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12.9.22

Festival del Cinema di Venezia 2022 - Parte prima di 2 (17 film!!!)

 


 
E così anche quest'anno ho mandato due amici/scagnozzi a vedere film a Venezia per riportare le loro impressioni qua nel blog.
Volevamo pubblicare durante il festival ma è stato impossibile.
Quindi ora in due giorni ve fate una scorpacciata di oltre 30 film e minirecensioni!
Cominciamo con i primi 17

Mi raccomando, cliccate "continua a leggere" altrimenti ve ne perdete la metà


ENRICO GASPARI


BARDO di Alejandro G. Iñárritu (Messico)



A riprova di quanto spesso sia fuori dall’informazione cinematografica, non sapevo assolutamente che Alejandro G. Inarritu avesse un nuovo progetto, con Netflix per di più. Questo però sembra proprio il tipo di film che farebbe uno che manca dalle scene cinematografiche da 7 anni. Era il 2015 quando uscì The Revenant, quando piovvero riconoscimenti, col suolo hollywoodiano ancora bagnato da Birdman. Cosa fare se non tornare in Messico, per imbastire il film autobiografico che ogni regista sembra volere dopo aver toccato il successo in trasferta? Paragoni sono fioccati con Sorrentino, e in effetti l’operazione è quella di È stata la mano di Dio; lo stile invece, quello del Sorrentino che ci si aspetta, della stramberia, dello stridente, del sorprendente. Insomma, nel raccontare l’8 e 1/2 del suo alter ego Saverio Gama Inarritu si è disunito a più non posso, tre ore vorticose che possono essere amate, odiate, talvolta contemporaneamente. L’inizio in quel deserto infinito, con quell’ombra che corre e vola come Peter Pan, è stato amore puro. Forse anche perché avevo fatto una corsa folle dal traghetto, arrivando in sala a luci appena spente, e sentire il mio fiatone calmarsi al ritmo di quello che proveniva dallo schermo è stato quasi trascendentale. Inarritu vola, sollevando lo spettatore nell’empireo del grande cinema, con una voglia di raccontare che raramente sento in questa edizione, e lo farà per i successivi 170 minuti, con picchi assurdi come quello della città buia, il dialogo con Cortez e il suo diventare metacinematografico. C’è tanto da godere, il colloquio con l’ambasciatore americano, il tram allagato che provoca un risveglio esilarante a casa propria, il tour dello studio dove ancora gira una cotta di gioventù, le parti con la famiglia alla fine, l’umorismo grossolano ma a tratti irresistibile. C’è anche tanto da sbuffare, tempi lunghissimi, parti prolisse, ridicolaggini come il colloquio col padre (perché quel testone sul corpo accorciato, perché?) o quel giro finale nel deserto che non finisce più. Non è un film che rivedrei, anzi è probabilmente il mio sfavorito assieme a Biutiful del messicano. Però è la creazione di un artista assoluto, orgoglioso eppure vergognoso, di voler raccontare solo Falsa Cronaca, con qualche Manciata di Verità.


ATHENA di Romain Gavras (Francia)


Che curioso, nel 2019, al mio primo festival di Venezia vissuto scientemente, andai alla premiere con premiazione di “Adults in the Room”, prima visione di un film del corrosivo Costa-Gavras, e oggi scopro, alla mia prima premiere 2022, che il regista naturalizzato francese ha un figlio e pure lui dirige. E dirige bene anche, un film politico come quelli del padre, che fin dal titolo, Athena, rimanda alle origini greche di famiglia. Parigi, terzo millennio, nel quartiere omonimo è stato ucciso un ragazzino di 13 anni, in circostanze misteriose che però sembrano indicare un coinvolgimento della polizia. Il video dell’accaduto diventa virale, facendo esplodere la rivolta fin dalla primissima scena, dove assistiamo ad un superbo piano sequenza che da solo vale il prezzo del biglietto: si parte da un volto, per poi assistere all’assalto della stazione di polizia, facendone tutto il giro, fino al garage dove viene rubato un furgone, che ci conduce al banlieue Athena, mentre la telecamera vola fuori e dentro e assistiamo ad acrobazie senza praticamente effetti speciali. Meraviglia. E le virtuose riprese senza stacchi continuano, mentre seguiamo il coinvolgimento dei tre fratelli dell’ucciso, un militare, un criminale e il giovane capo deciso a non mollare la ribellione fino all’incriminazione dei colpevoli. Tutto molto intrigante, energico, politico, un film che impersona la rabbia dei personaggi e la rinchiude in un solo luogo, il complesso di edifici preso d’assalto dalle forze dell’ordine, più volte percorso, come nel fantastico “tour” in motorino. Purtroppo questi complimenti valgono soprattutto per la prima parte, mentre nella seconda tutto scricchiola un poco. Il film da arrabbiato rischia di diventare non pensato, con questi personaggi che anche nei momenti più calmi sono sempre ad urlare, ad agitarsi, a gesticolare, cosa immagino voluta ma che stronca qualsiasi tentativo di costruire un minimo di tensione, in un film sempre ai 1000 all’ora. Non aiuta che certi attori non siano proprio il massimo, come quel fratello maggiore in costante overacting, e che la sceneggiatura non gli dia null’altro che urla, fino alla svolta finale che credo rimarrà la più inspiegabile vista quest’anno. A dire la verità, confonde pure abbastanza il messaggio: cosa vuole dire Romain Gavras? È un messaggio contro il potere in generale? Contro quello deformante dei social? È un’accusa alla generazione precedente a quella ora costretta alla rivolta, o all’estrema destra come origine di tutti i mali? Credo si sia mancata l’occasione di costruire una vera e propria tragedia greca moderna, ed è un peccato: l’ho vista, a sprazzi, non nelle parole e negli strilli, ma in quel corteo notturno e silenzioso dei poliziotti, loro rinchiusi a testuggine mentre intorno guizzano infiniti i fuochi d’artificio, e i cori dell’ira rimbombano dalle profondità.


