Ventesimo appuntamento con il grande amico Roberto Flauto.
Con il suo solito stile recensisce un film del grandissimo Joachim Trier (Oslo 31 august, Thelma e il recentissimo - dicono stupendo - La persona peggiore del mondo).
Vi lascio alla sua presentazione e poi alla recensione
Con il suo solito stile recensisce un film del grandissimo Joachim Trier (Oslo 31 august, Thelma e il recentissimo - dicono stupendo - La persona peggiore del mondo).
Vi lascio alla sua presentazione e poi alla recensione
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Un dramma familiare, eppure sconosciuto.
Un padre, i suoi due figli, la morte, la vita.
Un film sul dolore, sull’incomunicabilità.
Sulla difficoltà di riconoscersi e riconoscere chi amiamo nel momento della sofferenza, della perdita.
Sulla possibilità di ritrovarsi, forse, malgrado e grazie a ogni traiettoria del possibile, proprio mentre infuria la guerra che abbiamo dentro.
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Tutte le felicità dei familiari si somigliano tra loro,
l’infelicità di ogni familiare è a suo modo sconosciuta.
La mano del suo bambino appena nato gli stringe il dito.
Si sente indifeso. Esiste senza dimensione. L’inesprimibile nei polsi.
Le cuffie gli coprono le orecchie e si immerge nella musica.
Si sente assediato. Cammina senza direzione. L’indomabile nel cuore.
Le parole gli arrivano addosso ma scivolano via.
Si sente altrove. Sorride senza convinzione. L’inestinguibile negli occhi.
Jonah è all’ospedale, la moglie accanto a sé, è appena nato suo figlio.
Conrad è a scuola, in silenzio, chiuso nel suo mondo, guarda fuori dalla finestra.
Gene è il padre di Jonah e Conrad, e come loro ha l’anima in tempesta.
Sono questi i tre terminali entro i quali si tesse la trama di Louder Than Bombs, un buonissimo film, a tratti anche bello, ma per alcuni aspetti il meno suggestivo di Joachim Trier.
Un dramma familiare, dove “familiare” è da intendersi nelle sue due possibili accezioni: un dramma che coinvolge la famiglia, ma anche familiare nel senso di conosciuto, vissuto, provato. È la storia di un universo in frammenti, la narrazione identitaria di un padre e dei suoi due figli, che incede stanca, confusa, ferita, alla deriva.
Il più grande dei due, Jonah, è appena diventato padre, insegna al college, e nasconde dietro un muro di ferma e serafica tranquillità un oceano in burrasca, indomito e affamato.
E poi c’è Conrad, che è un giovane adolescente, va ancora al liceo, vive nel suo mondo, se ne sta in silenzio, parla a stento, ascolta musica, gioca a videogames fino a notte fonda, se ne sta in disparte, e nasconde dentro di sé gli stessi fondali oceanici di rabbia e paura di suo fratello Jonah.
E c’è Gene, il padre, che vive con Conrad nella loro bella casa, che fa l’insegnante nello stesso liceo in cui va il figlio, che ha tutto sotto controllo, che sembra essere padrone della situazione, che porta avanti la famiglia, e che nasconde dietro tutto questo demoni urlanti e senza pietà, i cui versi esplodono più forte delle bombe.
La famiglia è l’istituzione umana più antica. Da sempre, è al centro di ogni forma di racconto. La letteratura e il cinema, in generale l’arte, hanno sempre saputo intercettare e mettere in scena certe dinamiche, certe metamorfosi, sono sempre state capaci di cogliere e rappresentare le trasformazioni, i turbamenti e le contraddizioni del mutamento sociale. E la famiglia è stato uno dei soggetti prediletti del racconto cinematografico. Questo non è uno di quei film che segna il genere, per intrinseci motivi “tecnici” o “artistici”, e non ha nemmeno la capacità di andare a cogliere il profondo e radicale senso di cambiamento che sta attraversando la famiglia contemporanea, ma ci prova senza retorica, e questo è il suo merito. Va bene così. Ci sono difetti e mancanze, qualche eccesso, un vago senso di incompiuto e un sapore di bombe inesplose (per giocare con il titolo) che, seppure non posso ignorare, non mi fanno condannare per niente questo film di Trier, che accetto e comprendo nel suo complesso. Del resto, il racconto del presente sembra essere, per molti aspetti, una peculiarità della fantascienza, probabilmente il genere più incline, maggiormente propenso, a saper cogliere gli intimi tormenti del tempo presente, prefigurandone i fantasmi, suggerendone le derive ontologiche, intercettandone le traiettorie esistenziali. Ma qui siamo nel dramma. Anzi, il dramma c’è già stato. Ora ci sono solo frammenti immersi nel vento impazzito che si chiama vita.
