Ultimo appuntamento con le recensioni dal Torino Film Festival.
Io ne recensisco solo uno (sempre che il delirio che ho scritto se pò definì recensioni) brutto ma talmente brutto che maremma maiala, maremma maiala, via, famme sta zitto, e lascio più spazio a Riccardo che, invece, ci parla di due film importantissimi, uno forse il più bello del Festival, Dylda, l'altro il vincitore, A White, White day
SOFA'
"Beato chi non sooofà il sofà", mi verrebbe da dire scimmiottando la Ferillona nazionale.
Sì, perchè sto film è brutto, ma tanto brutto.
Ma non è un film brutto eh, ma un brutto film.
Io i film brutti li amo, i brutti film no.
Anzi, dirò de più, c'è la sensazione che il regista pensa de avè fatto una cosa davvero grande, intelligente, impegnata, artistica, importante.
Una ex insegnante vaga su una spiaggia, poi non se sa come sale su una barchetta co un pescatore fico, poi non se sa come invece che un pesce pesca il su sofà, il sofà della su ex casa proprio eh, che l'hanno sfrattata perchè lì ce dovevano costruì il viadotto credo pe le Olimpiadi de Rio ma non so sicuro, e poi insomma gira per la città co sto sofà, aiutata da quello fico, poi trova la su vecchia casa distrutta poi torna non se sa perchè sulla spiaggia, sempre col sofà eh, poi prova a contattà 'l sindaco pe fasse ridà casa sua, e sembra che ce riesce e invece no, porella, non solo il sindaco col cazzo che glie ridà la casa o il terreno ma la prende pure pel culo facendocela crede, ahahah, poi infatti glie dice "Ma davero credevi che aiutavo i poveri e gli emarginati?", così eh, letterale, e secondo me il regista qui se faceva le pippe pensando alla su lotta pei diritti, ma le pippe se n'è fatte tante anche prima co sto cazzo de film che ogni santa inquadratura, ogni santa inquadratura c'è una fotografia diversa, 22 luci diverse, anche sul singolo dialogo due luci diverse, e poi cambia la grana, e poi il bianco e nero, e poi addirittura immagine ribaltata, e poi sparano e questi se mettono dietro il sofà, e poi ritagli de giornale con scritto "nessuno aiuta i poveri", e poi personaggi talmente trash e improvvisati che se ve cade lo smart a terra e riprende a caso con la fotocamera ve viene fori na sceneggiatura meglio de questa, e poi quello fico, il pescatore, che vole pipà sta donna (ma de cheeeee????) e invece lei invece de trombà glie scrive l'alfabeto sui bracci, e poi - e qui solo perchè so bono non so uscito dalla sala - il film che diventa metacinematografico con questa che va verso il sindaco 5 volte, 5 ciak diversi, e poi una rottura de coglioni talmente alta che in confronto guardà il bollitore è un luna park e poi finalmente finalmente finalmente questa MOREEEEEEEEEEEE, e dovrebbe esse na morte tragicissima, da piangece ore ed ore ed invece io godevo che era morta, che il film stava a finì che maremma puttana non se pò non se pò non se pò fa un film del genere, per fortuna è finito ed ho finito anche de scrivece, ciao
4
DYLDA/BEANPOLE
(di Kantemir Balagov)
Concorso Torino37
Il film più grande di questa edizione del TFF e probabilmente tra i più importanti di tutta questa annata cinematografica. Beanpole è la riconferma del talento di Kantemir Balagov, allievo di Sokurov (ma ormai totalmente autonomo e maturo rispetto al suo maestro), che aveva già stupito e fatto innamorare con la sua meravigliosa opera prima “Tesnota”. In quel primo film la Storia rimaneva sullo sfondo, in un momento di pace e di transizione tra la prima e la seconda guerra cecena, capace di condizionare solo psicologicamente le vite dei personaggi che quivi si muovevano. Beanpole rappresenta, invece, una Storia (quella del 1945 a Leningrado) che, nonostante la guerra sia finita, è ancora viva e protagonista e che continua incessantemente a lasciare tracce fisiche su chi la sta vivendo, non fermandosi semplicemente all’animo (come accadeva in Tesnota), ma sconvolgendo e martoriando la carne e il corpo. Ma non è il fronte quello che viene rappresentato, o almeno non il fronte di guerra. Piuttosto quello di chi di quel conflitto ne percepisce in maniera più violenta le conseguenze. Siamo infatti in un ospedale per reduci di guerra, in un luogo dove sopravvivere spesso non è che una condanna. Paralizzati, amputati, bendati, ingessati. Tutti soffrono per essersi salvati. Tutti sentono forse il presagio della fine di una guerra collettiva, che non è però accompagnata da un’analoga fine di sofferenza personale. Sembra di vivere in parte quell’atmosfera magica e sospesa che permeava il bellissimo Scarred Hearts di Radu Jude. Qui, però, non è un paziente ad essere protagonista, ma un’infermiera, Iya: alta, altissima, bionda e timidissima. Una “giraffa”, come la definiscono, che nasconde, dietro ad un’apparente goffaggine, un estremo dolore. Sì, perché se Iya dovrebbe da un lato occuparsi dei pazienti, in realtà avrebbe tutte le caratteristiche per essere dall’altra parte. Presenta infatti un trauma da stress, che la obbliga in alcuni momenti ad “incantarsi” (come dicono le persone che la circondano), in uno stato di immobilità estrema che le congela temporaneamente il corpo ed il respiro. Per questo potrebbe apparire “strana”, con una fisicità eccessiva, tale da accomunarla quasi alla presenza vampiresca di Tilda Swinton in “Solo gli amanti sopravvivono”. Beanpole è infatti un film fisico, concreto, che si può toccare ed ascoltare: disegnato dagli sguardi fissi su una carne ferita e lacerata, e sonorizzato da una musica fatta di sospiri e lamenti. Stretto in luoghi claustrofobici (come già accadeva in Tesnota), che non lasciano nessun scampo e respiro, proprio come accade alla protagonista quando si “incanta”.