UNA GALLINA NEL VENTO di Yasujirō Ozu 
(Giappone)


Preciso subito: in questo film non ci sono galline, tantomeno che svolazzano in aria, quindi non ho la minima idea di cosa significhi il titolo. Forse un appassionato di Yasujiro Ozu ne saprebbe di più, ma non è il mio caso. Complice l’avversione innata che provo per il realismo come movimento cinematografico avevo finora evitato ogni lavoro di questo regista di culto giapponese, con una certa vergogna vista la sua importanza: pensate che “Kaze no Naka no Mendori” è del 1948, e se sembra datato considerate che Mr. Ozu faceva cinema dal tempo dei film muti, negli anni ’20, e si convertirà poi al colore solo a fine ’50. Oggi, decenni dopo, proiettano un suo film restaurato, quindi era proprio l’ora di rimediare. E aggiungo, con mia immensa sorpresa, che non solo non è minimamente datato quanto mi aspettassi, ma che me lo sono pure profondamente goduto. Se avete fatto occhio alle date potete immaginare il contesto del film: è un dramma post bellico, che se vogliamo ribalta quello straziante capolavoro, sempre nipponico, di “Una Tomba per le Lucciole”. Dove nell’anime Ghibli c’erano bambini ridotti a sopravvivere senza genitori, qui ci sono genitori che devono sopravvivere con figli a carico, in particolare una madre con figlio malato e il marito non ancora tornato dalla fine delle ostilità. Una storia semplicissima narrata altrettanto semplicemente, in un’ora e venti scarsa; eppure, dopo il primo impatto con il bianco e nero e quello strano campo-controcampo a 180° (invece che il tradizionale a tre quarti), vola ch’è una bellezza, senza sprecare un solo minuto per costruire grande empatia coi personaggi, tra l’altro riducendo il pietismo veramente all’osso per il genere. Ottima anche la parte del ritorno del marito, a tratti apparentemente freddo e ingrato, altrove dipinto con sincera umanità, come nel bellissimo scambio con la ragazza della casa dietro la scuola. Certo, è un film giapponese del ’48, se v’aspettate una relazione coniugale odierna cambiate pellicola (e credo che nella realtà i veterani di guerra dell’epoca fossero ben peggio); in quel senso abbastanza idealizzato, nel senso che si rifà pienamente a quell’ideale di armonia buddista, anche graficamente rappresentato dalla casa con moglie, marito e figlio. Eppure in “Una gallina nel vento” si percepisce una forza senza confini o età, minimamente scalfita dal tempo. Il bel realismo della pellicola sta nel saper raccontare una difficile condizione anche tenendo tutto molto implicito (eccetto un atto violento sul finale che per questo risulta abbastanza fuori luogo), coinvolgendo ugualmente gli spettatori nei drammi come nei momenti sereni, o persino in lievi contemplazioni (i famosi interni di Ozu, spartani e malinconici). Non chiedevo di più, e me lo tengo stretto.