Perché il triangolo è in realtà un quadrato (per parafrasare Virginia Woolf): non ci sono soltanto Conrad, Jonah e Gene. C’è anche Isabelle, la moglie, la madre. O meglio c’era: perché è morta. O meglio c’è: perché i ricordi, le domande, i dubbi, la rabbia, la paura, le ombre, la memoria, il tempo, i temporali, la fine, i giorni, le notti, i sospiri, il primo giorno di scuola, i suoi vestiti, lo spazzolino da denti, il maglione verde, le cornici, le distorsioni temporali, questa mattina, i silenzi dentro i silenzi dentro i silenzi dentro le parole, il buio, la luce, la musica, quella volta, le urla, il senso di vuoto, la vita, la nascita, gli avrei voluto, gli avrei dovuto, la pioggia anche quando non c’è, il dolore, i fantasmi, i fantasmi, i fantasmi.
Tutto questo, tutto il resto, tutto insieme.
Più forte delle bombe.
Louder than bombs.
Sono passati tre anni da quando lei è morta.
Un incidente d’auto. O forse non è stato un incidente. Forse si è suicidata. Non lo sapremo mai. Era una fotografa di guerra, davvero brava. Siria, Afghanistan, Iraq, e altri luoghi ancora: ci passava mesi, lontano dalla famiglia. E quando era lì voleva solo tornare a casa, dai suoi figli e da suo marito. E quando tornava a casa, dopo un mese o due, doveva riabituarsi a tutto: ai nuovi cibi amati dai figli, alle nuove abitudini nel vestire, ai ricordi che non ha contribuito a costruire. Riusciva ad abituarcisi in fretta, ma subito dopo si rendeva conto che potevano andare avanti senza di lei, e tornava a sentirsi nel posto sbagliato, e quindi diventava impellente il bisogno di partire di nuovo. La sensazione di essere sempre nel posto sbagliato ha accompagnato Isabelle per moltissimi anni. E forse pensava a questo, quella notte, alla guida, mentre in quell’istante infinito che precede l’impatto realizzava che stava per morire.
Sono passati tre anni da quella notte. Ora il suo collega, che l’aveva affiancata in tutti i suoi viaggi, sta scrivendo un articolo in concomitanza della preparazione di una mostra con i lavori di Isabelle, per celebrare il suo ricordo.
E Gene è lì, a sentirsi chiedere se possono consultare il materiale che hanno a casa.
Le parole gli arrivano addosso ma scivolano via.
Jonah va a cercare qualcosa da mangiare per la moglie, che è nella camera di ospedale, dopo il parto, e nei corridoi incontra la sua ex. Le lascia credere che la moglie sia malata. Finiranno a letto, qualche giorno dopo. Un comportamento assurdo. Sicuramente. Ma lei, la sua ex, aveva conosciuto sua madre, e con lei si sente libero di ricercare ricordi, nuove prospettive, differenti punti di vista, della donna che lo chiamava ogni giorno quando era al college per sfogarsi con lui, il figlio più grande, intelligente come lei. Allora Jonah condivide anche l’intimità del corpo con la sua ex, insieme a quella della memoria. Perché con la moglie non ne ha mai parlato, della morte di sua madre. Lei è arrivata dopo. Non le ha parlato della depressione della mamma, del suo probabile suicidio, delle ipotesi e dei sensi di colpa, degli interrogativi e delle mancanze. Del vuoto affamato che gli abita il cuore.
La mano del suo bambino appena nato gli stringe il dito.
Conrad. Adolescente introverso, riservato, taciturno, silenzioso, carico di sentimenti esplosivi, costantemente sull’orlo del baratro che è l’assenza. Costantemente sull’urlo del caos che è il cuore di un ragazzino che ha perso la madre, che l’ha vissuta solo a tratti, che ha visto suo fratello andare via per il college, che è rimasto solo con suo padre, che ama e odia, e lo punisce con il suo silenzio. Conrad è innamorato di una sua compagna di classe, a volte la segue, la osserva, mentre vive il silenzio assordante dei frantumi del suo mondo che gli danzano dentro.
