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7.12.21

Torino Film Festival 2021 - Tutto il resoconto finale - 14 film recensiti

 

Siccome quest'anno per tanti motivi non potevo esse al TFF e siccome non avevo nemmeno mandato degli inviati, mi sono ritrovato alla fine senza nessun post per quello che, senza dubbio, resterà sempre il festival cui sono più legato.
Però so stato fortunatissimo perchè appena il festival è finito me so ritrovato 4 amici (3 alla loro prima volta qua, uno ormai storico) che hanno avuto voglia di parlarne (tra l'altro tutti e 4 grandi teste e belle penne).
E, insomma, paradossalmente con questo unico post finale credo che troverete il resoconto più bello e completo che esista in rete sul Torino Film Festival 2021.

GAIA BARUSCOTTI

GREAT FREEDOM


Grosse Freiheit è un'intensa rappresentazione del travaglio che gli esseri umani affrontano quando la loro intima essenza è schiacciata e negata dalle leggi della società in cui vivono. La storia, costruita attraverso sapienti flashback che coprono la storia della Germania tra gli anni '40 e '80, vede per protagonista Hans, un ragazzo omosessuale che, proprio per il suo orientamento sessuale, punito dal paragrafo 175 del codice penale, viene dapprima deportato in un lager e poi incarcerato. In prigione incontra Viktor e il rapporto tra i due, fatto tanto di incomunicabilità e quanto di profonda comprensione reciproca, scandisce la vita di Hans fuori e dietro le sbarre. È un film sulla costante e mai soddisfatta necessità di un rapporto umano autentico in cui potersi riflettere negli occhi dell'altro come davvero siamo, e non come un numero tatuato sul braccio o un comma di legge.

THE DAY IS OVER


Dove sono finiti i genitori? E’ la domanda che si pone Qi Rui, all’esordio alla regia, nel film The day is over. L’intero film si svolge in un piccolo villaggio della Cina rurale abbarbicato sulle montagne e svuotato di adulti che decidono di andarsene inseguendo i propri sogni e abbandonando, dietro di sé, le proprie famiglie. Quelli che rimangono sono presidi disinteressati, avidi usurai e contadini prepotenti. Oppure ragazzine: c’è Zhang Jiaxing, ingiustamente accusata dai compagni di classe di aver rubato dei soldi, che decide di andare a cercare il padre a Shenzhen, e ci sono le sue amiche, da lei coinvolte nei suoi sogni di evasione e nella sua disperata ricerca dei soldi necessari. Le loro vicende si sviluppano principalmente lungo il corso del fiume, che diventa una sorta di liquido amniotico in cui realizzare una fusione simbolica e impossibile con le madri ormai lontane. 
A mio parere, il miglior film al Torino Film Festival visto quest’anno, per la sensibilità nel rappresentare il candore delle protagoniste e per la capacità di mantenere il giusto equilibrio tra gravità, leggerezza e speranza nel futuro.

NATURAL LIGHT



Se, come diceva Neville Chamberlain, in guerra non ci sono nè vincitori né vinti, ma soltanto perdenti, il film d’esordio di Dénes Nagy, Natural Light, ben esemplifica questo principio, rappresentando un episodio meno noto della Seconda guerra mondiale e cioè l’utilizzo, da parte del regime nazista, di soldati ungheresi per piegare la resistenza sovietica e garantire una facile occupazione dell’Ucraina. Il protagonista della vicenda, lo stoico e inamovibile caporale István Semetka, della cui vita prima del conflitto poco sappiamo, si trova semplicemente lì per svolgere il proprio lavoro senza, a differenza di altri, eccessivo sadismo, ma il suo desiderio di essere un mero ingranaggio nella grande macchina bellica viene frustrato quando si trova, suo malgrado, a guidare una compagnia di soldati. A differenza di altri film di tematica simile, come “Come and See” di Elem Klimov e “The Painted Bird” di Václav Marhoul, gli episodi violenti avvengono interamente fuori dall’inquadratura e proprio per questo appaiono ancora più angoscianti, come se un’oscura potenza maligna, a cui è impossibile sfuggire, fosse all’opera. Ciò a cui assistiamo sono i loro deleteri effetti sugli uomini: la guerra, sembra volerci dire il regista, è in grado di esasperare la complessità e l’ambivalenza naturalmente presenti negli esseri umani, tanto che si può essere in grado, come fa il sergente maggiore Koleszár, di ordinare il rogo del magazzino in cui sono stati riuniti i paesani e di commuoversi per la morte del proprio cane.