MASTER GARDENER di Paul Schrader (USA)


Narval Roth è un giardiniere: ciò che fa, che lo definisce nel suo mondo (i giardini botanici che circondano la casa della sua patrona, interpretata da Sigourney Weaver), che occupa i suoi discorsi di giorno e la pagine di un diario di notte. Ed è un personaggio di Paul Schrader, fresco Leone d’Oro alla carriera, il mitico sceneggiatore di Scorsese (che ha omaggiato la premiazione con un messaggio di ringraziamento a sorpresa per l’amico), narratore delle storie al limite di un tassista, di un pugile, di un autista di ambulanze nel sottovalutatissimo Al di là della vita. Contrasto abbastanza curioso, anche se il nostro giardiniere, interpretato da un sontuoso Joel Edgerton, ovviamente ha un oscuro passato vissuto nella violenza e nella religiosità radicale, tema quest’ultimo ch’è probabilmente il cavallo di battaglia nonché dubbio ultimo di Schrader, il cui discorso per il Leone ha visto in primis un ringraziamento a Dio. I problemi si accendono quando arriva un’avvenente orfana in quel mondo di piante e fiori, a cui Narval è incaricato di sovrintendere, e “i semi dell’amore crescono come i semi dell’odio”. È un film strano, Master Gardener, che parla di una cosa potenzialmente noiosa con una passione senza pari, chiaramente frutto di una ricerca estesa e meticolosa, mentre tratteggia i rapporti umani con una freddezza che non mi aspettavo, conoscendo solo le calde tinte delle sceneggiature già citate e nessuno degli exploit registici. Infatti l’unica scena, in un sogno, dove i due protagonisti si lasciano andare alle emozioni stride terribilmente con il resto del film, che per il resto scorre a testa alta, fiero di ciò che racconta e come lo racconta. Lo ripeto, è un film strano Master Gardener. Ma è anche una visione che, in questa Venezia, non mi sarei voluto perdere.


PEARL di Mia Goth (USA)


Dopo la premiere di Master Gardener, quella estremamente tarda di Pearl, presenti il regista Ti West e Mia Goth. Ottima occasione per spendere due parole anche su “X”, uscito recentemente nelle sale italiane e di cui questa pellicola è prequel: onestamente, ho sentito così tante lodi sperticate che mi chiedo se non ho interpretato male il film. Certo, non brutto, anzi girato con grazia e stile, a tratti divertente, ma anche personalmente senza troppo interesse, con personaggi piatti e insopportabili, ingolfato da ogni cliché horror da bignamino di cinema. E mi verrà detto che è voluto, che “X” si rifà a quel genere di horror sporchi e malati anni ’70, alla Non aprite quella porta. Rispondo che quel tipo di horror infatti a me non dice assolutamente nulla, e quindi anche il film di West, se eccettuiamo la tematica religiosa abbastanza interessante che fa capolino sul finale. Ecco, questo per dire che Pearl è stata un’enorme sorpresa: forse perché si prende meno sul serio, forse perché è ambientato nel 1918 e quindi Ti può smetterla di sfoggiare la sua erudizione anni ’70, ma me lo sono decisamente goduto. La storia ovviamente è quella della vecchina pazza del film precedente, ai suoi esordi e sempre interpretata da una grandissima Mia Goth, finalmente libera dal pesante trucco, figlia di immigrati tedeschi nell’America del cinematografo, delle grandi occasioni nello spettacolo (anche nella pornografia clandestina, bel collegamento a X), della guerra ormai finita che porta la Spagnola assieme ai soldati di ritorno. Un mondo che si vede poco dalla fattoria dei genitori, un padre paralizzato a cui stare dietro e una madre rigida, forse anche perché vede qualcosa di sbagliato nella figlia… Insomma, sono le follie di Pearl, che consentono allo spettatore di vagare in un mondo saturo di colori, tinti di rosso nelle fasi finali e che alternano il bianco e nero dei film di cui è appassionata la protagonista, in un bel contrasto con la fattoria persa nel nulla da cui vorrebbe scappare. Ed è ironico che tutti i suoi sforzi in tal senso vadano a schiantarsi con la realtà, cioè che Pearl è una ragazza disturbata che crede tutto le sia dovuto, il cui impatto col mondo non può che risultare in paura e diffidenza. Il peggio forse è proprio che ne sia consapevole, come dimostra un monologo lunghissimo (troppo lungo, prolisso anzi) senza stacchi dove la Goth sfoggia la sua bravura, e che fa il paio col finale dove i titoli scorrono mentre lei regge ancora a fatica quel sorriso sforzato. In realtà tutti gli attori a questo turno sono bravi, specialmente la madre e il proiezionista. Il problema semmai sta nelle morti dei personaggi, ancora una volta ridotti a stupida carne da macello che non si accorge di una pazza col forcone a 20 metri di distanza, o che si danno fuoco da soli e inciampano nel nulla. Inoltre, nessuno ha mai indagato su tutte quelle scomparse? Nessuno ha mai notato in 50 anni l’auto semiaffondata (che tra l’altro in “X” mi sembrava di modello totalmente diverso)? In fondo dai, il film me lo sono goduto lo stesso, e viste le poche aspettative, chiudo anche volentieri un occhio; ma che il buon Ti finisca nel mio meglio dell’anno, la vedo davvero dura.


