sguardo che può essere feroce e dolcissimo insieme. E' una donna, non una bambina.
Viene da un mondo totalmente diverso da quello di Olive, ha altri bisogni, per primo quello della sopravvivenza.
Ma come Olive ha un sogno.
Perchè tutti i bambini ne hanno uno.
La seconda coincidenza è che io questo film l'ho già visto, addirittura al cinema.
Ma ero in un periodo molto simile a questo, non riuscii a scriverne.
Stavolta mi è capitato in tv.
Se questo film è capitato in due momenti così simili un motivo ci deve essere.
E c'è.

Delle altre coincidenze parlerò poi.
Re della terra selvaggia è una favola.
E come tutte le favole insegna qualcosa.
Probabilmente il più grande insegnamento che lascia questo film è quello del coraggio.
Ma c'è tanto altro, c'è la dignità, c'è la speranza, c'è la forza, c'è l'orgoglio, ci sono le radici, c'è la meraviglia dell'essenziale.
Hushpuppy ascolta battere il cuore degli animali.
Hushpuppy crede che ogni piccola cosa sia collegata alle grandi cose, che se ne rompi una piccola è come se rompi l'universo.
Quando dà un pugno a suo padre i ghiacci del Polo Nord si rompono.
Microcosmi e macrocosmi.
Sta in Louisiana, in delle baracche, in un degrado indescrivibile.
La piccola comunità dove vive è continuamente a rischio della vita, con quell'acqua che può sommergerli tutti, così, da un momento all'altro.
Eppure son tutti felici, eppure è sempre festa da loro, eppure la paura, se c'è, viene mascherata, come quelli che ballavano dentro il Titanic.
Con la differenza che quelli erano ignari della tragedia.
Tutto questo in nome di un senso di appartenenza, di un fatalismo, di un prendere la vita in modo atavico.
Il vero mondo è al di là delle diga, al di là del muro.
Ma è un mondo che non piace ad Hushpuppy e alla sua gente.
Ne nasce un film con una base che sarebbe profondamente drammatica ma che, in questa cornice di favola e di speranza, alla fine dà solo cose buone.
E se c'è una favola ci devono essere anche i mostri.
E questi mostri sono gigantesche creature del passato, delle specie di mega cinghiali che con il disgelo torneranno nella terra e mangeranno i bambini.
Hushpuppy a questa storia ci crede, lei crede a tutto, con quell'immaginazione così fervida, con quella comunione con l'universo così forte.
Arriva un uragano, l'acqua si alza, le case vengono distrutte.
Ma la comunità va avanti senza problemi, finchè esiste una zattera e una casa più alta delle altre c'è sempre un motivo per essere felici.
Il padre di Hushpuppy sta male, molto male.
Lei col suo coraggio e la sua forza lo aiuta, non piange mai, se non nell'incredibile scena finale, quella in cui vediamo che ci sono certe lacrime che è impossibile fermare.
Film unico, forse difficile perchè a nessuno somiglia, inconsueto.
Succede poco e nulla, la realtà si mischia con la fantasia, quella dei mostri, quella dell'acqua che bolle al solo passaggio della madre ( a tal proposito la scena in montaggio dell'abbraccio e del padre che la tiene dopo il parto è impressionante).
Un film anche sul racconto, sull'oralità, sulla tradizione.
Un insegnamento su quanto basta poco per essere felici.
Hushpuppy che accende i fornelli con la fiamma ossidrica e il casco è uno spettacolo.
E poi quei fornelli li alza, forse per attirare l'attenzione del padre che poco prima l'ha mandata via.
Ma tanto se la casa viene distrutta poco male, sta gente per campare non ha bisogno di nulla.
Poi ci sarà la rottura della diga, l'evacuazione, il primo contatto di Hushpuppy col mondo reale.
Ma il destino di questa gente è vivere e morire in quel luogo.
I bambini tornano.
Ed avviene la scena più magica del film, meravigliosa.
L'ennesima coincidenza.
Quando un mese fa provai a descrivere quello che mi era successo dissi che le paure devono essere affrontate.
Che a volte ce le immaginiamo come mostri giganteschi, molto più grandi di noi.
Ma finchè non le andiamo a conoscere restano questo, mostri giganteschi.
Dissi che finalmente avevo avuto il coraggio di avvicinarmi loro. E invece di mangiarmi mi avevano leccato le ferite.
Credo non ci sia in tutta la storia del cinema una dinamica e un'immagine che poteva rappresentare meglio questo se non quello che accade in Re della terra selvaggia.