ANDREA BENI

“Rue Garibaldi” di Federico Francioni



Ines e Rafik sono due fratelli di origine tunisina, ma cresciuti in Sicilia. Hanno poco più di vent’anni, ma lavorano da quando ne avevano meno di dieci. Il meraviglioso ed intimo ritratto che ne fa Francioni, che pur mantenendo una sorta di invisibilità, si cala nelle loro esistenze in maniera estremamente ravvicinata, è quello di due fratelli caparbi e coraggiosi che decidono di trasferirsi nella periferia parigina, nella Rue Garibaldi per l’appunto, per provare a raggiungere un sogno di indipendenza che viene in qualche modo reso difficoltoso da una serie di inconvenienti e vicissitudini poco gradevoli. Francioni ha la fortuna di osservare le loro “vite di merda” molto da vicino, raggiungendo un’intimità e una purezza inaudite. Tra conversazioni spontanee, vocali in voice over e altri stratagemmi, Francioni mette in scena un documentario imperdibile che testimonia l’estrema vitalità che circola negli ambienti più underground e sconosciuti del cinema italiano.


“Luz Viaje Oscuro” di Tin Dirdamal



Girato in maniera rudimentale, con una camera sprovvista di zoom, Luz Viaje Oscuro è un viaggio contemplativo all’interno di un treno vietnamita che si dipana in tre tappe prima di giungere a destinazione. Il motivo dell’avventura: andare a incontrare un amico di infanzia che, invece di uccidere il Buddha sul suo cammino, ha ucciso una signora ed è finito in un ospedale psichiatrico. Durante il viaggio sentiremo solo la voce del regista e di sua figlia che con una naturalezza estrema parleranno di bombe lanciate in Vietnam, di principi spirituali, di antiche tribù che si rifugiano nelle caverne per sfuggire alla società e via dicendo. Un viaggio interiore, ancor più che fisico e reale, che porterà il regista a discendere nel più buio degli abissi per poter giungere, una volta superato, alla più straordinaria luce interiore.

“Un Monde” di Laura Wandel



Un Monde risente di una tendenza tipica del cinema art-house contemporaneo, che prende le mosse specialmente da quel capolavoro de Il Figlio di Saul. Tendenza che, tramite un utilizzo costante della camera a mano, prevede un pedinamento assoluto, quasi ossessivo del o della protagonista, in questo caso una bambina delle elementari. Quello che vediamo in Un Monde è, per l’appunto, un microcosmo spietato in cui i bambini di una scuola elementare belga devono in qualche modo sopravvivere tra complessi di colpa, bullismo e difficoltà a relazionarsi. Un film angoscioso, a tratti infernale in cui i bambini sembrano abbandonati a loro stessi e gli adulti incapaci di prendere delle decisioni mature e intelligenti.

RICCARDO SIMONCINI

CLARA SOLA



Il peso di un corpo che ci limita ed incatena, una fisicità umana debole, alterata, malata, perché quell’involucro di pelle, quello scafandro che ci riveste, ci hanno sempre proibito di scoprirlo fino in fondo. E da struttura di difesa (per relazionarsi in sicurezza al mondo esterno) è diventato confine inaccessibile di ciò che ci circonda. Clara ha quarant’anni, ma nonostante l’età sembra vivere da estranea rispetto a quel suo corpo che traballa, cade, faticando costantemente a stare in piedi. Dietro quella fisicità apparentemente incerta si nasconde però una forza infinita, spirituale, una forza che trascende l’uomo e la mette in relazione con il resto della natura. Clara crea infatti una sintonia con la terra, diventando parte di fango e prati, riporta in vita animali, con un sussurrato sospiro che ritrova tutto lo slancio vitale prima sopito, diventa gemella esistenziale della sua bianchissima cavalla Yuca, con cui sembra intendersi anche senza parole. Quando dialoga con quella natura Clara recupera insomma un’energia infinita, che scuote tutto come un improvviso terremoto, simile per certi versi a quell’interazione spirituale che supera la malattia di The Dead and the Others (recensito qua per la rubrica dell’InMubinologo). Un corpo fragile che ritrova la sua forza nella perfetta sinergia con quel contesto costaricano di vita extra-umana. Solo che in quel mondo la comunità sfrutta il suo potere per riti religiosi, preghiere, benedizioni, come se Clara fosse “santa” e con quelle sue mani (fonti inesauribili di energia) potesse intercedere persino per la Vergine Maria. Ma la sua forza risiede altrove. E paradossalmente quella religione, seppur sempre sovra-corporea, diventa un limite ancora più grande, che la blocca nella sua libera scoperta del mondo e del suo corpo (che è il medium a sua volta per scoprire il mondo), con regole comportamentali del tutto illogiche. La gente la tocca cercando miracoli, ma l’unico contatto che è lei a cercare è con la natura, l’unica essenza che non la giudica. Così l’opera prima di Nathalie Álvarez Mesén costruisce un esemplare ritratto femminile (inspiegabile come Wendy Chinchilla Araya non sia riuscita a conquistare il premio come miglior attrice, con un performance degnamente sopra a qualsiasi altra vista al festival), mettendo in scena un’estasi sensoriale dove realismo magico e riappropriazione sessuale si toccano come fa Clara scoprendo il mondo. Un’immersione nella claustrofobia di tradizioni opprimenti che deprimono ogni forma di libertà interiore, che per risvegliarsi richiedono violentissimi scuotimenti (persino esteriori).
Clara riesce a cogliere l’ordine nascosto delle cose, tanto da scoprire il nome oggettivo di oggetti, animali e persone. Il suo è Sola. Sola nel mondo, sola in quella religione. Ma non sola in mezzo a quella natura, oltre il corpo, oltre quella religione.