TO THE NORTH di Mihai Mincan (Romania)



 Adesso basta. Credo che in chi ama il cinema prevalga l’idea di celebrarlo, non di affossarlo. Personalmente poi, ci aggiungo il catartico sfogo verso i film brutti, a suo modo comunque una celebrazione per avermi fatto divertire o quantomeno imparare dai loro errori. Se c’è una cosa però che non posso sopportare è la mediocrità, ti fa venire rabbia solo a parlarne, perché gli stai facendo un favore. Però ne ho vista così tanta a questa edizione che vale la pena fissare qualche punto, come grido di protesta verso gli addetti alla selezione. Quindi assieme alla goccia che m’ha fatto traboccare ci butto anche il vaso, Stonewalling, Lobo e Cao, Pour la France.- Ipocrisia: quest’anno abbondano i film sui temi sociali, e va bene, c’è chiaramente una scelta dietro. Ma perché devono essere pure dannatamente ipocriti? Prendi To the North, il solito polpettone sui migranti “tratto da una storia vera”, che dovrebbe sensibilizzarti e invece ti fa odiare tutti i personaggi, dal primo all’ultimo, stessa cosa per quella sola portoghese (quanto mi fa male stroncare il cinema europeo) di Lobo e Cao.- Messaggi: qui mi rifaccio direttamente all’ultimo punto. Che senso ha imbastire un film del genere se poi senti il bisogno di metterci di mezzo le nazionalità “buone” o “cattive”, parola del protagonista, secondo cui i Filippini sono buoni e i Taiwanesi cattivi? Anche nel film francese ho sentito un forte scollamento col fratello minore, la cui morte (non è uno spoiler, è la prima scena del film) mette in moto la vicenda, ma mai mi è pesata per la sua continua e acritica esaltazione dell’esercito (qui è anche sensibilità mia ovviamente).- Tempo: esiste la durata media di un’ora e mezza per un motivo, perché tu, regista, devi tenermi prigioniero per due abbondanti? Specialmente se non hai la minima padronanza del ritmo, cosa che quantomeno devo riconoscere a Pour la France, assieme ad un ottimo finale.- Recitazione: capisco benissimo che la maggior parte delle pellicole prese ad esempio vengono dal cinema semi indipendente o poco più. Ma allora tu regista, che ne diresti di aiutare quei poveri cristi dei tuoi attori invece di farne ridicoli manichini? Come nel finale da denuncia di To the North, dove sti poveracci che già per buona parte del film hanno dovuto parlare in un fastidioso blob di lingue, vengono pure tenuti per dieci minuti buoni a ripetersi casualità, mentre colano lacrime, sangue, o bava dalla bocca. Ecco, forse questa è l’unica cosa decente del sonnifero cinese Stonewalling, che non si comporta così male in tal senso.- Narrazione: questo è il punto che mi sta più a cuore. In questa Mostra, finora, ho largamente percepito una straziante mancanza di gioia di raccontare, quella magia condivisa che unisce spettatori e creatori per qualche ora, unendoli, facendo dimenticare ai primi che il mondo là fuori esiste. L’ho percepito nei dialoghi tremendi (e pure bigotti, sempre intorno alla religione, al giusto e sbagliato) di To the North, l’ho percepito nella totale casualità di Lobo e Cao, l’ho percepito infine anche in tanti film belli quest’anno (a Venezia e non solo), a cui manca quel passo in più per far sognare, per librarsi sulle ali della fantasia.