Nonostante le sue caratteristiche, però, Iya è tutt’altro che eccentrica. Timida e silenziosa, nascosta in grandi e spaziosi maglioni colorati, che celano quel suo corpo allungato, ma inviolabile, che ha conosciuto il mondo solo attraverso la sua componente più violenta e disumana. L’unico conforto che trova la giovane infermiera è in un piccolo e dolce bambino di tre anni, affidatole dall’amica Masha, ancora al fronte a combattere. Questi rappresenta l’unico residuo di purezza e umanità, in un contesto raggelante dove tutto può essere solo distrutto e non più costruito.
Ma qualcosa accadrà a quel bambino, e così, al ritorno di Masha dal fronte, non ci sarà più, ad attenderla, un piccolo autentico essere umano, ma solamente la stessa desolazione che aveva lasciato alla partenza. Tra quelle due amiche seguirà, a quel punto, un indomabile flusso di tensioni, che condurrà inevitabilmente ad un gioco di opposti, che più si attraggono, più si danneggiano, rimarcando le conseguenze fisiche della guerra nel riflesso dei due visi e corpi femminili, che richiamano, per questo, nella loro grandezza, il dialogo esistenziale tra Elisabeth e Alma in Persona di Bergman. È una guerra vissuta al femminile, nei loro occhi e nei loro corpi (quella dolorosissima cicatrice di Masha, da cui intendiamo la sua sterilità) .
Quest’opposizione reale ed esistenziale viene resa esplicitamente nel film attraverso l’utilizzo sapiente della palette di colori: un rosso e un verde, che si invertono e si sovrappongono, conciliandosi e perdendosi, ma mantenendosi sempre unici e distinti, come fossimo in un dipinto di Vermeer.
Iya e Masha sono infatti diverse, diversissime, come quel verde e quel rosso, inconciliabili forse fisicamente e caratterialmente. Ma sono entrambe accomunate da un ossessivo bisogno di aggrapparsi a qualcosa di nuovo e vero, che si possa sentire fisicamente (come il bisogno morboso di percepire un figlio dentro il proprio corpo) e che mostri dunque concretamente anche i segni della nascita di una nuova epoca. Qualcosa che cresca, che conferisca ritmo ad un tempo che sembra essersi fermato. Qualcosa che possa condurle in salvo da quella condizione collettiva che obbliga tutti a vivere da sopravvissuti, più che da viventi. In un limbo esistenziale, dove il tempo non è né prima né dopo. Né fine, né inizio.
Speriamo che la prossima volta che mancherà il respiro ad Iya sia per qualcosa di bello, bellissimo, in grado di stupirla e commuoverla, e non per effetto di un trauma legato alla guerra. Anche se forse quel bello può essere solo immaginato, vestito di rosso e verde.
A WHITE, WHITE DAY
(di Hlynur Pálmason)
Concorso Torino37 – Vincitore Miglior Film
Spesso definiamo la nostra identità in base alle relazioni che scandiscono la nostra quotidianità, rispetto al ruolo che ricopriamo ogni giorno nel mondo. Così il protagonista Ingimundur, dopo aver perso la moglie in un incidente stradale, rispondendo alla domanda “Chi sei?”, dice: “Sono un padre, un nonno, un poliziotto” e solo dopo ammette “Sono un vedovo”. E già in quest’incipit, apparentemente irrilevante, si nasconde l’oscuro motore d’azione del protagonista: la continua ed ossessiva ricerca degli altri, per sfuggire ad una condizione di solitudine, in un luogo come l’Islanda dove imperversa l’immensità dell’isolamento e del vuoto. Ma anche il mantenimento di uno stato individuale che non può prescindere dalle relazioni umane. Sì, perché siamo ciò che siamo, anche attraverso qualcosa che è distinto dalla nostra individualità, che dipende invece da tutte quelle persone che ci circondano e con cui si è costruita una realtà condivisa.
