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23.9.22

Men / Two Lovers / Melancholia - A Luci accese (divagazioni illuminate) - 2 - di Nicola C.

 

Ed eccoci al secondo appuntamento con Nicola (tra l'altro uno degli ultimi acquisti dei raduni) con la sua rubrica "A luci accese", spazio dove ogni volta, con riflessioni davvero belle e super interessanti, analizzerà alcuni aspetti di film che ha amato.
In questa puntata abbiamo un film "caldissimo", "Men" (Il femminile oltre il mito), un capolavoro degli anni passati, "Melancholia" (L'Apocalisse dentro) e un film tanto bello quanto sottovalutato, "Two Lovers" (Sul senso di una fine).
Come sempre accade quando ci sono pezzi con più film ricordatevi di cliccare "continua a leggere" quando incontrerete il "blocco".
Buona lettura!

N° 4 MEN- IL FEMMINILE OLTRE IL MITO


Dopo aver letto diverse critiche e recensioni di MEN, ho riscontrato diverse letture che alludevano tutte a un tema che spesso viaggia sul filo dello scandalo ed è troppe volte affrontato senza la serenità necessaria: la condizione femminile e il suo rapporto con il mondo maschile. Quindi, per quanti abbiano provato insofferenza per questo film (solo in un secondo momento mediata da più compassata critica) azzardo una premessa: finché la donna non occuperà il posto nel mondo che le spetta, dovremo subire fiumi di script affollati di figure maschili “mononeuronali”, oltre all’indignata retorica sul patriarcato, sul maschio dominante e la giacobina amputazione di tutti i sostantivi che finiscono per "o" (con applicazione di improbabili protesi fonetiche dal valor neutro), a compimento della "vendetta" per tutto il senso di colpa e umiliazione inflitti per secoli da puerili archetipi a sostegno di imbarazzanti sofismi sulla supremazia maschile (sempre negata ma subdolamente sottesa). E’ questa la pena che sconteremo e - ribadisco - giustamente. Facciamocene una ragione. Ogni sbilanciamento necessita di altrettanto contrappeso perché si recuperi il giusto equilibrio. Quindi la strada da percorrere è ancora lunga e tutto quello che possiamo fare è portar pazienza, fidenti che pur di tornare a miti consigli remeremo tutti dalla stessa parte per il nobile scopo dell'uguaglianza (che poi si chiamerebbe dignità). Gli ottusi che non comprendano saranno presi per sfinimento e se la saranno cercata; gli uomini illuminati sopporteranno seraficamente, consci della necessità di tutto questo: si sa, i figli pagano sempre le colpe dei padri.


Ora, tornando seri, dico che però MEN non può ridursi all’iperbole di ispirazione pseudo femminista a cui i suoi sostenitori (e delatori) ammiccano, o almeno è dato chiedere molto di più per quello che ci lascia, anche se ad un primo sguardo ha tutto o quasi per entrare nella premessa iniziale. Nella pellicola di Garland è evocato per simboli  il mito in cui il femminile è piegato alla natura perché è la vita stessa con i suoi immutabili equilibri a esigerlo e violarne l’ordine è di per sé dannazione. L'invadente nudità dell'uomo/archetipo trasfigura in simbolo ancestrale della Natura stessa, spargendo il seme al culmine della mutazione con un soffio indifferente alla volontà di chi lo riceve, arrogandosi il dominio sul femminino. Per Garland qualunque forma di violenza e possesso nei confronti della donna sembra risalire a quell'atto primordiale: un’Annunciazione pagana madre di tutte le maternità che solo può essere sfidata dalla storia, percorso in cui matura la coscienza del Sé.  E quindi MEN può essere molto più anche di un film sul preteso ordine naturale e i ruoli sociali che ne conseguono, proprio in virtù della forza con cui Harper rivendica sé stessa; è un film che punta il dito contro il dominio brutale e gli istinti ad esso asserviti, sintomi dell’analfabetismo emotivo alla base dell’incapacità d’amare (“Dio ha creato la bellezza per distruggere o per essere distrutta”). Ma tutto questo - se guardiamo bene - è solo per poi andare oltre.


