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27.5.22

Recensione: "Rue Garibaldi" - BuioDoc - 53 -

 

Due fratelli italiani (di origine tunisina) emigrati a Parigi.
Una piccola casa, in Rue Garibaldi.
Intorno a loro l'immensa Ville Lumiere è preclusa alla nostra vista, resteremo sempre in quella piccola casa, con loro.
Lavori persi, altri trovati, un eterno presente senza avere la minima certezza del domani.
Una piccola nostalgia della loro Sicilia ma la testa completamente concentrata nel sopravvivere all'oggi.
Un film dolce, un documentario minimo diretto e montato da un'unica persona, un giovane regista italiano anch'esso emigrato più volte all'estero, anch'esso funambolo in un continuo precariato.
Ha vinto a Torino, ha vinto anche altrove.
Cercatelo, e se un giorno avrete la possibilità di vederlo passate anche voi un'ora e 20 con Ines e Rafik.

 Per l'ennesima volta mi ritrovo a scrivere ad una settimana dalla visione (e a 25 giorni dall'ultima recensione).
E' un periodo in cui faccio davvero fatica a mettermi al pc a scrivere, ma passerà.
Forse a causa di un mio vocabolario non troppo ricco o per la difficoltà, in certi casi, di trovare sinonimi adeguati, mi ritrovo una volta ogni due a definire i film recensiti qui sul blog come "piccoli".
Niente, è più forte de me, mi scappa sempre il "piccolo".
Eppure questo è davvero uno di quei casi in cui definire Rue Garibaldi un film piccolo è, semmai, un accrescitivo.
Rue Garibaldi è cinema minuscolo, un no budget diretto, montato e musicato tutto da un'unica persona, Federico Francioni.
Ho conosciuto Federico in sala (ci eravamo scritti prima più volte) e abbiamo fatto una bella discussione post film (anche se io, malgrado in queste discussioni spesso mi ritrovi a parlar tanto, preferirei sempre comunque evitarle perchè se il regista mi parla di una tematica o di un aspetto dove avevo avuto un'intuizione già da solo (tipo le "finestre" in Rue Garibaldi, prima cosa che ho scritto nel taccuino) poi sembra quasi che l'abbia presa da lui. Così come, al contrario, se viene fuori una cosa alla quale non avevo proprio pensato poi mi pesa da morire metterla in recensione, non essendo "mia". Insomma, la soluzione migliore sarebbe che io debba solo vederli i film, senza parlare con gli autori. Oppure smettere di scrivere che faccio ancora prima).

Rue Garibaldi è la minima storia di due fratelli italiani (di origini tunisine) emigrati a Parigi dalla Sicilia.
Non sappiamo perfettamente perchè (ma questo sarà un must dell'intero film, film reticente come pochi, capace di darti informazioni senza mai andare del tutto ad approfondirle), forse è la classica (oddio, classica direi proprio di no, anzi, cosa per pochi) botta di vita per cui parti, così, senza una lira e senza un progetto e te ne vai lontanissimo.
Loro si chiamano Ines (che è partita per prima) e Rafik (che l'ha raggiunta dopo), sono occhialuti, dolci, lei più risoluta e cazzuta lui più bonaccione e certe volte un pochino sulle nuvole.
Stanno in un piccolo e scomodo appartamento sulla periferia di Parigi, cercano lavori, trovano lavori, perdono lavori, vivono come funamboli sopra l'abisso della precarietà.
Federico, il regista, si innamora della loro storia di virtuali "doppi" emigrati (virtuali perchè in italia, seppur da genitori tunisini, ci son nati) e si trasferisce da loro.
La sua presenza (del regista dico) è perlopiù invisibile ma non forzatamente nascosta, nel senso che più volte - anche senza esser mai visto - cogliamo interazioni tra i due ragazzi con lui.
E niente, passiamo con loro un tempo indeterminato (allo spettatore potrà apparire una settimana come svariati mesi), senza che avvenga niente di troppo importante, senza che si avverta mai una sceneggiatura.
La vita che accade, sic et simpliciter.