NEZOUH di Soudade Kaadan (Siria)


Ecco, si parlava prima di sociopolitica e cinema, e stavolta, di come farli bene. Siamo a Damasco, in Siria, bellissima terra di Storia e di cultura spazzata dalla guerra. La città è praticamente abbandonata, sotto assedio, restano solo poche famiglie decise a resistere. Fra queste c’è quella di Zeina, attrice bambina dagli occhi e il volto meravigliosi, capaci di farti ridere con un sorriso e intristire con l’ombra di un dolore, l’occhio infantile su quella casa, dove si rimane più per la volontà del padre che altro: talmente spaventato dalla prospettiva di essere un nomade, un profugo, arriva praticamente a negare la realtà, persino davanti alle bombe che gli devastano casa. Detta così sembra che il film rappresenti la classica cronaca, giustamente disperata, di quel paese e i suoi abitanti dalle vite distrutte, costretti ad andarsene per non morire. Invece il taglio che questa bravissima regista e sceneggiatrice dà alla storia, senza peraltro minimizzare o idealizzare granché, è totalmente inaspettato: una visione piena di vitalità, di fantasia nelle più piccole cose, di orgoglio, persino di humor. In quei tre personaggi, il padre, la madre, e la bambina, c’è l’esistenza che rifiuta non solo di morire, ma anche limitarsi a sopravvivere. Specialmente nella piccola, niente affatto una passiva bambolina nelle mani dei genitori, ma una ragazza con sogni, speranze, voglia di divertirsi. Meravigliosa la sua storia con il ragazzo dei vicini, visto prima una sola volta a scuola, e che ora approfitta della città vuota e devastata per venirla a trovare e corteggiarla, con storie e regali portati tramite il cratere del soffitto. In un certo senso, molto inaspettato e se vogliamo anche politicamente scorretto, è come se la guerra avesse portato delle alternative, come se quei buchi nelle pareti, inutilmente coperti dalle lenzuola (per la pudicizia del padre, che non vuole le donne vengano viste dai vicini come un tempo), avessero liberato una parte di quella famiglia. Per la prima volta può fare cose che mai si sarebbe sognata, e assieme a lei la madre, che viene contagiata dalla positività di Zeina, dalla sua musica, i suoi sogni di acqua smossa nel cielo, e decide di andarsene per le strade prima mai percorse da sola. Di nuovo, senza scordare a casa l’umorismo (il terrore nel vedere un drone senza sapere cos’è, le scarpe col tacco mai messe, il righello spezzato), la voglia di vivere senza farsi coinvolgere nelle parti in guerra. Ed è bello che in questo il padre, pur rigido e combattuto nelle sue idee più tradizionali della famiglia, non sia affatto visto come una persona cattiva, ma solo come un uomo, fallace, però buono. Una persona che la bambina (di nuovo, affatto passiva) vuole nella sua vita, perché le insegni a pescare, perché non vuole perdere nessuno, “non lo guardo il tuo film se muore qualcuno” dice ad un certo punto. Io Nezouh infatti l’ho visto fino alla fine, e ne sono uscito con una dolce sensazione e il sorriso sulle labbra: complimenti a tutti quelli che hanno messo assieme questa piccola meraviglia.


THE MAIDEN di Graham Foy (Canada)


Alti e bassi, altri e bassi a questa edizione. Solo che quando tra gli alti non hai ancora trovato il capolavoro, il film che resterà o (ancora meglio) la perla nascosta, ci speri ad ogni proiezione, e forse mai la mia speranza è volata come per The Maiden, solo per poi sfracellarsi miseramente a terra. “Il film più misterioso della selezione”, l’ha definito la presentatrice di Giornate degli Autori. “Una misteriosa rottura di scatole”, lo definisco io, forse con meno eleganza ma quantomeno onestà. La cosa peggiore è che, diversamente dalla combo To the North & Company, questo film sembra pure avere capacità e premesse abbastanza inusuali. C’è effettivamente un alone di mistero, questo bel titolo evocativo, quell’inizio nel buio, la voglia apparente di raccontare una storia di formazione diversa dalle altre. Il punto è che fare le cose diverse dagli altri non equivale a fare cose interessanti. Ci sono due grandi amiconi, ma la morte si mette in mezzo. C’è una ragazza sensibile verso il protagonista, ma nessuno sviluppo romantico. C’è un bullo che odiava l’amico scomparso, ma è una persona sorprendentemente a modo. Tutto bello eh, mi piace che si ribaltino i cliché, ma bisogna sostituirli con qualcosa di sensato. Invece ciò che offre The Maiden, nonostante le arie da storia di una vita, sono gli stessi difetti di cui ho già parlato in precedenza: dialoghi terribili e nemmeno recitati troppo bene (quel professore è il personaggio, anzi, prendo in prestito un’espressione, il merdonaggio dell’anno), durata inutilmente lunga, personaggi insopportabili, ma soprattutto la cosa peggiore, raccontare in fondo solo il nulla che diventa nulla. Qualcuno potrebbe accusarmi di non essermi voluto impegnare, di non aver capito: forse è vero, forse questa è una grande storia adolescenziale in bilico tra la vita e la morte. Ciò non toglie che annoia a morte, quindi non mi invoglia affatto a ritornarci sopra per capirla; anzi sono ancora arrabbiato perché non sono andato invece a vedere l’ultimo postumo di Kim Ki-duk, quindi la smetto pure volentieri di parlarne.


