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2.5.23

Recensione: "Beau ha paura" - Al Cinema 2023 - 8 -

 

Il terzo film di Aster rappresenta un notevole cambiamento rispetto ai primi due.
"Beau ha paura" è un film "alla Kaufman", metaforico, grottesco, un insieme di mille cose, un viaggio delirante nella mente e nel tempo.
La storia di un uomo impaurito da tutto e che vive in un perenne senso di colpa.
Tutto questo a causa di una madre totalizzante, egoista, esaltatrice di un amore (il proprio) che in realtà non è mai riuscita a dare.
Beau è sempre stato il suo "paziente" preferito, il bimbo (e l'uomo) malato e impaurito che lei con il suo affetto e i suoi prodotti farmaceutici sapeva curare.
Un film lungo, forse troppo lungo, e che non ha la forza, per tornare a sopra, di raggiungere l'esistenzialismo di un Kaufman.
Eppure un film impossibile da dimenticare e sul quale si possono scrivere interi saggi per quante cose ha dentro.
Io ho provato a mettere qua tutte le infinite suggestioni che mi ha dato.

Beau è un bambino che si è perso nella hall di un centro commerciale (o di un hotel, non ricordo).
La madre lo cerca, disperata.
Beau è al piano di sopra e nel vederla disperata si nasconde dietro una colonna.
L'Accusa parla di figlio degenere che non solo prima fa lo scherzo di scomparire a sua madre, ma poi nel vederla cercarlo continua a stare lì, nascosto.
Ma non è vero.
La verità è che Beau ha paura.
Ha paura di uscire da dietro quella colonna, la paura di tornare da quella madre così disperata, la paura che si arrabbi.
In questo minimo ma gigantesco ricordo che viene "trasmesso" nel grande finale del film c'è, almeno per me, quasi tutto il significato dello stesso.
Perchè "Beau ha paura" è il film che racconta di un bambino mai amato, di un bambino sempre odiato, di un bambino usato come parafulmine della propria incapacità d'esser madre e del proprio egoismo.
Una madre che celebra sè stessa, che celebra il proprio amore per il figlio, che celebra la propria forza nell'aver superato tutte le difficoltà, che rinfaccia le cose che ha perso a causa sua, che esalta la propria capacità, nonostante tutto, di aver amato quel figlio come nessuna.
E quel bambino (non) crescerà con quest'ombra gigantesca sopra di lui.
Avrà paura di qualsiasi cosa perchè cresciuto come una colpa ("Tuo padre è morto quando ti ho concepito", cosa che ricorda molto anche Babadook), perchè succube di una madre totalizzante che fagocita tutto, la sua possibile felicità, il suo possibile futuro, l'amore, il sesso, tutto.
Una madre a capo di un'azienda che produce medicinali e dispositivi per la sicurezza, che quindi vende salute e benessere al "mondo" e in tutte le pubblicità dei suoi prodotti mette il faccino del suo bimbo malato, del suo bimbo del quale lei si prende così cura (tanto che il film mi ha ricordato, in una delle tante possibili letture, anche quella della Sindrome di Munchausen per procura).
Beau cresce quindi consapevole di esser malato, consapevole che ogni cosa può ucciderlo, quel dolce che vede in vetrina con il suo primo e unico amore, il collutorio bevuto per sbaglio, una medicina presa senz'acqua fino ad arrivare al sesso, quel sesso che arrivato a 50 anni non ha mai fatto perchè, al momento del primo orgasmo, sa che morirà.
Come suo padre, come suo nonno, come il suo bisnonno.
Beau bambino dietro quella colonna è ormai un essere vivente devastato, un ragazzetto che anche se si è perso, anche se ritrovandosi solo ha avuto veramente paura, anche se "parte offesa", sa che ha fatto star male sua madre, sa che ha ferito la Regina.

