La scuola cattolica descrive il prodotto culturale di una visione politica in senso stretto, che garantisce sotto traccia un vivaio tanto al nuovo modello autoritario quanto alla silenziosa complicità della moltitudine dei suoi servitori, per i quali la ragion di Stato (sotto le spoglie democrazia) sostituirà i feticci clericali (la cui funzione pedagogica è assolta). Essere “iniziati” a quel determinato assunto di valori, nella condivisione tacita dei suoi codici, ne implica un’appartenenza totalizzante, pena l’atteggiamento vessatorio (magari sottoforma di certa virile goliardia) a cui il mondo adulto appare sempre senziente. Il film ha la giusta intuizione, le cose effettivamente avvengono dove e come le vediamo rappresentate e lo scenario ha tutti gli elementi simbolici e concreti per mostrarci dove può spingersi il limite strisciante dei rapporti, fino al momento in cui limiti non ce ne saranno: l’assimilazione al mondo adulto. E’ l’investitura alla libertà di concepire (attivamente o passivamente) qualunque atto nella “mostruosa, inconfessabile contraddizione di perpetuare il male per garantire il bene” (Il divo), quale distillato della maturità cui sarebbero destinati i protagonisti dell’affresco di Mordini. Parole, quelle del Divo, che sono parafrasi evidente del “Todo modo para buscar la volontà divina” evocato da Elio Petri nel 1964 in Todo modo a sradicare l’anima del cattolicesimo democristiano: il diritto (divino) di agire aldilà del bene e del male di cui si appropria una classe dirigente all’interno dell’apparato democratico. Il film ne inscena la grottesca rappresentazione (dando visionario seguito alla necessità di processare la DC denunciata da Pasolini) nel rito di espiazione collettiva della dirigenza del partito, riunita per l’occasione negli esercizi spirituali ignaziani. Tuttavia su quell’altare non vedremo altro che la reiterazione sempre più efferata delle colpe fino all’epilogo di una condanna perentoria e definitiva. Colpe che solo in virtù dell’immunità del proprio rango possono essere confessate: lo stesso “mea culpa” che risuona nel Divo (di cui il film di Petri a mio avviso non può che essere stato d’ispirazione) al cui monologo appartiene qui ogni citazione.
L’autoreferenzialità incensata dal divino rappresentata in Todo modo è dunque un filo sottile ma robusto che lega i mondi esplorati dai film di Sorrentino e Mordini nei diversi gradi e momenti del proprio sviluppo. Il Divo fa due passi avanti, proiettandone la spregiudicatezza nella forma più compiuta, arrivando a evocare la lunga stagione dell’estrema ratio quale opzione risolutiva per conservare il controllo della società con ogni mezzo (todo modo, appunto). E questo esige un’applicazione quasi ascetica, con il distacco e la motivazione necessari per elevarsi al di sopra della colpa in nome di una causa più giusta. Un’orrenda fede ideologica negli atti stessi che si è chiamati a determinare. Nella Scuola cattolica vediamo quindi allevare in erba proprio quanto già compiuto nel Divo nell’atto di aver officiato il sacrificio con i paramenti sacri del potere
La responsabilità diretta o indiretta
per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984,
e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti.
A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso.
Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa,
per mia grandissima colpa.
Questo dico anche se non serve
Ora, seguendo il merito della Scuola Cattolica, per comprendere meglio cosa attraversò quelle generazioni ci serviamo della cronaca con la sua capacità di condensare i fatti. Il 30 settembre 1975 nell’ “incidente” del Circeo è solo sfuggita di mano la pulsione, ancora acerba, di un’adolescenza fomentata metodicamente a riconoscere sé stessa nel dominio della colpa sull’innocenza: un inconfessabile peccato originale fidente nel diritto alla grazia in nome di un’appartenenza eletta. La frustrazione che deriva dall’impossibilità di empatizzare con il mondo e l’onnipotenza di poterne per questo decidere qualunque destino. I due film sembrerebbero idealmente rappresentare momenti diversi di un’unica parabola. La scuola cattolica naturalmente vi allude attraverso volti, gesti e parole come un fotogramma dal quale tutto è passato, perché ai nostri occhi il presente non sia solo l’ultima, definitiva diapositiva della realtà. Viene raccontato come sia possibile plasmare non solo futuri uomini di potere o del potere ma una tenace cultura del potere. Ma si formò anche un senso comune assuefatto all’autoritarismo al punto di giustificarlo, magari accogliendone gli effetti come necessari o semplicemente subendone l’intimidazione. E’ il rapporto tra “dominante” e “dominato” così come è iniettato nella cultura che definisce una società. Nessuno nasce con tale nozione, occorre esserne preparati ad arte dalla crudeltà della Storia e dei suoi carnefici, sistematicamente intenti a disinnescare l’amore per la verità “col silenzio finale”, probi artefici del senso comune e della rassegnata indifferenza della moltitudine
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi)
di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede,
di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace;
che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà,
la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere.