LES INTRANQUILLES  



Cosa vuol dire soffrire di disturbo bipolare? Joachim Lafosse torna a decostruire il nucleo familiare dall’interno, con il suo approccio vero, sincero, ma crudo e realista, nel rappresentare un contesto di sofferenza estrema. Cosa fare insomma quando tuo marito o tuo padre soffre di un disturbo così invalidante? Soprattutto se questi nega, se non prende le medicine, se entra costantemente in quel circuito irrefrenabile da cui è impossibile uscire, che ti porta un momento ad essere iperattivo e in un altro a non reggerti in piedi. Damien è un artista, dipinge tele senza sosta, ma, capiamo presto, dietro quelle apparenti inesauribili energie si nasconde uno sfinimento ben più grande, manifestazione sintomatica del suo disturbo mentale. Uno sfinimento che avvolge, oltre a lui, la moglie e il figlio, che lo amano e si preoccupano, ma che in quella condizione rischiano di veder vacillare qualsivoglia forma di comprensione. Le notti si susseguono infatti insonni, perché Damien è sveglio, Damien non si trova, Damien vuole fare mille cose anche se non ha le forze. E poi all’estremo finisce in ospedale, deprimendo improvvisamente tutta la sua ispirazione creativa. Il regista descrive con una precisioni minuziosa la quotidianità del pittore, sicuramente facendosi carico di una storia dall’alta componente autobiografica (il padre era un fotografo affetto appunto da disturbo bipolare). E il punto di vista privilegiato è infatti proprio quello del piccolo Amine, i cui “basta papà” risuonano ancora ora dolorosi come coltellate quando il padre nelle sue fasi maniacali abbraccia compulsivamente il figlio. La vita della famiglia (con interpretazioni magistrali sia di Damien Manivel sia di Leïla Bekhti) si trasforma in un tour de force estenuante, dove lo sfinimento delle crisi si alterna alla paura di ricadute. L’arte da terapeutica diventa manifestazione di sofferenza conclamata della psicosi, seppur ambiente “sicuro” attraverso cui trasformare il disturbo in qualcosa di socialmente e intimamente accettabile (perché quei quadri saranno venduti, esposti in mostre e dunque apprezzati). Lui, pittore, crea dal nulla, lei, restauratrice, riporta in vita mobili. Ed è un po’ simbolicamente il loro ruolo familiare: lui crea, ma poi distrugge, lei mantiene e conserva. E quel piccolo bambino rimane in mezzo, in un contesto dove l’affetto oscilla ad ogni episodio psicotico. Dove si vorrebbe stare uniti per farsi forza, ma dove più si sta insieme più le forze si esauriscono, irrimediabilmente.

ALL LIGHT EVERYWHERE


Il nuovo grandissimo documentario di Theo Anthony torna con il suo ormai consolidato approccio metodologico che lavora per accostamenti, invisibili connessioni che solo la giustapposizione di immagini consente, quell’implicito legame tra le cose che trascendendo il tempo permette di accedere ad una dimensione sempre più ambigua, dove frammenti prima apparentemente inconciliabili si riuniscono ora in unico quadro perfetto. Se nel suo esordio ‘Rat Film’ (che qualcuno ricorderà per aver dato inizio qui alla mia rubrica dell’InMubinologo - a proposito presto tornerà) si partiva dai topi per raccontare di spazi, di confini, di luoghi veri o virtuali in cui essere segregati, qui la riflessione parte dal guardare, in tutte le sue infinite declinazioni (con conseguenti risvolti etici-sociali). Cosa guardiamo? Ma soprattutto quello che guardiamo è reale, vero, oggettivo? Dove sono i confini dell’immagine, di ciò che c’è rispetto a ciò che rimane fuori? E la tecnologia in questo senso può aiutare ad ampliare le possibilità del guardare? I temi sono sempre gli stessi cari ad Anthony: l’illusione di verità, la ricorrenza storica, la città di Baltimora, le sue gerarchie, le soluzioni stravaganti per arrivare a debellare piaghe sociali. Ma il montaggio curato sempre dallo stesso regista crea un ritmo irresistibile ed incalzante in maniera del tutto inedita, a rendere ancora più illuminanti le riflessioni che emergono per accostamento, tra dati storici, sessioni di addestramento di polizia per le bodycam, interviste a tecnici di videosorveglianza o ad esilaranti imprenditori che quelle bodycam le producono. “L'occhio vede in ogni cosa solo ciò che cerca, e cerca solo ciò di cui ha già un'idea." Cioè, quando guardiamo e decifriamo il mondo non lo facciamo mai rispetto a ciò che realmente esiste davanti ai nostri occhi, ma in base all’idea che guida la nostra percezione (e che sarà pertanto distorta). In uno dei tanti esempi le bodycam dei poliziotti (che dovrebbero nascere ipoteticamente per fornire un dato “oggettivo” su quello che sta accadendo) inquadrano sì il mondo circostante, ma non quello che gli agenti stanno facendo (sono, cioè, sul loro corpo, ma quel corpo non lo mostrano, perché per quelle bodycam neanche esiste). L’idea che si nasconda qualcosa di oscuro dietro quelle immagini si fa largo man mano che il film avanza. Cosa si cela allora dietro le inquadrature aeree di videosorveglianza? Cosa nascondono le persone nelle loro case, dove le telecamere non possono arrivare? Fino a che punto possiamo controllare le immagini che vengono prodotte? E allo stesso modo chi si nasconde dietro l’obiettivo di un telecamera, persino in un film? In inglese “shoot” è lo stesso verbo per sparare e girare video. Chissà quanti si sono resi assassini nel riprendere la realtà che avevano di fronte.