Ari Aster gira un film diversissimo dai suoi due precedenti, un'opera "alla Kaufman" (ma anche alla Kafka), geniale e grottesca, che è una miscellanea incredibile di generi, di atmosfere, di personaggi, di collassi temporali, di simboli.
Non raggiunge i livelli di Kaufman perchè nessuno può raggiungere i livelli di Kaufman.
Non ha nè il suo genio nè la sua "pesantezza", intendendo con pesantezza non quella che causa nello spettatore ma il peso specifico della singola opera.
"Beau ha paura" fa collassare dentro di sè due capolavori come Synechdoche New York e The Truman Show senza riuscire ad arrivare alle vette di nessuno dei due ma avendo una sua notevole personalità, una sua urgenza di raccontare qualcosa di importante, una sua forza.
E' sicuramente il film più complesso di Aster e, come accade sempre per i film complessi, anche quello meno coeso, quello con più ferite scoperte dove gettare il sale della critica.
Ad esempio Midsommar, opera quasi perfetta, riusciva anche a suggerire straordinari ed importanti sottotesti (forse persino più dolorosi di Beau) in una struttura al tempo stesso niente affatto banale e molto solida, strutturata, granitica.
"Beau ha paura" sembra invece un film costruito della stessa materia di una seduta dallo psichiatra, e per questo è "debole", e per questo è "tante cose insieme", e per questo ha la volatilità di un ricordo, di una riflessione, di un trauma, di un sogno.
E' un film dove è necessario rimettere insieme i pezzi, dove assistiamo continuamente alla disgregazione del puzzle di una vita, quella di Beau, e al disperato tentativo di ricostruirlo quel puzzle.
Ma è come se i pezzi ci siano stati rubati o l'immagine della scatola da replicare non sia la nostra ma quella che qualcun altro ha disegnato per noi.
E la ladra dei pezzi o la perversa disegnatrice è nostra madre.

Anche a livello formale il film è questo accumulo di tante cose, quasi sempre diverso da sè.
Non a caso una delle tante possibili letture (soluzioni) è proprio quella che l'intero film sia una seduta dal proprio psicologo, una seduta che, attraversando tutti i propri traumi, ci porta infine ad arrivare (o provare ad arrivare) alla "salvezza", che è il riuscire ad "uccidere" la propria madre attraverso la consapevolezza che quelli sbagliati non eravamo mai stati noi, che se ci eravamo persi e stavamo dietro ad una colonna eravamo noi quelli in difficoltà, che se abbiamo odorato la biancheria di lei non abbiamo fatto niente di male.
No, se abbiamo paura del mondo, se abbiamo paura di tutto, se vediamo la Morte poterci colpire ovunque è perchè qualcuno ci ha "costruito" nel modo sbagliato, facendoci sempre sentire in colpa, tarpandoci ogni volta le ali, privandoci sin da giovanissimi non solo delle nostre felicità ma addirittura della possibilità di averne.

Ora, secondo me le letture principali del film sono sostanzialmente due, una più "reale" (e inquietante), una molto più metaforica.
In realtà sono due letture assolutamente complementari, che nello stesso momento che ne scegli una puoi comunque inserire dentro l'altra.
La seconda, abbastanza ovvia, è che tutto il film sia nella testa di Beau (del resto quando ci immaginiamo cose si dice anche "farci un film" no?).
Ogni cosa che vede, che gli accade, che succede, ogni personaggio che incontra sono qualcosa "dentro la sua testa", sono suoi traumi reificati, sono suoi demoni, sono sue speranze recise o altre disperatamente ancora in piedi.
Mi riferisco ad esempio a tutta la rappresentazione teatrale nel bosco, che altro non è se non la vita che Beau avrebbe voluto avere o comunque quella che sotto sotto spera ancora di avere. Ma la figura della madre è così potente e radicata che anche in quella vita "ideale" accadono impedimenti o tragedie che ne minano la serenità. E' come quei sogni bellissimi che ogni tanto facciamo ma che nascondono dentro "storture", qualcosa che non torna.
Emblematico quando i figli chiedono a Beau come abbia potuto "averli" se non ha fatto mai sesso. 
E' come quando, appunto, in un sogno iniziano a inserirsi elementi "reali" che, alla fine, quel sogno lo interrompono.
Un sogno-rappresentazione che cominciava con la morte della madre (necessaria per essere felice), con la rottura delle catene che lo tenevano fermo e bloccato (non solo metaforiche, ma anche reali), con quella voce che racconta e lo guida (e qui "Beau ha paura" ricorda ancora di più SNY ma anche film dove il soggetto "viaggia" sotto ipnosi, come il finale di OldBoy ed Europa di Trier).
Eppure, come dicevo, ci sono impedimenti, c'è una prigione per una colpa che non ha (il mantra della sua vita, e qui torniamo a quel bambino dietro la colonna), c'è un cane rabbioso che lo insegue, c'è quella finale consapevolezza riguardo i figli.
Perchè la mente di Beau non può e non potrà mai essere "leggera" e libera, non potrà mai essere una mente felice, nemmeno in questo luogo-altro (non solo il teatro ma il bosco stesso) che la sua immaginazione ha generato.
"Ho cercato la mia famiglia tutta la vita" dice Beau al termine della rappresentazione.
Che è un pò come dire di aver cercato la serenità e la felicità tutta la vita.
Senza riuscirci.
Anzi, senza poterci riuscire.