LJUKSEMBURG, 
LJUKSEMBURG di Antonio Lukich (Ucraina)



Che le avversità aiutino gli artisti mentre abbattono i paesi? Avrebbe senso visto l’ondata di grande cinema greco e spagnolo dopo la crisi del 2008, ma anche il cinema siriano di Nezouh, e ora pure l’Ucraina, la cui guerra interna ha rischiato di mandare a gambe all’aria questo film. Se possiamo vederlo completato a Venezia è già sorprendente, il fatto che sia pure una gran commedia nera quasi un miracolo. Il Lussemburgo del titolo è quello che devono raggiungere due fratelli (pure nella vita reale) gemelli ucraini, dopo essere stati informati che il loro padre da lungo disperso è lì sul letto di morte: un po’ una scusa, diciamo la verità, per raccontare due persone opposte in tutto. Uno spacciatore, l’altro poliziotto, uno ligio fino all’eccesso e l’altro scapestrato, uno ha preso dalla madre e odia il padre, l’altro ha preso dal padre e lo ama ancora. Eppure, entrambi sono infelici, forse perché sono figli a cui quel padre manca, di quelli che tuttavia, anche volendo andare avanti, non smettono mai di cercarne uno. E qui bisogna dare una piccola anticipazione, questo apparentemente piccolo sottotesto, sta alla base di un finale malinconico, che non concede né alla tristezza né alle risate, solo quella dissestata via di mezzo che deve percorrere ogni essere umano. Ciò non toglie che questo film rimanga, con immensa sorpresa, probabilmente la commedia più esilarante vista a Venezia, specie nella irresistibile parte centrale dei “servizi sociali” a casa della vecchina, che mi ha ricordato molto certi momenti di Extra Ordinary per il suo insieme geniale di comicità visiva e verbale, spesso di una piacevole grana grossa. Tra l’altro per un appassionato di commedia nera come me è un pullulare di battute cattivissime, che non inficiano tuttavia mai la godibilità né tantomeno la logica interna del mondo filmico: i personaggi fanno e dicono cose estremamente spiacevoli, che vengono giustamente percepite come tali dagli altri personaggi, e se serve, pure punite. Non si crea così l’illusione che questi siano modelli comportamentali, come fanno alcuni film, dalle pretese molto più serie, di cui ho parlato: insomma, un film scorretto ma corretto verso lo spettatore (e con una durata adatta ad una commedia! Appena un’ora e 45). Dopo una giornata deludente concludere con un film ucraino, arrivato dalla guerra ancora con la forza di portare allegrezza, ti svolta davvero l’umore. Allora è questo che si prova con la magia del cinema: per chi ne ha bisogno da un po’, c’è sempre il Lussemburgo.


TOMMASO FERRERO

Questo anno arrivo al festival un po' in ritardo, diciamo dopo la prima metà, di solito quella con la migliore selezione. Per adesso, infatti, mi è sembrato un festival un po' sottotono, spento, che ha aperto il concorso ad alcuni film che negli anni scorsi avrebbero visto, di fortuna, solo i concorsi collaterali. Detto questo c'è anche del bel cinema, autori giovani e proposte interessanti.
Come sempre le mie sono riflessioni tiepide, un po' maliziose, fatte con l'occhio dello spettatore che vuole trovare il pelo nell'uovo ma che, alla fine, piange quasi sempre nei momenti toccanti.
Non metto voti, non mi appartiene, metto parole, il resto sta nella visione.


TI MANGIO IL CUORE di Pippo Mezzapesa (Italia)


Il primo impatto con il festival è un film dalla grande aspirazione narrativa: due famiglie mafiose rovinano i loro equilibri per colpa di un amore illegale fra due membri delle stesse.
Gli echi padrineschi si intrecciano con una storia d'amore che sa di "Romeo e Giulietta", ma senza la stessa poesia cinematografica. Il regista si muove, a mio avviso, su inquadrature un didascaliche, suggerendo sentimenti, nozioni e passaggi narrativi che, già chiari, risultano così un po' retorici. Sorprendente, a mio avviso, la capacità attoriale di Elodie, votata in un ruolo in cui, comunque, la sua immagine, a tratti, brucia la scena.
Ti mangio il cuore non è un brutto film. È semplicemente scolastico e prevedibile, sia registicamente che nella sceneggiatura. Resta comunque una bontà di intenti che traspare a tratti in alcune scene dall'alto contenuto filmico, che donano una bella e piacevole visione per il grande pubblico.


