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25.1.21

Recensione: "Ixcanul" (Vulcano) - Passeggiate, il cinema della poesia - 13 - di Roberto Flauto

 

Torna Roberto con un'altra delle sue stupende recensioni.
Il film sembra bellissimo (poi dalle poche parole che ho letto di Roberto anche di più).
Vi lascio prima alla sua presentazione e poi alla recensione.
Ah, al momento (gennaio 2021) il film è su Chili a 2.99
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Un vulcano. Una piantagione di caffè.
Una famiglia di contadini e braccianti.
Maria, la sua vita, il suo sogno, il destino già scritto.
Un film meraviglioso e potente.


Vorrei prenderle la mano, accarezzarle una guancia, sentire il profumo del vulcano nel suo sguardo.
Nei suoi occhi. Siamo già dentro l’oscurità della vita. In quel denso, vibrante e affamato magma che pulsa nelle vene di questa ragazza di una bellezza tagliente, che attraversa i mondi, viscerale, selvaggia, irrefrenabile. Allora vorrei passeggiare al suo fianco, sulle rocce, accanto a un rivolo di lava bollente, disegnerei un’aurora di fuoco nelle sue mani, così ogni suo saluto sarebbe l’annuncio di una nuova nascita. Ma non ce ne sarebbe bisogno, perché la bellezza è intrinsecamente genesi. Anche se non sorride mai. Eppure quanto desiderio scorre sotterraneo, quanti sogni che urlano, fino a causare terremoti cardiaci, rivolte dell’anima, figlia di un cuore che batte e vince su tutto e tutti.
Il suo viso. Quella labbra. Lo sguardo basso.

Lei si chiama Maria. Ha diciassette anni. La sua è una povera famiglia di contadini che vive in una campagna alle pendici di un vulcano, e lavorano in una piantagione di caffè. Siamo in Guatemala, lontani dalla “grande città”. Maria e i suoi genitori sono di origine Maya, non hanno praticamente niente, non parlano nemmeno lo spagnolo, e non conoscono che qualche briciola di quella civiltà che appare distante anni luce. Sembra di essere in un altro mondo, e per certi versi sembra di essere in un mondo altro. Di certo, Maria è affetta da una malattia incurabile: è una sognatrice. È Alice e vuole (deve) attraversare lo specchio, che in questa storia ha le fattezze di un vulcano che si erge maestoso e guarda tutto dall’alto. Nei suoi occhi si affollano desideri su desideri, che in realtà sono soltanto uno: andare via.
Le sue mani. Il candore del suo stare al mondo. Il frastuono del suo silenzio.

Maria e sua madre stanno portando la scrofa nel recinto del maiale. Aprono la bocca dei due animali e danno loro da bere del rum, per farli eccitare. Devono accoppiarsi, hanno bisogno che la scrofa partorisca, perché presto arriveranno il promesso sposo di Maria con la famiglia e hanno bisogno di carne per la festa. Ovviamente, si tratta di un matrimonio combinato, lui, Ignacio, è un uomo adulto, vedovo, che sa parlare lo spagnolo e si occupa della gestione della piantagione dove lavorano Maria e la sua famiglia. Ma la ragazza è attratta da un suo coetaneo, chiamato Pepe, il quale progetta di lasciare questo luogo sperduto e senza futuro per andare negli Stati Uniti, e lei desidera che lui la porti con sé. Ma Pepe vuole solo portarsela a letto. E lei non l’ha mai fatto, anche se esplode di desiderio (quella piccola scena in cui lei si adagia sull’albero, come per fare l’amore, è tanto tenera quanto triste). Una volta versato il rum nelle bocche dei due animali, la madre va via, mentre invece Maria si attarda a guardare. Anche questa è una piccolissima scena, siamo solo all’inizio del film, capace di restituire tutta la complessità e il bisogno dell’anima di questa giovane ragazza Maya di respirare e vivere la sua vita. Il sesso ubriaco di due maiali in un recinto sporco di fango, sotto gli occhi sognati di una ragazza che sogna l’amore. Un futuro possibile. La possibilità di scegliere.