Questa parte del film a livello formale è davvero bellissima.
Beau si muove attraverso della specie di pop-up o dei veri e propri cartoni animati, altra metafora di come quella vita non potrà mai essere reale.
Ma è la stessa comunità nel bosco a dargli serenità, e non è un caso che sia formata da orfani (come sotto sotto spera di essere Beau, e qui andiamo anche alle prime frasi con lo psichiatra) e la persona con cui fa amicizia sia incinta (simbolo di nuova vita ma anche di sesso compiuto).
Orfano e una donna incinta, tutto quello che Beau vorrebbe.
"E' la mia storia!" urla infatti Beau, ma purtroppo deve subito tornare alla tristissima realtà quando l'ex veterano (incredibile che ritrovi subito l'attore di As Bestas) viene e distrugge tutto, in una scena che sa di Vietnam.
Non ho amato quel personaggio e non l'ho ben capito.

In ogni caso dopo questa lunga digressione sul sogno-teatro torniamo a noi.
Quindi tutto quello che vediamo è frutto dell'immaginazione di Beau, nel bene e nel male.
Del resto sin dall'inizio lo vediamo vivere in un mondo che flirta continuamente con la morte, dove ci sono corpi per strada che a nessuno interessano, dove la gente si butta dai palazzi e viene filmata ridendo, dove ci si accoltella a un metro da gente che balla e ride.
E' un mondo malato e delirante che è perfetta metafora dell'ipocondria di Beau (ma che bella la scena per cui pensa di morire senz'acqua e si "butta" fuori per andare a comprarla, con quell'angoscia che mentre cerca gli spicci tutti gli invadano la casa).
Ipocondria che, però, non è malattia pura ma conseguenza della manipolazione materna.
Beau ha paura di tutto perchè così gli è stato insegnato e perchè solo così la madre poteva controllarlo, averlo tutto per sè, essere il suo paziente speciale.
E' un mondo allo sfacelo, è un palazzo allo sfacelo (mi ha ricordato High Rise) perfetto simbolo della mente distrutta di Beau.
E quella scena bellissima delle letterine del vicino, ancora una volta, ci rimandano a quel bimbo dietro la colonna.
E' lui quello impaurito, è lui la vittima, ma la situazione viene ribaltata, a lui viene data la colpa.
E anche quella casa che è forse l'unico luogo dove poter vivere più serenamente la propria malattia (perchè il mondo di fuori è solo morte e distruzione) diventa ormai non più sicuro.
Tanto che, in una scena quasi identica al film Madre! alla fine la casa viene invasa da tutti, lasciando soltanto distruzione, anche lì.
Insomma, senza che io vada ad analizzare tutto è evidente come ogni singola scena possiamo leggerla come parto della mente di Beau e metafora di qualcosa.


Eppure, e qui mi sono davvero esaltato nell'essermene reso conto mano a mano, l'intero film può essere visto anche come un gigantesco Truman Show per cui la ricchissima e potentissima madre ha messo su una vita fittizia dove controllare il proprio figlio e fargli vivere continuamente dei traumi.
E tutto torna.
Intanto il quartiere dove vive Beau sembra veramente una quinta teatrale, sia per edifici sia per i personaggi assurdi che lo vivono (tra l'altro sempre gli stessi tutti i giorni, come in Truman).
E, se ci pensate, la madre, tra le altre cose, questo faceva, costruiva quartieri (c'è una pubblicità al riguardo).
Un mondo dove un uomo nudo uccide continuamente persone per strada ma nessuno lo ferma.
Però quando è invece Beau ad uscire nudo per strada viene subito fermato dalla polizia, malgrado l'assassino sia a pochi metri, come una vera e propria recita.
Ma torniamo a qualche momento prima.
Beau non è potuto andare a trovare la madre perchè gli hanno rubato valigia e chiavi.
E chi gliele ha rubate?
Probabilmente quell'uomo grassottello che vediamo fuggire, lo stesso uomo che troveremo poi a casa della madre.
Insomma, un attore ha impedito a Beau di partire. E questo per farlo sentire in colpa, per farlo sentire ancora una volta "sbagliato", per permettere che la madre, ancora una volta, avesse ragione (solo lei sa amare, Beau non è capace e non l'ha mai amata, dice).