Lui non sa che sua madre si è suicidata, ne è all’oscuro. Era troppo piccolo quando è successo, e non gliene parlarono. Ora suo padre vorrebbe dirglielo, anche perché nell’articolo che uscirà ciò verrà menzionato, seppure con garbo e attenzione. Ma come fare? Come si dice a un figlio che sua madre è morta suicida? È per questo che Gene ora è più tormentato del solito. La sua priorità è suo figlio. Gli tiene nascosta la sua relazione con la collega, l’insegnante di Conrad, la quale soffre l’impossibilità di vivere liberamente, alla luce del sole, la sua storia con Gene. E Conrad va, vive i suoi giorni, attimo dopo attimo, tormento dopo tormento, incubo dopo sogno.
Le cuffie gli coprono le orecchie e si immerge nella musica.
L’immagine rappresentata della figura del fotografo di guerra, a mio avviso, funziona, è efficace. Il film ne restituisce uno spaccato interessante della dimensione lavorativa e personale – o per meglio dire: una tra le possibili. Anche se resta sullo sfondo, necessariamente, perché questa è la storia di un dramma familiare, in cui la fotografia diviene metafora di una condizione esistenziale più grande (come in Still Life di Pasolini, ma senza la sua potenza poetica). Le foto hanno un ruolo importante in tutta la storia. Ma hanno un ruolo importante in ogni storia. Per ognuno di noi, umani che non siamo altro. Sono profondamente convinto di due cose.
Le foto sono sempre meravigliose,
perché ci ricordano che la felicità esiste,
e può tornare.
Le foto sono sempre spaventose,
perché ci ricordano che il tempo esiste,
e sta passando.
Tutte le foto hanno il sapore della morte. Per il semplice fatto che contengono vita. Anzi, perché non la contengono: essa straripa, esonda, invade ogni piega del nostro essere.
Cosa c’è di più dolce e terribile di sfogliare un vecchio album di fotografie?
Lì avevo sette anni, ricordo quel vestito, guarda come eravamo giovani.
Ricordi, memorie, istanti, congelati per sempre in scatti capaci di portare uragani infiniti nel mare del nostro cuore. In un certo senso, ogni fotografia è una fotografia di guerra.
Ed è una guerra, quella che infuria, silenziosa e assillante, nei cuori di ognuno di loro (e di ognuno di noi). Jonah scopre che la madre aveva una relazione con il suo collega, cancella quelle foto compromettenti. Gene, però, lo ha sempre sospettato, e quando si ritrova a parlare con il collega della moglie gli chiede, senza mezzi termini, se erano amanti. E lui ammette di sì. E dice che lui avrebbe voluto lasciare la moglie e la sua famiglia per stare con lei, ma Isabelle non ha mai voluto, e ha limitato la relazione soltanto ai soggiorni di lavoro. Questo ci restituisce ancora di più la sensazione di straniamento e il senso totale di spaesamento di questa donna, che ha passato la vita, o buona parte di essa, a sentirsi nel posto sbagliato, a rincorrersi, a cercarsi.