Ma a volte alcuni pezzi di quel mondo si frantumano. E una moglie può morire improvvisamente in un incidente stradale. E lasciare un vuoto da colmare. Così Ingimundur passa, in un attimo, dal potersi definire “marito” al doversi attribuire l’epiteto di “vedovo”. In questi momenti, quell’individualità, di cui si diceva prima, è messa a dura prova, diventando tormentata, se non patologica. Perché si distrugge una parte di noi e della nostra essenza.
Pervasa da un’inquietudine che pare essere sempre sul punto di esplodere, quest’opera seconda ambienta, in un’Islanda desolata, un’elaborazione di un lutto dai molteplici esiti simbolici e metaforici. Disseminati in maniera frammentaria in tutta la pellicola, essi risultano però poco coesi, incapaci di condurre ad una visione unitaria che includa tutti quei segni accennati, ma mai approfonditi. Si raggiunge dunque un unico stato di magica suggestione, che affascina certo, ma non convince del tutto.
Così quella casa di famiglia, che ossessivamente Ingimundur vuole costruire e ristrutturare, rappresenta il suo tentativo disperato di riempire quel vuoto fisico lasciato dalla scomparsa della moglie. Costruire qualcosa capace di sostituire quell’assenza con una presenza. Uno spazio fisico che, come dice il protagonista stesso, “deve resistere alle intemperie”. Che dia sicurezza e protezione per un futuro che si vorrebbe scrivere e non solo immaginare. Un luogo che sopravviva al tempo, ai ricordi e al passato.
Ma così allo stesso modo bisogna intendere anche quei continui ed incessanti annunci di una morte e di una violenza ormai imminenti. Da una macchia di sangue che fatica ad andare a via, alla violenta e spregiudicata uccisione di un pesce appena pescato, sbattuto con impeto (ma serenità) su un tavolo, per porre fine alla sua agonia. Tutte queste condizioni legano, in una dimensione contemporaneamente magica ed angosciante, le vite di Ingimundur e della sua nipotina Salka, in una complicità che si fa dolore e sopportazione, a riconferma di quei ruoli relazionali, di cui si diceva all’inizio, che ci definiscono grazie a chi ci circonda.
Ma il passato continua a tormentare il protagonista. E la morte stessa della moglie sembra non dargli tregua. Perché Ingimundur cerca senso e razionalità in qualcosa che appare troppo misterioso per essere compreso. Ingimundur vuole vedere, con i suoi occhi, quello che è stato e che non ha vissuto. Da qui nasce la sua ossessione per quelle fotografie e quei video-ricordo, che vorrebbe colmassero dei ricordi difettivi di una realtà di coppia forse non davvero condivisa. Perché Ingimundur vuole continuare ad essere quel padre, quel nonno, quel poliziotto. Ma smettere di essere vedovo. E per farlo, la realtà non basterà più. Bisognerà abbandonare quella bianca nebbia che impedisce di vedere oltre (dove un sasso che rotola giù dal pendio può essere solo ascoltato e non visto). E passare al nero di una buia galleria. E solo a quel punto, superando quei non-colori, si passerà ad un mondo dove tutto è finalmente visibile. Un mondo disegnato con i colori della passione e dell’amore, colori, però, che in quella vita d’Islanda non sono mai esistiti nella realtà.
Hii Caden
RispondiEliminaSon con le lacrime per la lettura e un po' per il povero sofa',il film ti ha fatto no' strano effetto.
me girano ancora i coglioni guarda...
Eliminae io non me arrabbio mai coi film
Di tutti, ho visto solo A White White Day, anche se conto di recuperare Beanpole visto che è piaciuto a tutti.
RispondiEliminaChe dire, anche io sono rimasta affascinata ma poco convinta relativamente al vincitore del TFF, però la recensione di Riccardo è davvero molto bella e coglie appieno lo spirito del film :)
Grazie mille! Felice che la recensione sia stata apprezzata :)
EliminaIn merito alla vittoria di "A White, White Day" devo ammettere che anch'io sono rimasto in parte perplesso. Sia perché, come dicevo nella recensione, il film non mi ha del tutto convinto, ma soprattutto perché c'erano forse candidati ben più degni di nota... Penso per esempio al "Beanpole" già citato, del festival mio film preferito in assoluto, o a "El Hoyo", che ho perso, ma che so aver riscosso grandissimo successo. Probabilmente è stato premiato anche un film più invisibile (e che quindi sarebbe stato aiutato maggiormente dal primo premio), dato che i due sopracitati avevano già vinto premi rilevanti in altri festival e soprattutto avevano già entrambi una distribuzione.
-Riccardo
Mi hai fatto troppo ridere...
RispondiEliminaera l'unico modo per esorcizzà un film orribile ;)
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