Poi Beau viene investito e da chi viene soccorso?
Dalla famiglia di un uomo che poi, scopriremo, è anche lui un dipendente della madre (lo si vede, insieme ad altri, nelle fotine che formano la foto grande della stessa. 
Tra l'altro in quel collage ho visto 2/ personaggi incontrati prima ma è facile che ci siano stati quasi tutti).
E quest'uomo che finge di accudirlo in realtà che fa? 
Come in Truman Show gli attori impedivano al protagonista di andar via lui fa lo stesso, rimanda il viaggio verso il funerale della madre di Beau o lo boicotta (tra l'altro nel finale l'Accusa dirà che era invece Beau a non voler partire, questo sempre per la questione di manipolazione della realtà, come il bimbo sulla colonna. Non a caso l'attore farà dire a Beau una frase ambigua al riguardo).
Come se non bastasse a Beau viene messo un braccialetto sulla caviglia per monitorare i suoi spostamenti, a suggerirci una volta di più questo controllo assoluto sull'uomo.
Eppure, anche qui ESATTAMENTE come in Truman, c'è "un'attrice" a cui quel gioco non sta bene, ed è la madre di quella famiglia.
Prima sussurra all'orecchio di Beau "Ci sono le telecamere", poi gli lascia un bigliettino con scritto "Non ti colpevolizzare".
Una figura identica a quella di Sylvia, la ragazza che si innamorò di Truman e che provò a dirgli, anche attraverso bigliettini, che era tutto uno show.
Ma anche quella madre che in qualche modo stava, per umana pietas, aiutando Beau poi si scaglierà contro di lui alla morte della figlia, figlia che secondo me è uno dei pochi personaggi "reali", non attori, semplicemente una ragazza che stava vivendo in un mondo malato, con dei genitori malati (un mondo dove si prendono medicine dalla mattina alla sera del resto) e che alla fine soccombe.
Quel "vieni a fondo insieme a me" alla fine è come un dire "solo io e te siamo reali, distruggiamoci insieme"
E non dimentichiamo nemmeno Elaine, donna che probabilmente la madre ha "assoldato" da ragazzina, quando vide che il giovane Beau si innamorò di lei.
Adesso anche Elaine lavora per Mona, anche lei ha un ruolo (non a caso è lei ad essere intervistata dal telegiornale), anche lei è l'ennesimo pupazzetto che quella terribile donna usa per distruggere il proprio figlio, quel figlio che non poteva permettersi mai di contraddirla, quel figlio-colpa che doveva al tempo stesso essere sia suo sfogo sia suo trofeo da esposizione, quel figlio che quando poco poco cercava una minima ribellione veniva rinchiuso in soffitta ("Non è un sogno, è un ricordo").
Ma del resto questa lettura alla Truman ha la sua conferma ed esaltazione nel finale, finale in cui ci viene mostrato come sempre ci fossero state delle telecamere a riprendere la vita di Beau.
E, de resto, cos'altro è quello se non un mega studio televisivo?

Ecco però che, come dicevo, questa lettura non solo può essere affiancata da quella precedente ma anche ritrovarsi completamente dentro di essa.
Perchè, se ci pensate, alla fine questa macchinazione, questa immensa quinta teatrale, questi personaggi attori, questa "sceneggiatura" perversa che la madre ha scritto per il proprio figlio, questa vita-show possono tranquillamente essere comunque solo dentro la testa di Beau.
Il passaggio è semplice, la sua coscienza sotto sotto sa che la madre lo manipola, sa che è lei a gestire tutto, sa che anche quando Beau vorrebbe manifestare affetto ed amore lei glielo impedisce (vedi le chiavi) , e quindi tutta questa sotterranea consapevolezza di Beau crea questo mondo-trappola dove lui è attore principale incapace di reazione.
Come se Truman avesse creato lui stesso Trumania dentro la sua testa come metafora di una vita che non gli viene fatta vivere.