LES ENFANTS DES AUTRES di Rebecca Zlotowski (Francia)


Normale, innocuo. Dimenticabile. Alla scoperta della sua partecipazione al concorso di Venezia questi aggettivi sono tramutati in una sola parola: brutto.
Les Enfants des autres è una comedy/drama che racconta di una donna che lotta contro il tempo per trovare un compagno con cui avere, finalmente, lo sperato figlio. La donna non troverà lo sperato parto ma, probabilmente, se stessa. Il film è piatto, o perlomeno non universale. Parla specificamente a una categoria umana, ovvero quella femminile, escludendo dall'aspetto empatico chiunque non sia capace di immedesimarsi nel concetto di maternità o paternità. Un film altamente femminile, che sfrutta i suoi aspetti politicamente corretti per non creare una linea narrativa degna di un festival quale Venezia. Opinione totalmente personale, un film da mercoledì sera, un'ora e mezza di televisione. Non di cinema.

LOVE LIFE di 
Koji Fukada (Giappone)


Un film dalla trama e dall'intreccio semplice. Per questo un film umano. Love Life parla della vita dei suoi protagonisti. Non c'è finzione, non c'è film, ma c'è tanta vita.
Una coppia si trova ad affrontare il lutto di un figlio in maniera totalmente diversa : sono, infatti, una madre e un padre adottivo. Un pensiero libero e uno tradizionale, un passato nascosto e uno limpido come l'acqua. I due si scoprono nello scontro silenzioso della superbia e dell'onore, fino alla rottura di ciò che erano.
Love Life è il primo film che mi mostra del cinema in questo festival. Parliamo di un film semplice in realtà, mai retorico, ma proprio per questo universale, anche se legato a una realtà a noi lontana come quella giapponese. Le vie dell'amore creano progetti, sensazioni, idee preimpostate, spesso dovute; le vie della vita, invece, le rivoluzionano, mettono in dubbio le certezze, gettano involute realtà inattese. Ci sono persone in questo film, persone legate, con problemi umani comuni, che lottano fra loro stessi e la loro figura sociale. Questo film rappresenta, in qualche modo, la vita. Tema fondamentale è l'illusione; la realtà fondante che trasforma i comportamenti delle persone: la maschera pirandelliana. Un'idea oramai consumata ma che trova, nuovamente, la conferma in un grande film. Love Life è semplice, una regia corretta, elegante, pulita, che sottolinea una storia comune, talmente comune da essere quotidiana.


IL SIGNORE DELLE FORMICHE di Gianni Amelio (Italia)


Mettiamo in conto che questo è un film giusto. Non è il miglior film del festival, ma resta il miglior film di Amelio negli ultimi anni. Il caso di Aldo Braibanti, uno dei capitoli più ingiuriosi della casistica processuale italiana, viene raccontato in maniera rispettosa. Unico problema del film è che è permeato dell'anziana e veneranda presenza del suo regista. Nulla da togliere a Gianni Amelio, ma intendiamoci che oramai, negli anni, il linguaggio cinematografico si è evoluto. Lui, semplicemente, no. Un film impegnato, vecchio stile, dove ancora si annusa un vento compagnesco ad oggi un po' (purtroppo per l'attualmente inesistente differenza partitica del nostro paese) anacronistica. In fondo un film non brutto ma, nemmeno, eccezionale. Amelio usa una camera descrittiva e con una aspirazione evocativa, fornendosi di belle scenografie e creando una ricca ricostruzione dell'Italia della metà del '900. Se dessi voti gli darei un 6.5, ha potenziale ma non si applica direbbero i miei vecchi professori del liceo. Ottima interpretazione di Lo Cascio e di Germano. La comparsa del viso di Emma Bonino (senza togliere l'impegno della signora Bonino negli anni descritti) come un fulmine a cielo aperto nel mezzo di una scena resta, comunque, il più grande mistero di questo festival ad oggi.