FEATHERS




(Vincitore ex aequo ‘Premio speciale della giuria’)
Durante la festa di compleanno del figlio un autoritario padre famiglia viene trasformato in pollo da un mago ciarlatano (per un trucco probabilmente andato storto). Da lì l’esordio di Omar El Zohairy inizia ad affrescare di assurdità un mondo tragicomico senza nome fatto di lerciume e sporcizia, una necropoli fantasma riempita solamente di fumi infernali simil danteschi, dove sudicie banconote vengono costantemente contate comprando e scambiando tutto. Ma di fronte a tali assurdità è impossibile farsi domande, perché prima ancora che narrative queste sono sociali. Assurda è la mancanza di diritti, di lavoro, la presenza di norme retrograde completamente ingiuste. Assurda è la condizione di quella moglie e madre (una bravissima Demyana Nassar) che prima sottomessa al marito, ora deve cercare come può di mandare avanti la famiglia, imprigionata però in un sistema sociale che non le concede alcuna libertà. Lei subisce passivamente, come l’asino di ‘Au hasard Balthazar’ di Bresson, accetta, incassa, perché quell’irrazionale deve essere preso così com’è, come nell’equivalente borghese di Lanthimos deve fare la famiglia de ‘Il Sacrificio del Cervo Sacro’ nell’accettare l’assurda punizione. La macchina da presa incede sugli angoli fatiscenti, spesso ricoperti di guano, con inquadrature statiche che diventano sintomo di un’immobilità sociale, che non permette mai alcun riscatto, nemmeno se possiedi quelle unte banconote. La staticità ironica di Roy Andersson si declina qui più magica, sociale, sovra-esistenziale, ma sempre e comunque cupa e nerissima nel suscitare un sardonico riso.
L’impressione, però, è che quel pollo sia uno dei tanti animali trasformati, o meglio: ri-trasformati alla loro vera natura. Perché in fondo forse ciò che più è assurdo è definirci umani in un mondo simile. Normale invece essere polli, bovini da macello, teste di maiale. Il complementare di The Lobster insomma, dove il mondo non è semplicemente dis-umano (cioè con un’umanità deformata), ma in-umano (cioè con un’umanità del tutto assente).

RE GRANCHIO


Il folgorante esordio nella finzione del duo Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis riprende la loro stratigrafia di leggende e racconti, che si mescolano come frammenti di terra di ere geologicamente diverse. Tradizioni orali che via via si incrociano, alterandosi e trasformandosi, declinandosi organicamente ora in racconti, ora in canti popolari, ora in appunti di viaggio, superando tempi e invadendo spazi, persino lontanissimi. Così si passa da un piccolo paesino della Tuscia alla desolazione infinita della Terra del Fuoco. Da un gruppo di cacciatori dei nostri giorni al salvifico cammino verso la luce di Luciano, “l’ubriacone”, un uomo sospeso tra l’astratto mondo di corte e il povero mondo contadino della fine dell’Ottocento. Un uomo che pare quasi un alieno, venuto da un altro pianeta, attraente eppure ripugnante, con la sua folta barba segno di un tempo lacerante in cui forse tutto è cambiato. Luciano più tenta di costruire più distrugge, più cerca di perseguire un’etica più la infrange e così fa anche con la sua amata Emma, che da donna del desiderio (che come lui si sottrae a quelle logiche sociali di alto-basso) si fa ossessione e dannazione. Sembra quasi che le leggende del mondo contadino di Alice Rohrwacher si infiammino delle tinte violente e carnali del western.
Ma qual è dunque il senso di verità? Che cos’è vero e cos’è falso? Cos’è realmente esistito e cosa invece è frutto della fantasia? “La realtà è scadente”, dice Fabietto in ‘È stata la mano di Dio’. E il cinema diventa così l’opportunità per evadere, creare nuovi mondi che permettano di sognare ancora. Ma Re Granchio sembra dirci che forse non è la realtà ad essere scadente, ma il racconto che se ne fa. Perché anche la realtà può abbracciare l’immaginario, anche la realtà può invadere i confini dell’irrealtà. È l’illusione delle immagini del cinema, che seppur apparentemente oggettive, si fanno sempre ingannevoli e distorte. E dunque come dice Gianni Rodari (che all’arte di raccontare storie ha dedicato tutta la vita) è in quest’errore che sta la creatività, perché è nello sbagliare che s’inventa. 
Nel frattempo continueremo a raccontare questa leggenda. Di una piccola perla trovata nelle profonde acque dell’oceano dei festival. E di una coppia di registi italiani grandi marinai di quel monumentale veliero che si chiama Cinema. Ma a volte anche le leggende si rivelano vere, anche più vere della realtà.