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L'immagine copertina di quello che mi è successo.
E l'insegnamento che non basta farsi idee delle cose, non bisogna avere timori precostituiti, non dobbiamo credere in qualcosa che preferiamo non andare a conoscere.
Tutto va affrontato, ogni nostra paura.
Poi magari si rivelerà tale, giustificata, ma potrebbe anche essere nulla, anzi, la nostra salvezza.
Ma c'è dell'altro, c'è anche l'importanza capitale di guardarsi negli occhi, almeno 4 volte l'inquadratura finisce nell'occhio buono della bestia.
E niente, mi prendo questa immagine come simbolo di questi mesi.
E qui avremmo l'ultima coincidenza, anzi, le ultime due.
Ma niente, preferisco tenerle per me.
Tenerle per noi


20.6.17

Recensione: "Little Miss Sunshine"

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Una perla che racconta di un sogno impossibile.
Delicatissimo, divertente, tenero, ma quasi straziante nell'umanità che mette dentro.
Un film sull'esser veri e sull'importanza dei sentimenti

Olive è una bimba che sogna di diventare Miss America.
Ma Olive ha gli occhiali spessi, è grassottella, sgraziatissima, che quando corre per entrare nel pulmino è talmente pesante ed antiestetica da risultare deliziosa.
Olive caccia un urlo meraviglioso quando scopre che potrà partecipare a Little Miss Sunshine.

Sua madre Sheryl è una grande madre, l'unica donna del gruppo e, come quasi sempre con le donne, l'unica persona capace di tenere insieme tutti i pezzi.
Quella figlia dai sogni impossibili, quel figlio ai limiti dell'autismo, quel suocero sboccato, quel fratello tentato suicida, quel marito insopportabilmente perso nelle sue teorie.

Richard è quel marito, uno che insegna ad esser vincenti in 9 passi, uno che crede che la felicità e il successo possano essere racchiusi in delle formule.
Un padre pessimo che insegna cose pessime, fredde, teoriche, diseducative.
Eppure quello di Richard sembra un guscio, eppure in quel padre, a sensazione, intravediamo a volte un gran padre, uno che adora la figlia e crede in lei.
E Richard diventerà un uomo.
E lo diventerà proprio quando scoprirà di essere un perdente, lui che insegna da anni come non esserlo.

Suo padre, il nonno di Olive, è un vecchio malato di sesso, sboccato, cocainomane, ormai assolutamente incattivito con la vita. Che se la goda cazzo.

Dwayne è il fratello di Olive.
Ha 15 anni, sta passando un'età meravigliosa e terribile. 
Odia tutti, compresa la famiglia, e per questo ha deciso di non parlare più.
Ritroverà la voce quando scoprirà la disperazione.
Come suo padre diventerà uomo con la sconfitta lui tornerà ragazzo con la disperazione.
Perchè, se non lo si fosse capito, sta perla di film della vita dice tutto.

Frank è lo zio di Olive.
Professore omosessuale che per una delusione d'amore e di conseguenza lavorativa ha tentato il suicidio.
Frank è intelligente, profondo, ma depresso.

I 6 se ne vanno con un pulmino giallo sgangherato in California per permettere ad Olive di partecipare ad un importante concorso di bellezza.
Un pulmino cui si rompe la frizione, che ogni volta che ci si ferma deve essere spinto a mano.
Tutti devono spingere e correre per finirvi dentro.
Come se non bastasse, in una delle scene più irresistibilmente comiche del film, anche il clacson si blocca.
Ma in qualche modo in California bisogna arrivare, è il sogno di Olive.