Sapevo che un film così mi avrebbe portato a lunghe ed estenuanti interpretazioni (e quante stronzate potrei dire ancora...).
Ma prima di chiudere, uscendo dall'analisi, ci tenevo a dire come ho trovato questo film bellissimo sì, ma incapace di darmi quella scintilla per farmelo amare incondizionatamente.
Troppo lungo, con alcune parti dilatate (ad esempio quella di lui ragazzino secondo me), con alcuni personaggi poco riusciti (il veterano proprio non mi è piaciuto, al di là del significato metaforico che potrà avere) e, pur essendo straordinario nelle tematiche, ecco, non ho avuto quel senso di "esistenzialismo" che un film così credo potesse o volesse dare.
Come se la vicenda di Beau alla fine io l'abbia percepita come la "sua" vicenda e non come quella di tutti "noi".

Però che bello, che grande Phoenix, che spettacolo quella prima parte nel quartiere distrutto e in quella casa, che potente la rappresentazione teatrale, che interessante tutta l'ultima parte con la madre.
Perchè Beau adesso è arrivato lì, ad una specie di "resa dei conti", reale o metaforica che sia.
Prima farà sesso con Elaine e scoprirà non solo la bellezza della cosa ma anche che, a differenza di quello che ha pensato per tutta la vita, non ci si muore.
Non sarebbe quindi mai morto se avesse fatto sesso prima, anche questa volta era solo un trauma che la madre gli aveva inculcato per non renderlo felice, per non vederlo con nessuna a parte lei, per vendicarsi di lui, per esaltare il suo egoismo.
Ma, anche qui come nel sogno-rappresentazione, la felicità per Beau non può e non potrà mai essere completa. 
Se lui scopre di essere ancora vivo e di quanto sia stato magnifico quel sesso un prezzo da pagare ci deve essere, ed è la morte di Elaine (anche qui leggibile sia metaforicamente sia come eventuale messinscena pensata dalla madre).
Comincia poi lo scontro finale dove la madre vomiterà a Beau di tutto, con quel suo schifoso egoismo e capacità di manipolare completamente i reali fatti (cosa che scopriremo poi nel finale con quei video che proietta l'Accusa).
E Beau "tornerà" nella soffitta dove sua madre lo puniva quando questo chiedeva soltanto di sapere la verità sul padre (quasi sicuramente non morto durante l'orgasmo ma storiella raccontata dalla madre a Beau perchè quell'uomo l'ha subito lasciata).
Quel padre che forse alla fine è solo un gigantesco mostro con i testicoli gonfi (del resto l'attore della famigliola felice proprio questo a Beau aveva detto, di avere una malattia ai testicoli, troppo gonfi).
Testicoli gonfi perchè pieni di voglia di vivere, pieni di uno sperma che qualcuno ci ha proibito di usare per tutta la vita.
Beau non ce la fa più e, forse, uccide la madre.
Ma quell'uccisione che doveva essere salvezza così non sarà, quel mostro di madre è più forte di qualsiasi cosa.
E quindi Beau comincerà un notturno viaggio in una barca che, attraverso una simbolica caverna, lo porterà nel ventre della madre (del resto il film nasce all'opposto, col parto), dentro all'apoteosi del suo show.
Quella madre che quindi è sopravvissuta o che, metaforicamente, sopravvive sempre e comunque alla sua morte (perchè anche se uccisa non se ne va via, anzi, aumenta il senso di colpa di Beau).
E Beau riceverà il giudizio finale.
Adesso sa di non essere sbagliato, adesso capisce che è stato manipolato, adesso sa che il bambino dietro la colonna si era davvero perso ed era davvero spaventato.
Ma la sua Difesa è troppo debole, e viene spazzata via.
E non serve a niente urlare disperatamente "Aiutatemi per favore" perchè quella vita è segnata, lo è sempre stata.
Beau muore.
E una madre piange.
Forse sono lacrime addirittura vere, forse per la prima volta quella madre si rende conto di tutto, forse per la prima volta si accorge che lo amava davvero.
Ma ormai è troppo tardi, l'ha ucciso 45 anni prima

11 commenti:

  1. Di tutti i film che ho visto in queste tre ore di proiezione me ne sono piaciuti soltanto 3: la vita di quartiere, la vita nella famiglia di impasticcati e il giudizio finale. Ho trovato il resto un infinito supplizio per lo spettatore, la storia nel bosco era stucchevolmente metaforica, difficile da seguire con piacere, così piena da sembrare vuota, eccezion fatta per la meravigliosa sequenza “cartoon”.
    la tua ipotesi truman show mi ha convinta, ci sto. Mi piace, fila, s’incastra bene, dá ai film che ho visto un senso che appartiene.

