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20.4.18

Recensione: "Wiener-Dog"




Il solito Solondz, autore geniale, complesso, divertente ma anche tremendamente secco nel descrivere l'uomo.
Di sicuro non al livello del suo capolavoro Happiness, Wiener-Dog (bassotto) è comunque un gran film, capace di far riflettere molto. Divertente, cinico, abbastanza doloroso ma anche carico di tanta umanità.


"Avevo pochi anni, e vent'anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più" scrive De Gregori in quel magnifico pezzo che fu Buffalo Bill.
E io avevo pochi anni, giusto 20 o poco più, quando mi incrociai per la prima volta con Solondz. E lo feci con un film che probabilmente vidi distrattamente in tv, una specie di college movie e coming of age che il titolo italiano banalizzava in "Fuga dalla scuola media". In realtà ricordo niente, se non la figura di questa ancora nemmeno adolescente protagonista, impacciata, bullizzata (ma all'epoca il termine manco esisteva), bruttina e mal vestita.
Poi c'è stato il mio vero e proprio incontro con Solondz.
Ed è accaduto col magnifico Happiness, film crepuscolare, ironico ma devastante, di quelli che mentre stai lì a godere delle brillantezza del tutto al tempo stesso ti senti stringere lo stomaco.
Ritrovo adesso Solondz con un altro film corale (anche se la mia concezione di film corali è un pelo diversa) diviso in 4 episodi nettamente distinti -finisce uno comincia l'altro- ma che hanno tanti punti in comune. 

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Solo il secondo, di episodi dico, son sicuro sia diretto sequel di "Fuga dalla scuola media", per gli altri non ho ricordi per collegarli a quel film.
Solondz assomiglia molto a quello di Happiness, è sempre cinico, è sempre chirurgico nell'analisi umana, è sempre molto scomodo, sia in come racconta alcuni personaggi che lo stato in cui vive, gli Usa, Usa che, del resto - almeno a livello ufficiale - l'hanno sempre osteggiato.
Eppure in questo film ci sono anche tante cose belle, tanti personaggi umanamente virtuosi ma tutti, lo vedremo, costretti a soccombere con la razza dominante, o comunque destinati alla solitudine.
Che questo film abbia ambizioni abbastanza esistenziali lo si vede anche dal fatto per cui in ogni episodio il personaggio principale rappresenti una diversa fase della nostra esistenza.
Il bambino nel primo, i ragazzi nel secondo, l'uomo maturo nel terzo, la vecchiaia nell'ultimo.

Sono almeno 3 i punti in comune che ho notato tra gli episodi.
Il primo, quello che dà titolo al film, è la presenza in ognuno di essi di un wiener-dog, un bassotto, cane dolcissimo che io ho sempre adorato.
In realtà se nel primo episodio il cagnolino è assoluto protagonista (diretto e indiretto) negli altre tre episodi ha ruolo molto più marginale, almeno a livello di plot.
In ogni caso il bassotto può essere preso assolutamente a metafora dell'intero film. Un essere vivente dolcissimo, docile, "usato" dagli esseri umani a loro piacimento.
Amato, odiato, in ogni caso non padrone del proprio destino.
E questo cagnolino in qualche modo può simboleggiare anche tutti i nostri protagonisti, esseri buoni e/o soli costretti all'infelicità o, comunque, al doversi confrontare con un mondo dominante di esseri umani cattivi, approfittatori o falsi.
Nel secondo episodio i due ragazzi down sono addirittura sterilizzati, come il cagnolino nel primo.