Andare via. Via da un futuro già scritto, verso l’ignoto. Via dalla miseria, dalla polvere, dal terreno, dal fango, dai maiali, dalle rocce, dai serpenti. Verso l’altrove, come quello che invocava Pessoa, lo stesso altrove che soggiace in tutte le preghiere di Maria, in tutte le sue implorazioni al vulcano, agli spiriti che abitano quei luoghi, fuori dal tempo, immersi in un fluire che appartiene a un mondo incomprensibile ai nostri occhi. Andare via. Via dai ragazzi ubriachi, dall’amore imposto, dalla piantagione, dal lavoro che spezza la schiena e i sogni, dalle ceste da portare sulla testa, da tutti i macigni che gravano sul cuore, che schiacciano i desideri, che impediscono all’anima di respirare. Per questo vorrei prenderle la mano. Per darle un po’ di leggerezza. Per alleviare anche solo per un attimo la gravità dell’esistenza. Per portarla oltre il vulcano. In un mondo con le case lontane dal fango. Con l’elettricità, le automobili, la plastica. Lontano dall’odore nauseabondo di un destino programmato, in cui c’è tutto tranne la scelta. Ed è proprio questo che Maria desidera più di ogni altra cosa: scegliere. E il desiderio di andare via, la necessità vitale di dare un senso ai propri giorni, è più forte della paura di morire, di veder marcire la propria vita, più forte del timore di poter soccombere: è forse per questo che Maria si concede a Pepe. Lì, in mezzo agli alberi, di notte, aggrappata alla speranza di andare via. Sì, perché lui lo ha promesso. La porterà con sé oltre il vulcano. Negli Stati Uniti. Verso un futuro possibile. Ma non lo farà. Non lo aveva mai nemmeno pensato. Andrà via da solo. Lasciando Maria delusa, triste, abbandonata, sola. E incinta.

Ixcanul è un film meraviglioso e potente.
E meravigliosi e potenti sono gli occhi di Maria.
Per certi versi mi ricorda una delle ragazze tahitiane di Gauguin. Quei colori. Quelle decorazioni. Quel cielo che pare dipinto. E c’è anche tutta quella grandiosità tipica dei luoghi esotici e lontani dal nostro stile di vita. Ma non c’è retorica – o almeno io non ne vedo, non ci sono intenti “politici”, né alcun tipo di rivendicazione da parte del regista, anche se qualcuno potrebbe leggere il film come una “denuncia” del modo in cui vengono trattati i nativi da parte dei governi sudamericani che fagocitano e divorano queste culture. Io credo sarebbe un errore intendere il film in questo senso. Non c’è sociologia spicciola, né velleità antropologiche di sorta, non ci sono particolari sottotesti sociali, seppure non è da escludere totalmente la possibilità di una lettura di questo tipo, secondo cui la riproduzione del popolo di origina Maya venga intralciata dagli spagnoli per annichilirne la cultura, in attesa che scompaia definitivamente. Ripeto, questa lettura non è del tutto irreale, ma a mio avviso non è l’intento del film denunciare alcunché. Perché questa è la storia di una ragazza che desidera vivere la sua vita. Alice che vuole attraversare lo specchio, questo vulcano metafora di un confine invalicabile verso quel mondo nuovo, che sa di libertà.

Gli alberi della foresta guatemalteca racchiudono tutta la vita. Il vulcano è il dio che tutto osserva. Il suo respiro è unità di misura del tempo. Che scorre piano, ogni giorno. I ritmi delle giornate sono dettati dal lavoro nei campi di grano – da un po’ di tempo infestati dai serpenti, e dal lavoro nella piantagione, dalle preghiere e dalle invocazioni. Il posto per i sogni è sempre più piccolo, sta per sparire. Maria guarda negli occhi sua madre. Non ha detto a nessuno che aspetta un bambino. Presto tornerà Ignacio, il matrimonio è ormai stato stabilito.
Ti prego, dio del vulcano, portami via con te.





C’è un brevissimo scambio di battute, siamo ancora nella prima parte del film, secondo me molto significativo. Mentre lavora nella piantagione, Maria chiede a Pepe che odore abbia l’aria degli Stati Uniti, di questo nuovo mondo, al di là del vulcano. È una domanda che può apparire sciocca, ingenua, quasi infantile, ma racchiude invece un senso di profondissima umanità. Non chiede come si vive, che lavori si fanno, quanto può essere bello abitare lì. No, lei vuole sapere qual è l’odore dell’aria. Perché lei è profondamente radicata in questa vita contadina, rurale, che il caso le ha assegnato. Perché da quando è nata, ovunque posi lo sguardo, il vulcano rientra nel suo campo visivo. Perché gli alberi, il terreno, il legno, i fili intrecciati delle ceste, gli ornamenti, i suoi abiti, le stoffe, il fumo degli incensi, il cielo sulle foglie, il fuoco. Carica di speranza, di sogni accennati ma dirompenti, con un velo di malinconia intorno al cuore, Maria dice:
«qui l’aria profuma di caffè e di vulcano».