E proprio di un sogno impossibile racconta questo delizioso (ma visto in questo periodo la componente più tragica e straziante mi ha ucciso) film.
Una famiglia impossibile, un viaggio, come quello di Nebraska, verso qualcosa che non ha alcun senso, verso un premio che non esiste.
E come nel film di Payne bisognava rispettare l'ultima volontà di un vecchio qui c'è da esaltare il sogno di una bimba.
In realtà la cosa più grande che racconta Little Miss Sunshine è il bisogno di autenticità.
E sarebbe troppo facile notare questo tema nel concorso di bellezza finale, là, con Olive che si sente completamente inadeguata in mezzo a quelle barbie di carne così finte.
Sarebbe troppo facile scoprire che questo film racconta dell'importanza di esser veri in quell'ambiente così finto.
No, c'eravamo arrivati già prima.
Perchè ogni personaggio di quella pazza famiglia, ognuno dei 6, ha una caratteristica, il mostrarsi per quello che è, pregi e difetti.
Non ci son maschere in nessuno.
In quel pulmino c'è autenticità, amore e dolcezza.
Anche tanto fallimento, anche tanto dolore, ma senza maschere.
Ed è il pulmino che ho deciso di guidare anche io, completamente sgangherato sì, ma che se ci metti piede dentro, chiunque lo farà, è perchè hai deciso di esser vero e credere nei sentimenti, quelli che legano in modo incredibile quella famiglia, quelli che sfociano in una scena che è storia del cinema recente, il ballo sul palco di tutti.
Un film dalla dolcezza straziante, dall'umanità pazzesca, una specie di Wes Anderson meno colorato ma con la vita, quella vera, dentro.

Olive che dedica la sua partecipazione al nonno.
"E dov'è ora tuo nonno?"
"Nel bagagliaio"

"Che cosa sta facendo sua figlia?"
"Quello che cazzo gli pare"

Ma che bellezza tutto, che bello ridere e piangere di tanta sensibilità.
Del resto i due registi, una coppia, riusciranno a bissare tanta sensibilità nel bellissimo Ruby Sparks.

Ma sono due i momenti che mi hanno veramente aperto in due.
Il primo è la corsa di Frank appena arrivati all'hotel.
Il secondo è Olive che con i suoi stivaletti rossi scende la scarpata.
Non dice niente al fratello, gli mette una mano sulla spalla e gli appoggia la testa alla sua.

"O.k, andiamo" le dirà lui

Suo nonno glielo disse.

"Sei la bambina più bella che esiste al mondo"

Porca puttana Olive, porca puttana se non è così.
E ora non sgonfiare la pancia davanti a quello specchio.

Ci hai insegnato ad esser veri, non sgonfiarla.


19.6.17

Recensione "The Necessary death of Charlie Countryman" - Cinema e Musica - 3 - Di Alex Cavani

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Torna il nostro giovane musicista Alex Cavani con la sua rubrica di recensioni di film presi, principalmente, sull'aspetto della colonna sonora (ma non solo, anzi...).
Altro film misconosciuto (ma con LeBeouf, Rachel Wood, Grint e Mikkelsen...), altra opera da scoprire


Immaginate una cena galante: gli invitati sono John Waters, Danny Boyle e Quentin Tarantino, il cameriere è Seth Rogen e gli chef in cucina si chiamano Gaspar Noé e Nicolas W. Refn.
Il risultato di questa cena secondo me potrebbe essere il film in questione.
Non ho mai provato quella sensazione di "Cosa ho appena visto", frase spesso abusata sul web,  anche di fronte a opere estreme o weird, forse perchè sapevo sempre, nel bene o nel male, cosa stavo per vedere; questo film invece l'ho intercettato in televisione qualche notte fa per caso e senza alcun interesse, ma mi ha catturato all'istante, lasciandomi alla fine per mezz'ora seduto sul divano a chiedermi il senso delle quasi due ore appena trascorse.
Tutti, critica e pubblico, hanno parlato male di questo film, mentre io ne sono rimasto ingenuamente affascinato e divertito.
Ecco, forse è proprio questa ingenuità di fondo, che guida tutto lo svolgimento del film, ad aver fatto storcere il naso ai cinefili e ai critici, mentre secondo me può essere la chiave di lettura per godersi la visione con un bel sorriso stampato sul viso.