STEFANO DE ROSA

Presenti spoiler! 
  
PICCOLO CORPO 


A conferma dell’annata eccezionale del cinema italiano, approda al TFF, dopo essere stato presentato in prima mondiale alla Semaine de la critique del 74° Festival di Cannes, l'ennesimo gioiello nostrano, lo straordinario film d’esordio di Laura Samani, che ne firma anche il soggetto e la sceneggiatura. 
Protagonista della pellicola è il “Piccolo corpo” del titolo, appartenente ad una bambina nata morta in un'isoletta del Nord-Est durante un inverno agli inizi del ‘900 e che come tale la tradizione cattolica non reputa degna di ricevere il battesimo e il nome che ne deriva. “Se non hai un nome non esisti”, si sentirà dire più avanti nel film, ma Agata, la giovane madre della povera bimba relegata per sempre in un limbo (a detta del prete che le ha negato il battesimo), non si dà pace e, seppur straziata dal dolore e tra lo stupore del rassegnato (e invertebrato!) marito e delle anziane del paese, si fa forza e decide di intraprendere un lungo viaggio. Con il corpicino chiuso in una scatola di legno, si incammina verso un fantomatico santuario sulle montagne friulane (sembra che ne siano esistiti veramente lungo tutto l'arco alpino) dove secondo la superstizione locale i bambini nati morti vengono resuscitati per un istante lungo un respiro, sufficiente però a battezzarli.  
Ha inizio così un percorso ricco di insidie durante il quale la regista indugia spesso sul bel volto di Agata (interpretata da un’intensa Celeste Cescutti) rendendoci così più partecipi delle sue ansie, della sua disperazione e della sua incredibile determinazione nel portare a termine la missione che se avrà successo le permetterà di riabbracciare la sua bambina nell'Aldilà. Durante il suo tragitto sulla neve, che non aveva mai visto, la giovane donna incontra uno strano e solitario ragazzo (o ragazza?) che, come si desume dal suo nome, Lince, la neve la conosce bene e le offre il suo aiuto in cambio di metà (che si rivelerà poi una metafora stupenda) del misterioso contenuto della scatola. Scopriamo così che Lince (personaggio struggente che mi è piaciuto moltissimo) era stato ripudiato dai genitori perché “diverso” e che il viaggio per lui diventa simbolo di un percorso alla ricerca di una propria identità (al pari del “piccolo corpo”). Passando tra paesaggi bellissimi (quasi magici) e luoghi silenziosi (tra l'altro nel film, recitato in dialetto, si parla pochissimo) abitati da una società patriarcale che cerca soltanto di approfittare di loro, Agata (che non molla per un attimo il suo prezioso tesoro) e Lince si dirigono imperterrite verso l'agognata meta (stupenda la scena con richiami “danteschi” dell’attraversamento in barca del lago alpino) fino all'epilogo di una potenza emotiva devastante.