    Nell’ inquadratura dei dipendenti della madre mi sono sforzata di cercare qualcuno già visto nel film e non sono riuscita a riconoscere nessuno, una grossa seccatura >:(

    Una decina di persone hanno abbandonato la sala a metà proiezione, per mia esperienza dopo “la casa di Jack” è stato il film in cui ho visto venir gettate più spugne

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    1. Sì, la rappresentazione nel bosco (in rece non l'ho detto) è sembrata molto lunga e faticosa anche a me. Da come ho scritto sembra che l'abbia trovata una grande scena ma in realtà mi riferivo visivamente (oltre al fatto che era da analizzare)

      Guarda, io nel collage ho visto il padre di famiglia, Elaine e un altro uomo di cui non so il nome già visto. Ma molto probabilmente c'eran tutti, o molti ;)

      riguardo l'uscita dalla sala di solito è questione di qualità (e se mi dici che è successo con La Casa di Jack è per me una conferma ;) )

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  2. Bello ma impegnativo e, almeno per me, non del tutto riuscito, troppo ridondante a tratti. Peccato, perché ha delle sequenze potentissime e poteva risultare ANCORA più angosciante. Ne parlerò domani sul blog.

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    1. Allora leggerò!

      Meno male, ero sicuro un film così l'avresti odiato ;)

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  3. Ari Aster è incontenibile (meno male!).
    mi sembra più Jordan Peele che Ari Aster, a tratti.
    hai ragione,tutto vero che forse è un gigantesco Truman show, una declinazione dell'ossessione del controllo.

    https://markx7.blogspot.com/2023/05/beau-ha-paura-ari-aster.html

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    1. Guarda, se non l'avessi saputo mai avrei detto che fosse un film di Aster...

      Ma forse è un bene, essere diversi da sè nel cinema è sempre buona cosa (se riesci a farlo bene)

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  4. Condivido completamente caro Giuseppe, ho avuto le stesse tue sensazioni vedendo il film.
    Aggiungo "La città delle donne" di Federico Fellini ai film da te citati come simili -soprattutto nel finale, dove c'è la stessa scena del processo del protagonista- Ha anche la stessa struttura sgangherata, con le scene che si susseguono per associazioni libere...

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    1. Eh, l'avessi visto...

      Ma sempre bello che un riminese citi Fellini...

      speriamo tutto bene da voi Davide!

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  5. (Parte 1)
    Ciao Giuse, recupero in ritardo per il sondaggione questo bellissimo e complesso film. Al solito mi ritrovo super d’accordo con la tua meravigliosa recensione e analisi, anch’io ho pensato subito sia a quel capolavoro del cuore che è Synecdoche New York sia a The Truman show, anche a me sono venute in mente le tue stesse letture (in fondo ho imparato a decifrare il cinema attraverso il tuo blog e le tue parole cariche di poesia) e anch’io condivido gli stessi punti di perplessità (troppo lungo, troppo poco coeso e spesso quindi arriva anche troppo poco al cuore).

    Ari Aster sembra quasi indagare l’origine nevrotica più che l’effetto disturbante dell’emozione più tipica e fondante del cinema del genere, in un uomo che di fatto ha paura di tutto, in un universo che di fatto è ubiquitariamente terrorizzante, saturo di una follia incontrollata che violenta le strade e le persone, in un delirio cinematografico che è un’overdose allucinata eppure lucidissima, senza antidoto né risoluzione alcuna. Quella stessa paura che nel meraviglioso Monsters & co diventava parte integrante (ma non per forza edificante) della crescita dei bambini, in cui mostri professionisti raccoglievano l'energia delle loro urla fabbricando industrialmente paure, materia prima imprescindibile per mandare avanti un'intera città. Ma qui la paura non arriva da un altro mondo attraverso coloratissime porte colorate, la paura è già dentro la nostra casa, tra i nostri più intimi rapporti e contatti. Beau ha paura perché sua madre gliel’ha trasmessa, l’ha reso vittima della sua stessa carne prima che di un carnefice, colpevole della sua stessa vita prima ancora di nascere, un bambino burattino che rispetto a Pinocchio deve essere sempre controllato con i fili, le briglie, forse le catene. Un po’ il destino che attendeva la piccola Annette nel capolavoro omonimo di Leos Carax: una figlia venduta allo sguardo, per l’Ego di chi l’ha messa al mondo, per uno spettacolo di marionette che diventa trasfigurazione divina (quel devastante “You have nothing to love”).