Francioni usa quasi sempre inquadrature fisse, spesso (come accennato sopra) mostrando finestre.
Non è un caso visto che Rue Garibaldi si svolge - per il 90% della sua durata - dentro l'appartamento dei ragazzi, un microcosmo di 4 mura che sembra cancellare del tutto l'immensa Parigi.
Ecco, questo è forse uno degli aspetti più coraggiosi e originali di questo piccolo film.
Se sei a Parigi e non usi Parigi o sei un folle, o sei un genio, o hai un'idea così forte che te ne freghi di "lei".
Ines e Rafik parlano tra loro, spesso di lavoro, meno spesso dei propri ricordi (i due ragazzi sono fortemente ancorati al presente e alla necessità di "sopravvivere" malgrado in almeno due momenti Ines parli dell'amore per le sue radici italiane, sia territoriali che linguistiche), vivono la casa, stanno sul divano, preparano caffè, passano gran parte del loro tempo sui loro cellulari, cellulari che diventano talmente importanti da rappresentare quasi una tematica (e che bello - e che buffo - che io abbia visto questo film il giorno stesso che ho comprato il mio primo smartphone).
Il cellulare per parlare coi parenti, quello per ascoltare la musica, quello per cercare lavoro e quello per trovare furbe e quasi sempre false scappatoie alla vita vera (il trading online sul quale Rafik ad un certo punto si fissa).
Come accade spesso con la rete se noi non entriamo nel mondo esterno è il mondo esterno, attraverso il web, che entra da noi.
Eppure, in realtà, in questo film che sembra "covidiano" ma che è stato girato prima del Covid, non abbiamo davanti a noi due ragazzi che il mondo esterno non lo vivono.
Semplicemente Francioni ha preferito non mostrarcelo, non raccontarcelo, se non attraverso i discorsi che i due fanno in casa.
Lo spettatore riceve informazioni su lavori persi, trovati, alcuni portati avanti in quei giorni, ma tutto è abbastanza confuso, lo spettatore viene a sapere tante cose senza che nessuna gli venga mai spiegata.
Lei che forse ha avuto un lavoro "ambiguo" con un capo violento, lui che dovrebbe aver lavorato per Uber (c'è giusto mezza frase) e che adesso fa gli spurghi, un licenziamento di cui non si sanno le ragioni e così via come, ad esempio, un 
 passato in Sicilia dove si era candidato per delle elezioni e sin da piccolo, addirittura 8enne, il riferimento a qualche lavoretto.
Sono tutti piccoli pezzi di puzzle che raccogliamo dentro una scatola fatta di dialoghi, di note vocali, di servizi televisivi, di mezze frasi.
E' come se il precariato che in qualche modo racconta Rue Garibaldi costituisca anche il montaggio e il racconto del film, racconto mai stabile, mai a tempo "indeterminato", ma fatto sempre di informazioni volatili e, appunto, precarie.
Questo non disturba sia perchè in un documentario che vuole esser "vero" la didascalia disturba sempre, sia perchè in questo modo anche lo spettatore è più coinvolto a pensare, a stare attento, a capire.
C'è una scena ad esempio piccola ma tanto bella, ovvero quando lei mette i giornali sul muro.
La scena è abbastanza lunga e meticolosa e lo spettatore cerca di capire a cosa serva tutta quella preparazione.
Poi niente, poi abbiamo giusto una mezza inquadratura del suo letto viola (sempre se ho visto bene) e capiamo che probabilmente quello ha fatto, pitturato il letto.
Eppure anche qua reticenza, eppure anche qua completa asciugatura di tutto, in questo film che è ossi di seppia di azioni e dialoghi.
Inutile dire che non è un film per tutti, il ritmo è lentissimo, gli accadimenti (volutamente) ripetitivi, gli scenari proposti (volutamente) sempre quelli.
Il fatto è che siamo ai confini del cinema sperimentale, qualsiasi cosa questa definizione voglia dire.
Non credo che la scelta di Francioni sia stata "costretta" per budget (alla fine uscire in strada per filmare Parigi costa quasi zero lo stesso) ma, magari decisa in fieri, sia stata assolutamente calibrata.
E quindi eccoci in queste 4 mura, in questa Rue Garibaldi periferica, che ci piaccia o meno.
Solo due volte, in due piccole sequenze quasi oniriche, allarghiamo lo sguardo.
Prima in una Parigi notturna in cui buio e luci allo stesso tempo ci portano finalmente fuori da casa ma senza uscire dall'oscurità (non negativa, fattuale) dell'intero film.
E poi in quel "mare in casa" tunisino che, come una dissolvenza onirica, passa per la testa di Rafik.