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Ed è molto interessante la tipologia dei nostri protagonisti.
Un bambino (presentatoci con una prima inquadratura identica a Boyhood).
Due ragazzi down, un tempo avremmo detto handicappati.
Un uomo solo.
Una vecchia prossima alla morte.
Solondz, in modo perfetto, accomuna tutte le stagioni della vita (infanzia e vecchiaia) o le condizioni di vita (handicap e solitudine) che, in qualche modo, ci costringono ad esser vittime sacrificali, persone deboli alla mercè degli altri.
E allora nel primo episodio quel bambino che adora in quella maniera così assoluta e incondizionata il cagnolino avrà a che fare con una famiglia terribile, incapace di amare sia uomini che animali.
E nel secondo episodio saranno addirittura due le tipologie di losers, la magnifica coppia down e lei, Dawn (interpretata dalla Gerwig, giovane assistente veterinaria che scappa con un cagnolino malato), l'ex bambina di Fuga dalla scuola media, adesso diventata ragazza sì, ma sempre nascosta nel suo imbarazzo, invisibile, impacciata e sincera. Ed entrambi, sia i ragazzi down che lei, avranno a che fare con Brandon, l'ex bulletto del film precedente, adesso diventato tossicomane.
Nel terzo episodio invece la debolezza del nostro protagonista è da vedere in una cosmica solitudine peggiorata dal sentirsi deriso da tutti o non considerato. Un uomo che si sente fallito in tutto, nella vita, nel lavoro, nei rapporti umani. Almeno lui avrà la forza di reagire, anche se in un modo devastante.
Nell'ultimo episodio abbiamo la debolezza per eccellenza, la vecchia prossima alla morte. E qui il mondo dominante e cinico è rappresentato invece dalla nipote drogata che, infarcendola di (finto) affetto e paroline dolci è venuta solo a stillargli gli ennesimi soldi.
Il terzo punto in comune è quello dell'ipocrisia.
A far da contraltare ai nostri buoni protagonisti c'è un mondo ipocrita quando non smaccatamente bugiardo.
I genitori del bimbo che lo riempiono di bugie riguardo il loro cagnolino e il ruolo del cane in generale ("il cane esiste solo in funzione nostra, senza di noi non sono nessuno" dice la madre, "i cani vanno addomesticati, devono essere sottomessi a noi" dice il padre, in un discorso che ricorda molto uno sentito su Dogtooth, discorso che nel capolavoro greco, del resto, era metafora dell'intero film).
Nel secondo episodio l'ipocrisia e le bugie sono quelle di Brandon. Su tutte - in una scena da pelle d'oca, forse la più bella del film - quelle in cui al fratello down che piangendo gli chiede se ha smesso di drogarsi lui risponde continuamente di sì. Ma del resto anche il loro padre aveva giurato loro di aver smesso di bere, quando invece morirà per questo.
Nell'episodio di DeVito l'ipocrisia sta ovunque, sopratutto in quei suo amici agenti che fanno continuamente finta di interessarsi alla sua sceneggiatura quando, invece, non può fregargli di meno. Ma quello che sarà intorno a DeVito è un mondo totalmente ipocrita, in ogni suo componente, dai colleghi agli studenti.
E nell'ultimo episodio ancora ipocrisia, quella della nipote che per 10 minuti fa finta di esser venuta per affetto quando, in realtà, a lei interessano solo i soldi. Perfetto in tal senso il suo compagno, un nero tamarro ed egocentrico vero e proprio esempio di anaffettività.

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E volendo non manca anche un altro fil rouge, quello politico.
In una delle parti più divertenti del film (ma anche più abominevoli)  la mamma racconta al figlio di un brutto cane. E il cane si chiama Mohamed, è sporco, è cattivo e mette in pericolo le cagnoline linde e pulite. Non solo, violenta anche gli scoiattoli. Ovvio il riferimento etnico. Non è un caso che poi quel cane, nel racconto, venga giustiziato.
Nel secondo episodio ci sono invece i messicani autodefinitisi soli e tristi, costretti a vivere in un paese che non amano e che non li ama.
Nel terzo ci sarà un finale che, in maniera geniale ma anche tristissima, richiamerà il terrorismo.
E nel quarto, forse, la metafora politica è tutta nel personaggio del fidanzato di lei. 
Eppure in mezzo a tanto schifo c'è anche il tempo di qualche risata, anche se spesso molto amara (la panoramica sulla diarrea, l'uovo di struzzo, qualche dialogo, il cane chiamato "cancro", l'artificiere e il cane bomba) e di tanti momenti in cui l'umanità, le cose belle, sembrano venir fuori.
I momenti di gioia tra il bimbo e il bassotto, quella mano che cinge l'altra tra Dawn e Brandon, il personaggio di DeVito e quello della vecchia che porta ad una scena onirica kitsch e magnifica, con tutte quelle bimbe di rossi capelli, ognuna delle quali a simboleggiare un senso di colpa o una rinuncia in questa vita ormai arrivata al termine (e riprendono i "what if" dell'episodio con DeVito).
E che meraviglia quell'assegno senza cifra, quel "io non sono brava coi numeri", da pelle d'oca.
Tra l'altro il personaggio della nipote è più complesso di quello che possiamo pensare, perchè intravediamo in lei del vero affetto, della vera sofferenza. Ma ormai è dentro un imbuto dal quale non uscirà più.
Ma, sembra che l'abbiamo dimenticato, c'è anche lui, il cagnolino.
Che sarà cornice, titoli iniziali (bellissimi anche se con un'immagine di lui in gabbia abbastanza fastidiosa), pubblicità di mezzo (divertentissima) e finale.
E il finale non può essere se non un corpicino investito e maciullato nella strada.
Perchè se è vero che Solondz ci aveva regalato degli squarci di poesia e di speranza è anche vero che poi, alla fine, i puri e gli innocenti quella fine fanno.
E la morte non è nemmeno la fine, c'è ancora qualcuno che quei corpi morti li usa per gonfiare il proprio ego.
E quel cagnolino robot che abbaia è solo l'ultima, struggente e straniante, inquadratura di un film molto bello, non indimenticabile, ma capace di farti riflettere su mille e mille cose.

7.5

6 commenti:

  1. un film che merita, sono d'accordo :)

    https://markx7.blogspot.it/2017/06/wiener-dog-todd-solondz.html

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  2. Buonsalve!
    Non lasciarti scappare -Lucky- di Carroll Lynch.
    ;)

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    Risposte
    1. Primo film di regia di un grande caratterista (ultima volta visto su The Invitation, grandioso)

      e anche ultimo film interpretato da un altro grande caratterista, Dean Stanton

      me lo ero appuntato dopo che ne aveva parlato benissimo Locatelli

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  3. Film molto particolare! Bellissima recensione.

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