WHAT JOSIAH SAW 



Passiamo a quella che per quanto mi riguarda è stata la vera (piacevolissima!) sorpresa di questa edizione del TFF: il cupissimo “What Josiah saw”, film perfettamente a suo agio nella sezione “Le stanze di Rol” del festival. Diretto (magistralmente) da Vincent Grashaw, il film è un viaggio lungo due ore, intensissime, negli abissi dei quattro membri (profondamente “disturbati”) di una (“anormale”) famiglia texana. La pellicola è divisa in segmenti che ci introducono ai vari personaggi (che come vedremo hanno tutti nomi biblici a sottolineare tra le varie tematiche quella a sfondo religioso, molto preponderante): la prima parte (a mio parere quella più solida insieme a quella finale) è dedicata al padre Josiah, rimasto vedovo a seguito del suicidio della moglie, interpretato da uno stellare Robert Patrick (l’indimenticabile villain T-1000 in Terminator 2), e il figlio minore (completamente “spostato” nonché succube del genitore) Tommy. I due, che vivono insieme in una fattoria fuori città, hanno un rapporto simbiotico, quasi malato, e sono vittime di inquietanti visite notturne della defunta padrona di casa. Facciamo poi la conoscenza di Eli, in libertà vigilata, che per sbarcare il lunario si prostituisce ed è anche lui perseguitato dai fantasmi del passato.  
Quella più normale sembra essere (solo a prima vista!) la sorella Mary, addirittura sposata, che ha da sempre avuto paura di aver figli (fino a farsi legare le tube) ma che adesso sembra propendere per l’adozione. A riunire i quattro psicotici è un’offerta per l'acquisto della fattoria da parte di una compagnia petrolifera e il riavvicinamento funge, com'era facilmente prevedibile, da detonatore di vecchi rancori tutt'altro che sopiti e di traumi ancora ben radicati nelle menti malate dei quattro protagonisti. Il risultato è una progressiva e allucinante deriva fino al crudissimo epilogo.  
Quello che colpisce di più di questo thriller/horror psicologico di Grashaw è la capacità di tenere sempre altissima la tensione (che raggiunge i massimi livelli quando entra in gioco il capofamiglia), sia tramite una messa in scena veramente convincente (che fa dei suoi punti di forza il particolare taglio delle inquadrature e l'utilizzo delle luci e delle ombre nelle scene di interni) che grazie a una sezione sonora tra le più efficaci tra i film di genere degli ultimi anni. Veramente tanta roba quindi (forse in alcuni passaggi anche troppa….) che ci porta a sperare, visto anche i riscontri positivi che sta ottenendo nei tour festivalieri, in un approdo nelle sale italiane di questo gioiellino.

CODA 



Una famiglia completamente diversa da quella texana del precedente film è quella dei Rossi, protagonista di CODA, il delizioso lungometraggio (diretto dalla regista Sian Heder) con cui ho concluso alla grande questa edizione del TFF. 
Il titolo con le lettere tutte maiuscole ci porta a intuire che si tratta in realtà di un acronimo: Children of Deaf Adults. La protagonista del film, la diciassettenne Ruby, è, infatti, l’unica persona udente in una famiglia con padre, madre e fratello sordi.  
Il film, che ha fatto incetta di premi al Sundance 2021, è un distributore di emozioni come ne ho incrociati pochi durante quest'ultima stagione cinematografica. La pellicola ha il suo punto di forza in un cast eccezionale: oltra alla magnifica prova di Emilia Jones (l'attrice inglese che interpreta Ruby e che avevamo già apprezzato nell’horror di Pascal Laugier “Ghostland - Casa delle bambole”) colpiscono le prove degli attori che interpretano i restanti componenti della famiglia e che, a differenza di quanto accade nel film francese “La famiglia Bélier” di cui CODA è il remake, sono realmente sordi. Tra questi ultimi spicca Marlee Matlin, che aveva vinto l'Oscar per Figli di un Dio minore.  
Il motivo portante del film è introdotto dalla canzone di Etta James “Something's Got a Hold on Me” che Ruby canticchia all'inizio: il profondo amore per i suoi familiari la trattiene dal prendere la strada suggerita dalla sua passione per la musica che la allontanerebbe da loro. Per la sua famiglia Ruby rappresenta un veicolo di comunicazione importante verso il mondo esterno (anche nell'ambito dell'attività di vendita del pesce gestita dal padre e dal fratello) a cui soprattutto i genitori trovano difficile rinunciare. D'altra parte non è affatto semplice per la ragazza comunicare loro la sua passione per la musica ed il canto. Scena emblematica in tal senso è quando i genitori assistono ad una sua esibizione scolastica: non potendo sentire sono focalizzati sull'aspetto visivo dello spettacolo (le sue movenze, l'affinità dei colori del vestito con quelli della scenografia e così via). Ma poi succede qualcosa che li scuote e per descrivere questo turning point la regista coinvolge direttamente anche noi del pubblico: nel film (e di riflesso nella sala) cala il silenzio; adesso tutti viviamo la scena come la stanno vivendo i genitori di Ruby che distolgono lo sguardo dal palco e lo indirizzano verso gli altri spettatori e al loro evidente apprezzamento (manifestato con sorrisi e gesti di approvazione) per lo spettacolo a cui stanno assistendo. Ecco quindi che comincia a crescere in loro la consapevolezza dello straordinario talento di cui è dotata la figlia e alla necessità di favorirlo a tutti i costi. Il film è costellato di scene emozionanti come questa (basti ricordare quella in cui il padre di Ruby accarezza la gola della figlia per cercare di percepirne in qualche modo la voce o quando la ragazza non riuscendo ad esprimere al maestro la sua passione per il canto con le parole lo fa utilizzando il linguaggio dei segni). Diverse sono poi le scene divertentissime (su tutte quella esilarante del padre che va dal dermatologo) e quelle dove la musica è protagonista (con interpretazioni di livello su canzoni da Joni Mitchell a David Bowie). In conclusione un coming of age classico che però eccelle a mio parere per il tocco delicato con cui la regista riesce a trattare temi importanti. Da gustare in sala dal prossimo 20 gennaio.