Eppure sono due gli aspetti che più ricorderò di questo film, film che si conclude con un "incipit vocale" (bellissima scelta), ovvero l'invito di Ines al regista di andare a casa loro (praticamente tutto quello che poi abbiamo visto nel film).
Il primo è che in una cornice che avrebbe avuto tutto per essere drammatica (due ventenni espatriati, una piccola casa da vivere, licenziamenti, affetti lontani, nessuna certezza del futuro, mancanza di amicizie) non si respira mai un'aria di tristezza o sconforto.
Anzi, i due ragazzi restituiscono grande serenità, voglia di lottare, di reagire.
Scherzano, non si piangono mai addosso, perdono lavori e pensano subito a quello successivo.
Il messaggio che viene fuori è fortemente educativo, di grande forza.
E' vero, c'è un piccolo pianto, ma è solo quello liberatorio e necessario che ogni tanto bisogna fare.
Eppure un aspetto più malinconico c'è.
Se è vero che il film racconta un rapporto meraviglioso di un fratello e una sorella è anche vero che sembra raccontarci che, oltre a loro stessi, non hanno nessun altro.
Vedere il cellulare di Rafik con 15 chiamate perse tutte di un'unica persona - sua sorella - mi ha dato un piccolo sussulto di tristezza.
E non è un caso che nel finale la stessa sorella gli dica che lei per lui è tutto, sorella, madre, nonna, amica, tutto.
Unendo i due punti si ha una sensazione strana e contraddittoria, ovvero che se è vero che due persone insieme possono diventare un intero mondo (e loro lo sono, e questo è bellissimo) è anche vero che è altrettanto terribile pensare che il mondo possano essere soltanto loro.
Auguro a Ines e Rafik di poter avere tutto, il loro mondo e il resto del mondo con loro.

4 commenti:

  1. Ho visto Rue Garibaldi un paio di mesi fa, ma lo ricordo ancora piuttosto bene. Non sapevo cosa aspettarmi, non sapendone assolutamente nulla, se non che era un film realizzato con pochi mezzi e tanto cuore. E devo dire che si notano entrambi gli elementi. Ma se il primo può passare inosservato (perché la potenza dell'idea, del racconto, della sua messa in scena, può oscurare la scarsità dei mezzi), il secondo non passa quasi mai inosservato: perché l'assenza del cuore si nota sempre, anche se hai un budget infinito. Ma questo non è un male in sé: si possono fare esserci di stile di pregevolissima fattura, ma il "cuore" prescinde dai mezzi. E in Rue Garibaldi si sentono tutti i battiti che il regista è stato capace far tracimare nella sua storia. Che poi non è la sua, ma quella di Ines e Rafik. Di un fratello e una sorella che sono il mondo intero. La loro vita fatta di attimi minuscoli che si tendono all'infinito. La narrazione ne esce fuori lenta, ma di quella lentezza tipica di chi passeggia, di chi non ha fretta, di chi vuole gustare il sapore dell'istante, perché il futuro non è un sentiero già scritto, sul quale correre, ma è tutto in divenire, e siccome ci si muove su un campo minato, bisogna camminare sulle punte, e quindi vivere danzando, ma è davvero complicato. Insomma, l'ho apprezzato molto. Per le scelte di montaggio, secondo me davvero ottimo, certo inquadrature sono proprio coinvolgenti; e per le scelte di sottrazione continue, sicuramente dovute anche a un budget non esattamente illimitato, ma che secondo me rappresentano un tratto distintivo della cifra stilistica dell'autore. Forse, a mio avviso, il film sarebbe stato ancora più evocativo se non avesse avuto il taglio documentaristico che lo definisce, strutturandosi come un altro genere forse ne sarebbe uscito rafforzato. Perché, in fin dei conti, noi siamo semplicemente entrati in un piccolo appartamento a spiare un brandello dell'esistenza di Ines e Rafik, cogliendone qualche palpito, qualche sussurro. Innamorandoci di questi due cuori fragili e indistruttibili, che battono all'unisono. Mi unisco al tuo augurio: che possano avere tutto.
    Un abbraccio, Giuse :)