    Le paranoie circondano infatti l’esistenza di Beau: attraversare la strada, dormire di notte, fare sesso, persino una pastiglia senza acqua diventa trauma angosciante, rivolta del mondo contro il suo Ego frammentato, lacerato, forse mai nato (perché all’ombra di uno più grande e ingombrante). Ogni cosa impatta catastroficamente sulla sua quotidianità, asfissia edipica lacerante e irrisolta. Un tormentato spettacolo di vita da mettere in scena solo tragicamente come nel già citato Synecdoche New York, con un finale in questo caso però violento già scritto dalla propria madre-Dio-Regista, demiurgo emotivo (un po’ di nuovo come in Annette) capace di plasmare ogni più minima fragilità con conseguenze apocalittiche: dialoghi, sogni, destini, colpe e fallimenti, si può andare avanti e indietro nella registrazione, ma non si può cambiarne l’esito con il telecomando come accadeva sempre tragicamente in Funny Games.

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    1. (Parte 2)
      Proiettare insomma teatralmente su quel figlio tutta la propria frustrazione auto-celebrativa, renderlo protagonista delle bugie di uno sceneggiato perfetto sulla compassione materna, su cui tutti gli occhi, i microfoni, le telecamere sono puntati. Nessuno guarda Beau, eppure tutti lo guardano dal loro schermo tecnologico (noi spettatori compresi), diventando complici di quell’atto voyeuristico collettivo che nella maternità trova tutto il suo angoscioso senso egoistico e narcisistico. Come in Nope di Jordan Peele l’osservare artificiale consuma la vita di chi si ha davanti, senza pietà alcuna, la telecamera imprigiona libertà e la vende agli occhi capitalistici e consumistici del mondo, diventa illegittimo atto di appropriazione. Lo era in Nope per quell’alieno da guardare, riprendere e quindi rivendicare come proprio, lo è qui per Beau che appartiene a tutti meno che a se stesso.

      Un The Truman Show dove ad essere messa in scena non è la vita perfetta del sogno americano, ma la paura dell’essere figlio di una madre che lo incarna in tutta la sua patologica manipolazione. Un reiterarsi teatrale appunto di traumi che esistono materialmente sul palcoscenico della propria mente, una scenografia infinita di pensieri fisici castrati dalla volontà di potenza della propria madre. La perfetta drammaturgia in cui gli attori non interpretano la propria felicità, ma si fanno carne delle proprie paure e dei propri deliri.
      Come a dirci che la paura è fisica, lo sono i traumi, lo è quella strana psiche che tanti hanno semplicisticamente definito come astratta immaginazione. L’emozione esiste anche davanti agli occhi, solo che per Beau è stata modellata dalla madre. Gli occhi di Beau vedono ciò che lei ha scelto di fargli vedere (e non vedere), la storia del suo dolore, della sua deformata colpa inespiabile che attende un giudizio finale, forse universale, in un’arena amniotica simile per certi versi a quella dei gladiatori romani dove anche lì si compiva il fascino malato e osceno di una morte traumatica spettacolarizzata.

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    2. (Parte 3)
      Forse fin troppo debitore a Freud e alla sua ricca e discutibile collezione di interpretazioni psicanalitiche, Beau ha paura è un incubo ad occhi aperti inventivo e creativo, ipertrofico (e a tratti ridondante) nel sognare come cinema prima ancora che con l’inconscio. Non ci sono differenze tra realtà e sogno, le entità coesistono, più probabilmente coincidono in questo universo schizzato di terrore che ha di fatto plasmato i ricordi come fantasmi della paura.
      "Non è un sogno, è un ricordo” viene intimato a Beau dalla madre.
      Perché tutto il nostro dolore l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Solo che a volte è accaduto per mani di altri, fatte passare per le nostre mani.

      Come già diceva magistralmente in pochi versi Patrizia Cavalli, parlando di un amore diverso da quello materno, e forse non patologico come questo:
      Se ora tu bussassi alla mia porta
      e ti togliessi gli occhiali
      e io togliessi i miei che sono uguali
      e poi tu entrassi dentro la mia bocca
      senza temere baci disuguali
      e mi dicessi: «Amore mio,
      ma che è successo?», sarebbe un pezzo di teatro di successo.

      Un grande abbraccio

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