5 commenti:

  1. Veramente bello questo post.
    Fai i complimenti ai tuoi ragazzi, molto bravi tutti.
    Penso sia Riccardo il più “ anziano “ del gruppo..quello storico.
    Gli altri son tutti inediti qua nel blog.
    Almeno nella scrittura di un post.
    Non si offenda Riccardo , mica è colpa sua .
    Poi finché uno non vede i film non può giudicare obiettivamente ..quindi la mia opinione vale meno di zero , ma quelli che hai recensito son quelli che mi prendono meno.
    Forse un po’ di più quello sul tipo bipolare.
    Stefano invece ha scritto una tripletta di titoli veramente interessanti.
    Gaia e Andrea , sorprendenti ..delle mini recensioni di tutto rispetto …magari fossero tutte così!
    Ciao





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    1. Ciao Max! Grazie per il commento.
      Sì, dovrei essere io lo storico dei 4, ma solo per aver già scritto per il blog resoconti da Torino (o di altre rubriche varie), perché in realtà per età anagrafica non dovrei essere il più vecchio ahaha
      In ogni caso mi spiace che i film di cui ho scritto non ti abbiano preso. È anche vero, però, che i pezzi degli altri 3 erano veramente notevoli, e probabilmente non sono abbastanza bravo per descrivere in poche righe il carico di tali grandi film. Non che sia un'attenuante per carità, però non fidarti troppo delle mie parole che spesso fanno solo deragliare l'opinione risultante. Dai una chance soprattutto a Re Granchio, il quale in parte conserva una simmetria non così lontana con Piccolo Corpo che invece hai detto ispirarti. Forse se per esempio di Re Granchio ne avesse scritto Stefano (che l’ha amato e lo so perché l’abbiamo visto insieme ahah) la voglia di vederlo sarebbe stata molto più forte.
      Spero ai prossimi resoconti di migliorarmi almeno parzialmente nella scrittura.
      E nel frattempo mi accodo ai complimenti a Gaia, Andrea e Stefano: davvero sorprendenti.

      A presto,
      -Riccardo

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  2. Complimenti a tutti, questa scorrevole presentazione di esperienze da festival mi ha parecchio intrigato, anche a riguardo di pellicole che magari sulla carta sarebbero risultate poco attraenti.
    L'interesse maggiore ce l'ho per i titoli di Stefano (what Josiah saw e Piccolo Corpo), poi Gaia (Natural light e the Day is over potrei amarli come odiarli) e infine per Andrea mi ispira Un monde.

    E adesso non me ne vogliano, farò un piccolo favoritismo al redidivo di cui tutti sentivamo la mancanza, l'Inmubinologo Riccardo Simoncini, buttando giù le impressioni sui suoi sempre poetici pezzi ;)

    - Clara Sola
    Analisi interessante di uno di quei film, temo, che ultimamente faccio proprio fatica a guardare, per tematiche, struttura e ritmo. L'idea mi ricorda vagamente il familiare mondo di Ihjac da The Dead and the Others, ma in caso sta a te dirmi come si rapportano i due protagonisti/film, o se pensi che uno sia più efficace dell'altro :)

    - Les intranquilles
    Ecco, questo invece è un tipo di film, che io chiamo "col malato", che mal sopporto da sempre, non solo da qualche tempo hahaha. Probabilmente non saprei apprezzarlo, dubito lo cercherò.

    - All light everywhere
    Non il film che mi ispira di più, ma il pezzo che mi ispira di più. Mi sei sembrato (volutamente?) vago, nel descrivere quest'opera: è forse per via della mole incredibile di tematiche, che avevo già percepito leggendo di Rat Film? Se è così mi presterò all'esperienza, alla prima occasione ;)

    - Feathers
    La grande incognita di questa carrellata, da quel che traspare una pellicola di assurdità disperata, che potrei seriamente adorare.

    - Re Granchio
    Ne abbiamo già parlato, è quello che attendo di più in questi giorni, soprattutto per la sua distribuzione imminente. Lo vedrò di sicuro, e magari tornerò a rileggerti allora. Per il momento ho scorso velocemente temendo anticipazioni, mi limito ad una considerazione: "una coppia di registi italiani, marinai di quel monumentale veliero che si chiama Cinema" ma come ti escono certe impennate poetiche? Hahaha :)

    Ancora complimenti e grazie a tutti per averci fatto vivere da lontano un po' del TFF!

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    1. Ciao, caro Enrico! Che piacere ritrovarti/ritrovarci nuovamente qua sul blog. Come al solito sei sempre troppo gentile nei miei confronti e di questo ti ringrazio di cuore. Devo ammettere che anche a me era mancato molto questo spazio, anche e soprattutto per questi commenti che come dice sempre Giuseppe sopravvivono al tempo e non si perdono nell'infinito spazio virtuale (in cui invece sono io il primo a perdermi ahahah).