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    1. Eh, me ricordo quando lo hai visto, ahah, e so anche come

      Avendo conociuto Federico e avendoci parlato dopo il film ti confermo come "Il cuore" sia stato la molla principale. Lui si è innamorato della storia dei due protagonisti e ha cominciato a girare, senza sapere dove sarebbe andato a finire

      Descrivi benissimo il ritmo del film che è in tutto e per tutto il ritmo dei due fratelli, una vita in casa, due caratteri tranquilli, tanti momenti morti intervallati a quelli del lavoro o della ricerca dello stesso. E quella "flemmicità" siciliana che si percepisce tutta ;)

      Molto interessante quel tuo dire che "meno documentario" sarebbe stato meglio. In effetti è un discorso molto attuale questo, visto che i documentari di questo millennio sono sempre ibridi con la fiction. Questo qua, lo ha confermato lo stesso Federico, è stato al 90% puro documentario, forse massimo un dialogo e un paio di scene si son concordate

      io credo lo preferisco così

      ma non ho capito benissimo che avresti voluto, un film "drammatico" più scritto?

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    2. Grande Federico, gli faccio ancora i miei migliori auguri per il futuro. Che sia radioso e ricco di soddisfazioni!

      Sì, è vero: i documentari del nuovo millennio sono perlopiù ibridati con la fiction, alcuni in maniera profonda (L'impostore, straordinario), altri soltanto accennata (American Murder). Mentre la macchina da presa di Rue Garibaldi si pone come buco della serratura da cui osservare le vite di Ines e Rafik, noi - incluso il regista e chi al film ha lavorato - siamo soltanto spettatori. Ho pensato che, forse, in alcuni momenti, la narrazione potesse piegarsi a una scrittura maggiore, per ottenere una sorta di film "drammatico" più scritto. Però mi rendo conto che quella di Federico è stata una scelta ben precisa, ponderata, non dettata dal caso, né dalla mancanza di mezzi: lui ha voluto raccontare in questo modo, e non posso che apprezzare questa scelta narrativa, anche alla luce della splendida messa in scena (il rischio di creare un'opera anonima era altissimo, ma il regista costruisce un solido statuto identitario intorno all'intero film). Insomma, semplicemente, mi chiedevo come potesse essere raccontato questo tratto della storia esistenziale di Ines e Rafik, che film ne sarebbe uscito se si fosse optato per una latro genere di racconto. E il fatto che un film lasci questo genere di suggestioni e interrogativi, secondo me, è sintomatico della sua riuscita.

      :)))

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    3. Mi sono spiegato male io, molto male

      Con fiction non mi riferivo tanto al concetto di docufiction (come L'Impostore) ma al semplice concetto di "sceneggiato", ovvero che ci troviamo davanti delle scene scritte prima, non del tutto naturali, concordate

      E' un modo ormai consueto di fare documentari (ad esempio tutti quelli di Minervini e di Rosi sono al tempo stesso puri documentari in cui però capisci subito che tante scene che vedi sono state scritte) che però, in Rue Garibaldi, sono quasi inesistenti

      Insomma, per fiction non intendevo inserimento di parti recitate, ricostruzioni, interviste e tutta quella roba, ma solo scrittura

      Malgrado mi fossi spiegato molto male la tua seconda parte di commento è perfetta, avevi comunque capito ;)

      Avresti voluto usare quella cornice vera (e verosimile) per crearci una storia più scritta

      E sì, come dici, questa era una cosa impossibile, se un documentarista decide di raccontare la vita così com'è si sentirebbe "sporco" ad inventarsi cose, al massimo, come il sopracitato Minervini, potrà ricreare scene concordate che però mostrano cose che realmente accadono in quel contesto

      Per capirsi magari Rafik ha avuto un colloquio di lavoro non filmato e Francioni poteva rifarlo, in maniera assolutamente identica alla realtà. Era una finzione che però non snaturava il progetto, nel senso che restava il concetto di "è successo veramentge così"

      come mi sembra dicevo anche in rece scelte così radicali sono allo stesso tempo la forza e il limite di queste operazioni

      insomma, ti capisco ;)

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3 ciao