[P.P.Pasolini, “Cos’è questo golpe? Io so” – stralcio, in Il Corriere della Sera, 1974]
Per chi non c’era.
All’indomani del delitto del Circeo la stampa fu testimone di una polemica dai toni abbastanza animati tra Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, quest’ultimo additato dal poeta friulano per essersi scagliato pubblicamente contro gli esercizi mostruosi della gioventù neofascista della Roma bene, in un clima di colpevole impunità per gli esponenti privilegiati della borghesia. Pasolini riteneva superata e falsa l’individuazione della classe borghese quale luogo di una specifica cultura dominante che la distinguesse dalle classi subalterne, laddove queste ultime ormai erano state omologate all’imperante borghesia neocapitalista. Egli sosteneva – testimoniandolo – che i figli del sottoproletariato avendo perso l’innocenza dei padri, si cimentassero e fossero capaci della stessa violenza e delle sue truculenti pratiche, essendo in tutto ormai affini ai propri omologhi della gioventù cresciuta nella ricchezza. In sostanza, erano stati definitivamente plagiati al modello di benessere borghese attraverso il dominio della cultura dei media. La discussione si inseriva in una coda di contrapposizioni tra due personaggi di assoluto spicco della cultura italiana che ne evidenziava innanzitutto l’approccio differente nella visione quanto nello stile. Calvino, dal canto suo, abbracciava una posozione politicamente pragmatica: egli apprezzava della modernità proprio l’assimilazione delle classi subalterne alla borghesia, vedendone il riscatto e l’emancipazione – culturale e materiale – dal sottosviluppo cui erano state relegate nell’Italia preindustriale (e di cui lo scrittore Corsaro invece vedeva l’irreparabile perdita delle radici storiche e antropologiche: in una parola, umane). Nella propria ortodossia entrambi coglievano aspetti concreti e comunque validi: tanto il problema del superamento del sottosviluppo quanto quello dell’omologazione culturale meritavano altrettanta attenzione, nella necessità di una visione critica che mai tornò ad essere di tale profondità. La dicotomia Pasolini - Calvino è tutta giocata sul binomio dell’analisi politica e della sensibilità poetica: significato e significante; progresso sociale o regresso antropologico; purezza stilistica o linguaggio volgare. Diremmo poetico o prosaico: che è diverso da dire “poesia” e “prosa”, perché poetico è ciò che comunica direttamente con l’inconscio, prosaico è quanto esprime la razionalità: è un discorso intrinseco ai simboli propri del linguaggio e non attinente allo stile linguistico tout court.
Ad oggi, mi sento di poter affermare che il progresso sociale rilevato da Calvino non contraddica affatto la mutazione antropologica denunciata da Pasolini: sono contenute l’una nell’altra. Entrambi gli intellettuali rilevano la medesima realtà, solo cambiano i valori di giudizio. Non si tratta dunque di capire chi avesse ragione ma i presupposti dei due diversi punti di vista e, casomai, quale oggi possa considerarsi il più fecondo alla luce della Storia. Riguardo Pasolini però quello su cui sento di dovermi soffermare - aldilà del tema dell’azione omologante del neocapitalismo - è che il suo merito principale e quindi la sua eredità sia quella di aver "visto" e "sentito" la Storia come la forma viva assunta dalla realtà nei suoi contenuti più profondi, che vuol dire percepirla attraverso l'individuazione, la decodificazione e l'interpretazione degli archetipi individuati in coloro che la “incarnano” (io la chiamo “antropostoria”).
Da qui la sua continua rievocazione del mito (a partire da quello cristiano) quale “radice” dell’umano comunque declinato. Dunque in quello sguardo rivolto al passato non c'è proprio nulla di banalmente nostalgico, come sosteneva Calvino, perché si tratta di un passato che affonda le sue radici ideali fuori dal tempo e che egli vede storicamente incarnato dal mondo rurale e contadino permeato dall’ethos della cristianità (vista ovviamente nella sua dimensione sacra e mai banalmente confessionale). Diversamente Calvino nel suo pragmatismo semplicemente vedeva la società a monte di quell’individuo particolare che invece abitava la sensibilità di Pasolini. Tuttavia sarebbe invero puerile non riconoscere entrambi, il problema è poi quello di calarli nel logos della realtà: a ciascuno il diritto e il piacere di cimentarsi.