      In ogni caso, passando ai film: le impressioni che ti sei fatto sono le stesse che ti darei pensando ai tuoi gusti, premettendo che comunque l'edizione di quest'anno è stata in parte ahimé un po' deludente (e lo era già sulla carta, quando hanno "presentato" il programma - le virgolette sono d'obbligo perché in conferenza stampa si sono concentrati più sugli aspetti istituzionali che sulla selezione).
      Nello specifico:
      - Clara Sola penso proprio non appartenga alle tue corde. All'inizio fatica peraltro un po' ad ingranare per concedersi solo dopo all'esplosione sensoriale che citavo nella recensione. Appartiene invece esattamente alla mia conformt zone: quel realismo magico che incombe nella quotidianità di mondi esotici ("pane per i miei denti" direbbe qualcuno ahahha). Come suggerivi acutamente tu, con The Dead and the Others i punti in comune non mancano: in entrambi il corpo diventa un limite, un confine opprimente più che una finestra per sentire il mondo, da riscoprire in una ricerca ancestrale all'origine del dolore (dove tutto è permeato da malattia, fisica e mentale). E in entrambi oltretutto l'immaturità dei protagonisti è l'elemento chiave per innescare quel flusso estatico già citato: Ihjac ha 15 anni, Clara più di quaranta (ma conserva un'acerbità qui declinata soprattutto in forma sessuale). Nonostante ciò, comunque, il film dell'InMubinologo raggiunge per me risultati ben più apprezzabili, riuscendo ad integrare in maniera più consolidata realtà e finzione (avendo connotazioni documentaristiche), espandendo tradizioni di ampio respiro che abbracciano concetti di morte e oltre-morte che mancano invece in Clara Sola.

      -Condivido anche per Les Intranquiles. Quello che dici è anche la critica più frequente tra i suoi detrattori (più che comprensibile tra l'altro): di creare quasi una pornografia della malattia, un'estetizzazione troppo precisa e minuziosa di quella condizione mentale disturbata. Sarà per deformazione professionale o altro, ma è proprio questa cura al dettaglio che me l'ha fatto apprezzare. Rappresentare una malattia per quello che fisicamente porta all'individuo (e a chi gli sta vicino) più che per astratti significati romantici, che vedono nel malessere fantasiosi schemi interpretativi. È la stessa dinamica che mi ha portato ad amare 'La ragazza d'autunno' e che forse, da quello che ricordo, ha portato te ad odiare ahaha.

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    2. -All Light, Everywhere è colmo di riflessioni così come giustamente ipotizzavi, così come lo è analogamente anche Rat Film. Mi sono mantenuto vago proprio per questi motivi, preferendo indicare suggestioni rispetto a lunghi elenchi dettagliati, razionali ordinamenti dei frammenti dei film, che invece sono cifra stilistica di Theo Anthony proprio in quell'imprecisata (ed illuminante) giustapposizione inizialmente caotica. Rispetto a Rat Film qua per me si supera ancora, perché parlare di guardare implica per forza di cose confrontarsi con il cinema, con le immagini, con il senso di un documentario (che fino a non troppo tempo fa era ancora considerato erroneamente cinema della verità, a cui oggi si preferisce il titolo di "cinema del reale" dove quest'ultimo è appunto imperfetto, soggettivo, parziale). E in questo senso le simmetrie con Re Granchio non sono poche: dove Re Granchio si concentra sulla parzialità di un reale raccontato, All Light Everywhere riflette sulla parzialità di un reale ripreso (e quindi guardato).

      -Feathers è invece un'entità completamente a sé stante. Tanto che i riferimenti e i confronti che ho citato non bastano a rendergli giustizia. Veramente da scoprire e riscoprire. Dovrebbe arrivare in sala distribuito da Wanted (speriamo presto).

      -Su Re Granchio non mi voglio dilungare ulteriormente (ci sono talmente affezionato che l'ho inserito pure parlando ora del doc di Theo Anthony ahahah). Ma assolutamente se riesci recuperalo. Per me è il film dell'anno (se la gioca con Drive my car che ancora adesso continua a smuovermi tutto dentro). Peraltro per tanti aspetti non è forse così lontano da quel "They Carry Death" di cui avevi parlato tu da Venezia. Vedi che i nostri mondi si reincontrano anche per vie secondarie ahahaah E per l'impennata poetica fianale a rileggerla mi sembra più la tangente delirante di un folle in TSO ahahaha


      Grazie ancora dei sempre meravigliosi commenti, Enrico.

      A presto,
      nella speranza di risentirci anche sotto qualche tua magica avventura del mondo di anime da scoprire

      Un abbraccio (o una stretta di mano che è più nel nostro stile ahaahah)

      -Riccardo

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