15.6.17

Si prenderanno anche il silenzio

In questi 40 giorni (per ora) così difficili (ma io non sono vittima, se non di me stesso) c'è un pezzo che avrò ascoltato almeno 100 volte, per star bassi.
E' di un cantautore siciliano che ho avuto anche la fortuna di sentire dal vivo qui a Perugia un anno fa.
Son quei pezzi che a qualcuno piacciono, ad altri no e ad altri, come me, non si tolgono di dosso

E niente, siccome questo blog sono io e per me tutto quello che c'è qua questi 9 anni rappresenta la mia vita ecco, volevo metterlo, per ricordarmi

(non voglio commenti riferiti a me, già ne avete fatti troppi, al massimo su Colapesce)

questo il testo

Restiamo in casa l'amore è anche fatto di niente
Prendo il telefono e infine compro i coltelli
Come rubini incastrati quassù al terzo piano
Ma quanta luce i tuoi occhi
Sento tremare i ginocchi

Esco in balcone e m'intasco un respiro profondo
Ancora spento intravedo le strade
Fischio di treno si coordina la caffettiera
La marmellata mi sembra
L'arma migliore di guerra
Arriveranno presto
Arriveranno presto
Si prenderanno anche il silenzio...

Ci nascondiamo dai fari quassù al terzo piano
Un astronauta, cammino per casa
Invado il divano l'amore è anche fatto di niente
Ma quanta luce i tuoi occhi
Sento bruciare dei fogli

Arriveranno presto
Arriveranno presto
Si prenderanno anche il silenzio

14.6.17

Recensione: "La Santa"



L'opera seconda di Alemà, regista di At the end of the day, è un altro gioiello.
Quattro ladri decidono di rubare la statua della santa patrona di un paesino pugliese.
In mezzo al folklore e al racconto di una religiosità ottundente ne verrà fuori un film spietato, con più di un problema di script, ma bellissimo.

presenti spoiler nella seconda parte

Vidi addirittura al cinema At the end of the day.
Ne rimasi folgorato.
Esteticamente bellissimo, teso, a tratti lirico, girato da Dio.
Certo, un pochino zoppicante nello script ma questi grancazzi, il nome di Alemà mi rimase stampato.
Finalmente, dopo anni, mi ritrovo quasi per caso a vedere la sua opera seconda.
Ed ho la conferma di trovarmi davanti ad un grande regista.
Ripeto, un grande regista.
La Santa è un piccolo gioiello che se non fosse per alcune facilonerie nello script (ancora) sarebbe pressochè perfetto.
Un noir paesano con così tanti colori dentro da restarne sbalorditi.
Quattro poveri cristi decidono di rubare la statua della Santa Patrona di un piccolo paese pugliese.
Un colpo facile apparentemente. E, anche dovesse fallire, dalle quasi innocue conseguenze.
E invece Alemà gira un thriller dalla cattiveria quasi inumana, impressionante.
Porta tutto alle estreme conseguenze, in un modo improbabile forse, ma con talmente tanta verosimiglianza, coerenza e "testa" da non renderlo quasi un difetto.
Perchè alla fine La Santa è quasi un film a tesi, che vuole dimostrare qualcosa, e non importa se ci arriva in modo un pò raffazzonato e forzato.