Credo che il disprezzo di PPP per la società dei consumi e dei media (condensata proprio in quella cultura che per lui ormai informava la società tutta) sia dovuto alla fagocitazione da parte di quest’ultima di quegli stessi archetipi caratterizzanti l'umanità nell’essenza colta dal suo sguardo di poeta, producendo le identità massificate, vuote e inautentiche del mondo contemporaneo: il “regresso antropologico” che svuota dei significanti umani - infine - la Storia stessa; ciò che il poeta definì lo “sviluppo senza progresso” alludendo alla penetrazione dei feticci del consumismo nelle culture tradizionali con la conseguente perdita del loro patrimonio di umanità ad onta del miglioramento delle condizioni materiali su un piano però egoisticamente individuale (e quindi illusorio).
Ora - tanto per chiudere con una divagazione che vada oltre la divergenza con Italo Calvino - ritengo che la visione intrinsecamente poetica di Pasolini lo renda l'intellettuale italiano più importante e prezioso insieme con Dante, per la visione che hanno lasciato in eredità del mondo Occidentale cristiano. Non a caso i due si pongono agli estremi di quell’ “età sepolta” (durata quasi mille anni) essendo vissuti rispettivamente all’apice e al tramonto di una società che si è identificata in tutto con il cristianesimo, sentito quale dimensione più alta dell’essere umano; ne hanno incarnato profondamente i valori nella narrazione critica quanto apologetica del proprio tempo essendo allo stesso modo perseguiti dal potere. E testimonianza di tale affinità infine risiede nella cifra linguistica: il volgare. L’opera di entrambi ne acquisì il segno, come testimonianza pura. Non avrebbero potuto esprimere il proprio tempo con una sistema linguistico differente da quello dei suoi interpreti. E come la lingua di Dante, il linguaggio di Pasolini rintraccia il volgare nei sembianti del mondo che egli vive, resi soprattutto nella poesia (dialettale o in versi liberi) e nel cinema quale “rappresentazione della realtà attraverso la realtà” (come dirà egli stesso) restituendone la più inconfessabile autenticità alla dimensione poetica del mito.
a proposito "dell'età sepolta (durata quasi mille anni) ":
RispondiEliminain una recente intervista Giovanni Lindo Ferretti dice che la parte contadina dell'Italia ha vissuto nel medioevo, fino all'apparizione della televisione e delle strade asfaltate.
A Nicola non si pubblica il commento, non so che sta succedendo a Blogger ultimamente
Eliminalo incollo io
"Sì, è un fatto che la storiografia spiega banalmente. l’Italia non è stata protagonista di nessuna delle vicende rivoluzionarie che hanno costruito l’Europa moderna, sotto il cono d’ombra del potere della Controriforma e quindi di un’irraggiungibile unità nazionale. Lo sviluppo industriale è quindi piombato su un retaggio medievale certamente imperante (e ancor più nelle condizioni di vita del Sud contadino), assimilandone a propria volta i valori innanzitutto culturali in senso anche politico. L’industrializzazione, l’urbanizzazione e lo sviluppo tecnologico hanno galoppato senza quella cultura del diritto laico e liberale (non liberista) che portasse tutti a fruirne con pari dignità e consapevole partecipazione. Il modello di potere era ancora quello antropologicamente legato alla società medievale che – come costume radicato – poteva sopravvivere all’interno di qualunque sistema all’apparenza democratico e di diritto (così come è avvenuto in Italia). Mi riferisco al potere personale di un soggetto su un altro: il vassallaggio. Motivo per cui – banalmente – il diritto è sempre stato considerato un favore concesso da qualcuno che agisce all’interno di un proprio “dominio” o “territorio” personale e questo a ogni livello di rapporti. Insomma, il cittadino non ha ancora sostituito davvero il suddito e l’obbedienza è ancora un valore moralmente necessario nei rapporti con l’autorità per ottenerne benevolente attenzione. Sappiamo bene il prezzo di voler mantenere quest’ordine nel dopoguerra, quando il diritto fa davvero breccia per la prima volta nelle masse che cominciano ad accorgersi di un mondo diverso e della possibilità di somigliarvi. Ormai voler mantenere quella cultura del potere implica rimedi estremi a partire dalla formazione degli individui fino a un’estrema ratio mai negoziabile, come l’ho chiamata. Nelle righe che ho scritto sulla Scuola, solo il modesto tentativo di tirare le fila di come ce ne ha reso conto il Cinema."