BI ROYA (WITHOUT HER) di Arian Vazirdaftari (Iran)


Questo è un bel soggetto che si perde nel suo sviluppo.
Una donna deve lasciare in due settimane, l'Iran per seguire il marito a Copenaghen. La donna ha una fissazione per un suo amico scomparso che la tormenta. Il lasciare tutto ciò che ha, compreso il suo lavoro, la rende inquieta. L'ingresso nella sua vita di una ragazza senza memoria sconvolgerà i suoi piani e la sua esistenza.
Il film parla di identità e di possesso nella società contemporanea. Il concetto di fondo è che chiunque, alla fine, è rimpiazzabile. La sceneggiatura è interessante, la regia non troppo ricercata ma comunque a servizio di una storia che mischia velocemente surrealismo e rappresentazione del vero. Grande pecca del film è il non riuscire mai a finire, girando a lungo intorno ad un tema che viene consumato nei primi 40 minuti e che si ripete senza grandi aggiunte nei successivi 40. In fondo, comunque, un film gradevole e di buona fattura.


KONE TAEVAST (CALL OF GOD) di Kim Ki Duk (Estonia, Lettonia, Kirgikistan)


Il punto di domanda dopo l'autore è, in fondo, l'unico commento che mi posso sentire di fare. Il film è postumo, ma è da capire quali e quante delle inquadrature proposte sono state fatte dall'autore di alcuni dei film più poetici della storia del cinema.
Una ragazza sogna una storia d'amore con un uomo incontrato per strada. Il sogno si articola a lungo in una storia di possessione malata e tossica da parte di entrambi. Il sogno della ragazza è interrotto da chiamate di una voce misteriosa che le dice di smettere di sognare per non incorrere realmente negli avvenimenti appena visti durante il sonno.
Non c'è nulla di Kim Ki Duk in questo film. Cioè si, forse qualcosa resta, ovvero la noia che a volte, incessante, colpisce durante la visione di alcune scene dei suoi film. Però, a differenza delle altre pellicole che trovavano la bellezza anche in noiose attese, qui c'è il nulla.
Mal recitato, montato come una telenovela, fotografia sparata corretta da un bianco e nero feticcio. Questi solo alcuni dei punti che rendono Kone Taevast un bruttissimo omaggio a un maestro del cinema, che potrebbe si aver messo le sue mani sul prodotto, ma lo ha fatto o in maniera minima o durante la malattia che lo ha, poi, spento. Resta a me inspiegabile il prodotto terribile presentato al festival.


THE SON di Florian Zeller (Regno Unito)


Premetto che non ho visto l'altra opera di Zeller "the father", ma questo è un bellissimo film.Una coppia separata si trova ad affrontare la depressione di un figlio. Cercando di aiutarlo scaveranno in loro stessi per riuscire a capire cosa comporti la condizione del figlio, per loro quasi incomprensibile.The Son è un film ben scritto e ben recitato. Generalmente questi sono due elementi che rendono un film almeno godibile. La regia aggiunge un pizzico di piacere nella visione, rispettosa del tema, lascia recitare gli attori e gli dona il loro spazio senza essere invasiva. Il film fa piangere, monta una relazione che sentiamo nostra fino a disintegrarne ogni certezza. Colpisce a fondo e fa eco su delle corde umane comuni. Alcune pecche sono comunque presenti: un finale costruito in questo modo, basandosi anche su dei colpetti di scena, non ha bisogno di alcune sottolineature di camera che permettono di intendere la chiusura della trama già da metà film. In più alcune dinamiche sono tipiche di una tipologia famigliare americana di alta borghesia, dunque si presentano valori morali non sempre condivisibili che rompono un po' l'immedesimazione nella vicenda. Il film resta bello, ricco di spunti e davvero ben scritto. Un bel piacere da guardare.


NOTTE FANTASMA di Fulvio Risuleo (Italia)


Un altro bel soggetto, questa volta Italiano.
Un ragazzo viene convinto a comprare del fumo da un gruppo di amici. Un uomo che si identifica come poliziotto lo ferma e lo arresta. Ma il loro viaggio non corre verso la centrale di polizia, bensì attraverso una Roma notturna, fatta di supplì, cimiteri e osterie.
Notte Fantasma parte da un soggetto semplice e lo elabora bene. Il film è purtroppo a volte schiacciato dalla performance dirompente e dai dialoghi, comunque ben scritti, di Edoardo Pesce, che interpreta il poliziotto fuori dalle righe che rapisce il giovane Tarek.
Il film si legge chiaramente dall'inizio alla fine, senza troppi colpi di scena e si comporta esattamente come ce lo si aspetterebbe. Resta comunque un film godibile, piacevole e diverso per la tipologia produttiva italiana. Sarebbe bello vedere questo genere di film girati anche fuori dal monopolio del cinema romano che rischia di appiattire a macchietta ogni personaggio, seppur complesso e ben pensato.

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