Siamo in uno di quei paesini che Silvestri raccontò magnificamente ne L'Autostrada.
Un incrocio, una casa, una chiesa, una croce.
Come dice uno dei banditi un posto di "gente piccola con desideri piccoli".
Sì, ma questa poca gente è capace di unirsi insieme e diventare un mostro a tre teste, un'unica entità pronta a difendere tutto quello che ha.
O a vendicarsi.
C'è qualcosa di Calvaire in questo piccolo bellissimo film, più di qualcosa di Padroni di casa, tantissimo dello splendido La Zona.
Ma le riflessioni di Alemà sulla piccola comunità non si fermano qua. Perchè è forse ancora più forte il pensiero sulla religiosità ottundente, quella che fa vedere il semplice furto di una statua come un motivo per uccidere ("non uccidere" sarebbe un comandamento, ricordiamolo), quella per cui l'ubriacatura religiosa, il conoscere soltanto quella realtà, può portare delle ragazze a privarsi persino di conoscere il proprio corpo, le proprie pulsioni.
Ma che bella la scena in chiesa, che bella.
In questa cornice di devastante ristrettezza mentale i 4 ladri si ritrovano ad esser braccati.
Del resto anche At the end of the day parlava di una caccia.
Non si può uscire da quel paese, come il giovane ragazzo non poteva uscire dalla Zona.
Non resta che dividersi e sperare in non so cosa.
Comincia così un film a 4 personaggi distaccati, ognuno con la propria fuga, le proprie vicende.
E Alemà ne approfitta per colorare il suo film (girato benissimo, recitato perfettamente e con un uso degli spazi e dei luoghi mirabile) di mille cose diverse.
Ogni scena una sfumatura diversa, adesso una fuga, adesso la tensione del nascondersi, adesso spruzzate di vita pugliese al limite del divertente, come tutte le scene nella casa della carnosissima ragazza (con quella radio che inneggia al trovare i colpevoli del furto) o quella del panettiere.
Alemà unisce il folklore, il crime, l'analisi sociale e, incredibilmente, riesce persino, in solo un'ora e venti, a date una tridimensionalità ai suoi personaggi quasi miracolosa.
Tutti e 4 i banditi diventano personaggi a tutto tondo, complessi, empatici, fatti e finiti.
Specialmente il fratello piccolo risulta quasi tragico, lui con la sua scarsa intelligenza, la sua bontà, la sua paura, anche sessuale.
Quel palpare quegli immensi seni alla donna svenuta non è scena comica, tutt'altro.
Sarò esagerato, ma c'è tenerezza, c'è profondità nei personaggi di Alemà.
Intendiamoci, a livello di plot c'è da storcere il naso più volte. La storia delle due donne che si mischia alla loro non sarebbe nemmeno quotata dai bookmakers, quello che i paesani fanno per vendicarsi è qualcosa che non potrebbe mai accadere, alcune fughe son gestite male (come quella, bellissima, tra gli olivi, prima venti persone dietro poi più nessuno).
Ma questo è uno di quei film che non vuole avere meccanismi perfetti perchè racconta di cose al di là del plot.


La cattiveria, l'ottusità, il destino, il dolore.
Le morti non sono morti normali, non sono legittime difese o confusionarie conseguenze di azioni.
No, sono tutte esecuzioni a freddo, programmate, pensate, volute.
Qualcuno storcerà il naso per tutto questo, e a ragione probabilmente, ma io non riesco a non vedere questo film come un tremendo eccesso voluto per raccontare d'altro.
Il pianto di una ragazza, l'urlo di un prete sono gli unici due momenti in cui sembra che venga fuori un pò di umanità, anzi, nemmeno umanità, soltanto razionalità, in un giorno di follia condivisa e animale.
Era solo una piccola rapina in una festa patronale.
Era solo questo.
E' diventato un massacro senza un perchè.
La Santa è un film spietato e quella statua di cartapesta nel bus che finalmente ti porterà via lo rende ancora più radicale.
Non c'è alcuna ricompensa a tutto questo dolore, nessuna.
C'è solo la nuda, fredda, inconcepibile cattiveria umana



13.6.17

Recensione: "Sils Maria"


Una profonda riflessione sull'accettazione di sè stessi.
Tra vita reale e teatro un film che racconta di quanto sia difficile a volte mettersi nei panni dell'altra.
Sapendo che in realtà sono i tuoi stessi panni

Quelle nuvole paiono un serpente, Maloja Snake, che striscia e svicola tra le montagne.
Nuvole che sembrano seguire un percorso quando in realtà loro, le nuvole, di percorsi non dovrebbero averne, così inermi, sempre, alla mercè del vento e dei suoi capricci, ora ferme, immobili, e ora in movimento, ora informi e ora che ci paion qualcosa, a tutti una cosa diversa di solito, perchè la vita è così, tutti segni da interpretare, tutte piccole cose che a me sembrano un cavallo alato che mi porterà via, ad un altro un drago di fuoco che ci distrugge, sì, la vita è un insieme di segni che a seconda dell'angolazione in cui li guardi cambiano di forma, a seconda di come tu stai cambiano di forma, a seconda di quello che vuoi cambiano di forma.
Forse il senso dell'esistenza non è altro che un cumulo di nuvole che cerchiamo di definire o che aspettiamo se ne vada via, col vento, e non in maniera netta e precisa come il Maloja Snake, ma con la casualità e il caos di tante particelle che si distruggono, con l'entropia.
Si dice che in quelle valli -grazie Rocco - Nietzsche abbia avuto alcune delle sue più importanti folgorazioni, come quella, ad esempio, dell'eterno ritorno, del continuo ripetersi delle cose, in cicli di perfetta identità.
E non è assurdo pensare che Assayas in qualche modo abbia tenuto presente questa lezione nicciana in Sils Maria.
Perchè è proprio di una ripetizione che racconta il film.