Ma è sempre “strano” fare i conti con i morti. Da una parte è difficile, impossibile direi, perché non possono rispondere, le domande restano sospese; ma dall’altro lato è molto facile, perché verso i morti, noi vivi, mostriamo comprensione e tolleranza che non destiniamo a nessun altro, soprattutto verso chi amiamo…
[Digressione (puoi saltarla): sembra un paradosso, ma spesso è così: verso i nostri cari, verso coloro ai quali destiniamo il nostro amore, le nostre speranze, i nostri desideri, i progetti, i sogni, la fiducia e tutto il resto, proprio per questo, siamo inevitabilmente pretenziosi, chiediamo qualcosa in cambio. È giusto, necessario, non può che essere così. Mi viene in mente, a tal proposito, Gabrielle Wittkop, apprezzabile scrittrice francese, la quale porta alle estreme conseguenze questo concetto nel suo breve romanzo Il necrofilo, in cui il protagonista dice che la necrofilia è l’unica forma di amore realmente puro, perché è l’unica che non chiede di essere corrisposto. Ma io non parlo tanto di amore fisico, di corpi, quanto di sentimenti e pensieri (ammesso che queste categorie – quella materica della corporeità e quella metafisica dei sentimenti – siano differenti e non intimamente interconnesse, come in realtà ritengo). Quindi ai morti riserviamo condiscendenza, disponibilità, generosità, gli perdoniamo tutto, con facilità estrema. Che strani animali, che siamo, noi umani. Abbiamo un rapporto unico con la morte, non ce l’ha nessun’altra specie. L’autocoscienza, il linguaggio, la parola: siamo una composizione di fantasmi. La nostra esistenza si compone di inesistenza, ingrediente vitale e imprescindibile. Amore e Morte: ogni esperienza umana si muove tra queste due fonti sorgive. Le fotografie, a mio modo di vedere, si pongono esattamente a metà strada tra la celebrazione della vita e l’angoscia della fine. Mentre la guerra che siamo prosegue indisturbata]
…ed è forse per questo che tutti loro, Gene e i ragazzi, riescono, in qualche modo, sicuramente tormentato e doloroso, a trovare uno squarcio nella tela del reale. La difficoltà di comprendere la sofferenza altrui e di comunicare il proprio dolore, soprattutto in famiglia, raggiunge le vette più alte. Perché amiamo la nostra famiglia, i nostri partner, i nostri figli, i nostri fratelli, le nostre sorelle, le nostre madri, i nostri padri. Li amiamo, con tutta la nostra forza, per questo chiediamo loro qualcosa di incredibile: comprendere il male che abbiamo dentro, quando non riusciamo nemmeno, o forse non vogliamo, comunicarlo, condividerlo, mostrarlo. Ma pretendiamo di essere compresi. Ma siamo vivi. Come loro. Che a loro volta hanno dentro oceani in tempesta, e noi vogliamo alleggerire il peso che grava sul loro cuore, anche se non ne siamo capaci, anche se loro non riescono, o forse non vogliono, comunicare, condividere, mostrare il mostro che hanno dentro. Allora si finisce per creare cortine di silenzio, si scavano trincee intorno al cuore, si seppellisce il dolore sotto strati di non detto, è la strada più facile. Perché il dolore degli altri ci spaventa, forse più del nostro, inibisce e ci pare incomprensibile, e allora nascondiamo e ci nascondiamo. Però talvolta, o forse spesso, accade che questi sconosciuti che chiamiamo mamma, papà, fratello, sorella, figlio, amore mio, resistano a tutti i nostri tentativi di allontanarli, si aggrappano al vento immobile dei nostri respiri, non vanno via. E allora un gesto, una parola, una pagina di diario, un abbraccio, una passeggiata, una fotografia, un sorriso, una mano, un quaderno, un sospiro, un messaggio, un piatto, un foglio di carta, un fantasma, e ciò che è morto può dormire in pace.
Anche se il dolore non sparisce, si trasforma soltanto. Un mutamento di stato che è il vero fine dell’elaborazione del lutto. Accogliere l’inatteso e il destabilizzante, farli propri, adattarsi alla nuova condizione. Lo faranno Conrad, Jonah e Gene. E lo faccio anche io. Amore e Morte. E fotografie gravide di tempo e temporali carichi di istanti e istantanee. Perché non è impossibile svegliarsi ed essere felici. E imparare a riconoscere, nel fumo della battaglia, le emozioni delle persone che amiamo. Malgrado le bombe che ci esplodono dentro.
recensione azzeccata, Roberto.
RispondiEliminama è forse il film più "debole" di quelli che Joachim Trier ha girato, da uno che fa spesso capolavori un film solo bello è una delusione.
se uno non ha visto altri film di Joachim Trier, e inizia con questo sappia che dopo è un'ascesa verso alte vette :)
https://markx7.blogspot.com/2018/10/louder-than-bombs-segreti-di-famiglia.html
Ciao Ismaele, e grazie.
EliminaDi Trier mi mancano Reprise e La persona peggiore del mondo, dei rimanenti suoi film sicuramente questo è il "meno" potente, ha un senso di incompiuto che però non lo sminuisce affatto. Certo, siamo lontani dalla spietata leggerezza di Olso 31 August, ma a mio avviso va bene anche così. L'incapacità di cogliere e saper affrontare il dolore delle persone amate, dei familiari, è un tema davvero delicato, e qui trova una sua possibile declinazione, un racconto imperfetto ma che, in qualche modo, funziona.
Grazie anche per il link :)
Che regista!
RispondiEliminaUno dei migliori della sua generazione, senza dubbio :)
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