Anche io vivo a pochi passi da un vulcano. Posso vederlo anche ora, mentre scrivo, riesco a scorgerlo dalla mia finestra. Mi ha sempre affascinato molto, da piccolo fantasticavo su una sua improvvisa eruzione, immaginavo lapilli e lava a fiumi, e io che riuscivo a salvare la mia famiglia e la mia casa. Avevo sei anni. E adoravo i dinosauri. Leggevo qualunque cosa che li riguardasse, soprattutto volevo saperne di più sulla loro estinzione. L’ipotesi di una violenta serie di eruzioni vulcaniche mi pareva la più “bella”, la più sconvolgente e catastrofica. E guardavo il mio vulcano, dal balcone di casa. Immaginando di essere un diplodoco in fuga dalle fiamme.
E ora guardo Maria. Nei suoi occhi la vita brucia con quella violenza che solo la poesia può avere. Anche lei teme l’estinzione. Quella dei suoi sogni, dei suoi desideri, delle sue possibilità. La madre si è accorta che la figlia è incinta. A proposito della madre, c’è da dire che è magnifica. Una donna segnata da una vita di lavoro, di devozione per la famiglia e per gli dei che abitano quei luoghi intrisi di magia. E la madre si vede costretta a dire a sua figlia di liberarsi di questa bambina. Sia per la vergogna, sia perché con i campi di grano infestati dai serpenti non possono permettersi un’altra bocca da sfamare. Fa bere a Maria uno strano intruglio, la fa saltare su e giù sulle rocce vulcaniche (un’altra piccola scena dall’impatto visivo enorme). Ma la bambina sopravvive.
«È la fiamma della vita. Non posso farci nulla. È destinata a vivere», sentenzierà la donna.
Allora ecco che il triangolo madre-figlia-bambina acquista un senso quasi trascendentale. Il passato, il presente e il futuro che si tengono per mano. Che si mischiano e significano a vicenda. Un continuum esistenziale, tutto al femminile, che pare essere quasi la trasposizione metaforica della condizione dei nativi americani di quei luoghi. Ma, come dicevo, la suggestione per me si ferma qui, per quanto possa essere plausibile e affascinante lasciarsi tentare dalla visione “politica” di Ixcanul. Ma no, questa continua a essere la storia di una ragazza che vuole emergere con tutta sé stessa e attraversare lo specchio che la separa dal suo destino.

«Mi sento come il vulcano».
«Perché ora hai la fiamma della vita dentro di te».

Poi accade che Alice si trasforma in Euridice.
Parlando con sua madre, che cerca di proteggere sua figlia e di tenerla al sicuro, Maria si convince di essere magica, condizione dettata dalla sua gravidanza. Allora, dopo aver consultato la guida spirituale, prende una decisione che cambierà irrimediabilmente la sua vita.
Maria cammina a piedi nudi nel campo di grano infestato dai serpenti, convinta di poterli scacciare con la sua presenza. Farà appena qualche passo. Come la ninfa amata da Orfeo, anche lei viene morsa da un serpente.

La corsa in ospedale, in una scena emozionante e delicata.
Per la prima volta vediamo la “grande città”. Maria ci è finalmente arrivata. Ma sta morendo.
C’è anche Ignacio con loro, ed è l’unico che parla lo spagnolo, è lui che si interfaccia coi medici.
Ma gli operatori sanitari, insieme allo stesso Ignacio, manipolano la situazione, sfruttando la barriera linguistica, per sottrarre a Maria la sua bambina. Diranno a lei e alla sua famiglia che è morta. E nella piccola bara, invece del corpo della bimba, metteranno un mattone avvolto in un panno bianco.

Le ultime scene sono strazianti e cariche di pathos.
Maria che scava nel terreno perché vuole vedere e abbracciare almeno una volta sua figlia (impossibile non pensare a quello splendore di To Dust). Sua madre che si dispera nel commissariato di polizia perché vuole ritrovare la bambina. Madre e figlia che si dicono che forse la bambina ora sarà già negli Stati Uniti, in quel nuovo mondo che Maria non vedrà mai. Perché è arrivata l’ora del matrimonio. Ignacio ha ottenuto quello che voleva. Maria ha perso ogni cosa.
Vulcano, mio dio, adesso, esplodi adesso, ti prego.

Il suo volto. Quelle labbra. Lo sguardo basso.
Le sue mani. Il candore del suo stare al mondo. Il frastuono del silenzio.
Quel velo da sposa che le copre il viso ha il sapore di un’eclissi senza fine.




4 commenti:

  1. ero riuscito a vederlo al cinema, è proprio un gran film, sono del tutto d'accordo

    https://markx7.blogspot.com/2015/06/vulcano-jayro-bustamante.html

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    1. Grazie per il commento, Ismaele, e per il link. Davvero un "film dell'altro mondo". Personalmente, ritengo che sia un'opera davvero molto potente, capace di coinvolgere ed emozionare dall'inizio alla fine e oltre, perché la storia di Maria - il suo viso, il suo sguardo - ti entra dentro e non va più via.

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  2. Molto bello...grazie per averlo recensito in maniera perfetta. Meno male che c'è il buio in sala che ci presenta questi piccoli capolavori.

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    1. Grazie a te per essere intervenuto con questo commento.
      Questi sono i film che, almeno per quanto mi riguarda, lasciano un segno profondo e indelebile. Ixcanul regala emozioni continue e travolgenti. Un film indimenticabile.

      Lunga vita a Il buio in sala ;)

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