Maria Enders a 18 anni interpretò a teatro il ruolo di Sigfrid, una giovane ragazza che seduce, fino a farla morire, il suo capo, la 40enne donna in carriera Helena.
Venti anni dopo (qui una delle cose più incomprensibili del film, la Binoche passata come 40enne, strano...) alla stessa Enders viene chiesto di rifare la stessa piece, ma stavolta, ovviamente, nel ruolo di Helena.
Ne nasce un film non perfetto, un pò ridondante, prolisso, verboso, didascalico ma interessantissimo.
Innanzitutto c'è una profonda analisi di quello che vuol dire calarsi in un personaggio. Di come sia difficile talvolta interpretare un ruolo che non si sente proprio.
Ma si va anche oltre, si dà estrema importanza al testo teatrale, alle sue implicazioni, alle sue mimesi con la vita reale e alle sue falsificazioni.
E questa commistione tra vita reale e vita che si deve rappresentare diventerà il fil rouge dell'intero film.
Non a caso molte scene ritraggono la Binoche mentre prova le scene della piece con la sua assistente (una sempre grande Kristen Stewart).
Un pò quello che avevamo visto con Cesare deve morire per capirsi.
Nella straordinaria cornice delle Alpi Svizzere, contesto perfetto per pensare e riflettere, Assayas dirige un film profondamente esistenzialista che usa il mezzo del teatro e della rappresentazione per parlare di un concetto delicatissimo, quello dell'accettare chi si è.
O quello che si è diventati.
Interpretare adesso Helena e non Sigfrid mette in profonda crisi Maria perchè deve costringerla ad accettare che, benchè possa sentircisi, non è più la ragazzina dirompente di una volta, non è più giovane.
Ma Maria non riesce proprio a mettersi "nei panni dell'altra", non riesce proprio a farsi piacere Helena.
C'è una scena in cui fa un bagno con la Stewart. La giovane assistente rimane in costume, lei si spoglia completamente. Sono piccoli gesti che si fanno per restare quelli che si era, per credersi diversi, per restare ancorati al passato.
Poi Maria vede chi interpreterà Sigfrid.
Sarà una giovane diva hollywoodiana pazza e dedita agli scandali, tipo la Lohan.


Ne nascerà un rapporto di attrazione e repulsione ma, in ogni caso, un rapporto che farà arrivare la Binoche ad una profonda accettazione.
Nel frattempo la sua assistente la lascerà, per il discorso che facevamo sulle nuvole, per quel dare loro forme diverse che, magari, non vengono accettate dall'altro.
In questo gran bel film che è quasi un trattato sul conoscere profondamente sè stessi, sull'amarsi rinunciando anche magari a qualcosa che in maniera ostinata continuavamo a sentire nostra (la giovinezza), ci sarà una scena magnifica nel finale.
La Binoche che con gli occhi lucidi chiede alla Moretz di non abbandonare Helena così in fretta, di non lasciarla nell'ufficio senza averle degnato almeno uno sguardo.
Le chiede di darle qualche secondo in più.
La ragazzina dice che no, dice che Helena a quel punto è andata, non interessa più a nessuno.
Ma la Binoche continua a pregarla.
Una meravigliosa sequenza per raccontarci che Maria è finalmente diventata ciò che è.
Maria è Helena, e tutte le sofferenze che prima provava per Sigfrid adesso sono rivolte a lei.
Non resta che andare sul palco, adesso siamo veramente pronti.
Si apre il sipario.
E si ha la sensazione che no, che quella là nell'ufficio non sia Helena, ma Maria.
Che questo non sia teatro ma vita vera