Garland  racconta innanzitutto una storia di crescita personale capace di spezzare le catene dell’eterno ritorno: il parto sterile ogni volta dello stesso uomo, degli stessi stereotipi, dello stesso ordine costituito e della sua crudeltà. Una stasi ontologicamente opposta all'umanità (unica specie che in quanto cosciente della sua evoluzione la condiziona) che oppone il suo moto di ribellione. I fantasmi coraggiosamente affrontati da Harper sono innanzitutto il contenuto della sua propria esperienza personale: unica e particolare nella tragedia che racconta e mai riconducibile a uno schema condiviso nel conformismo di genere, infondo sempre rassicurante. Perché ogni relazione tossica materializza scelte che siamo i primi ad aver realizzato contro noi stessi e possiamo risolvere solo recuperando quella nostra parte che non abbiamo protetto. Stante le ingiustizie sociali e i paradossi culturali che le producono,  se questi funzionano a livello collettivo non possono sostituire cosa abbiamo fatto in prima persona della nostra storia. Fa molta più paura a ciascuno (uomo o donna) la solitudine necessaria a comprendere l'enigma della propria unicità e quindi della propria esistenza: quella solitudine cercata da Harper in cui ritrova i propri mostri per affrontarli e che fa tutta la differenza del (suo) mondo e degli affetti che vi sono inclusi; e non può che essere un viaggio surreale in cui si mescolano tutti gli elementi onirici del caso.

MEN e' innanzitutto uno spunto per capire che ogni retaggio ancorato al dominio inumano dell'istinto e alla sua cecità è da sempre quanto ci separa dall'estremità luminosa del tunnel e solo il nostro sguardo può decidere chi e come possa farci tornare indietro.  E non c’è rivoluzione che non parta da quello.

N° 5 MELANCHOLIA- L'APOCALISSE DENTRO


Vista la profondità dei temi di Melancholia e la vivacità del confronto che suscita il suo autore,  mi trovo a riprendere quanto scrissi (molto tempo fa) su un altro blog che pure – proprio a proposito di questo film - non nascondeva una certa insofferenza nei confronti del (presunto) pessimismo “cosmico” di Von Trier, a maggior ragione disturbante per l’efficacia visiva con cui viene inflitto allo spettatore: uno shock che il più delle volte induce sulla difensiva. Personalmente però quello di Von Trier stento a reputarlo pessimismo, sebbene sembri  tale quando – implacabile - smonta l’attitudine a una visione rassicurante della condizione umana, soprattutto se costruita sul senso comune. Ma intanto faccio una premessa: ogni elemento della lettura di un autore è sempre in parte trasformato dallo sguardo altrui quando ne viene assimilato e di seguito c’è solo il modo in cui è rimasto a me, senza alludere ad alcuna oggettività. Lo so, è banalmente ovvio ma averlo detto è meglio.

 Melancholia ci parla dell’indifferenza degli eventi non solo a ogni ordine di aspettative, ma a qualunque umana visione per quanto edificante ai nostri occhi. Ciò in cui possiamo perderci (di fronte a quest’opera ma anche a molte delle iperboli di Von Trier) è non accettare che le luci con cui  - spesso a fatica - ravviviamo il nostro essere irradino soltanto noi stessi e al massimo quanto ci è  più prossimo, ma mai possano rischiarare quel buio che ci circonda ancor prima di nascere e a cui siamo destinati. Vorremmo non esistesse quel buio perché minaccia di svuotarci, sembra avvolgere l’infinito; tuttavia il vero problema è farsene sopraffare in quell’attimo tra l’inizio e la fine che si chiama vita. Melancholia è un j’accuse contro i lumi artificiali del raziocinio piegato alle lusinghe dell’illusione, in luogo di un’oscurità la cui purezza è casomai sfondo ideale al riverbero delle nostre vite. Egli non accetta questo sabotaggio all’esistenza e ci incalza con le tenebre per vedere fino a che punto vedremo solo quelle, salvo mortificarci in retoriche rassicurazioni collettive. Non pessimismo dunque, ma una visione dell’uomo (di ispirazione mitteleuropea) in un mondo da accogliere per ciò che è invece di  ridurlo a propria immagine per non sentirsi sparire; perché lo smarrimento è anche trovarsi impreparati quando – per qualunque ragione – quell’immagine rivela la propria inconsistenza davanti al vuoto che è sempre stato lì, privo d’intenzione. Può annullarci o essere l’unico fondale su cui scoprirsi finalmente visibili: ecce homo!




 Qualunque artificio consolatorio per Von Trier è una menzogna inflitta a se stessi ma anche  a chiunque si teme possa farla vacillare, imposta da ruoli sociali e maschere del pudore. Ed ecco Melancholia, astro immenso e luminoso, scagliato su quest’umanità persa ogni giorno nei convenevoli del quotidiano (eh sì,  quando si dice che uno è incazzato). Ma Justine – quale alter ego dell’autore  – non può temerla: a lei già è caduto addosso il mondo di biasimo a cui la sua natura è rimasta “patologicamente” indomita. Per lei quella sciagura cosmica è persino liberatoria dopo aver avuto l’apocalisse bruciargli dentro, la stessa che riduce all’impotenza le persone attorno a sé (e di cui quella nel cielo è proiezione visibile). Nella prima parte del film l’immagine patinata delle loro vite ammodo restituisce un mondo appagante e benevolo, dove ogni cosa è al suo posto ed esattamente in quello (tranne un astro che incede in rotta di collisione). Condannata è ogni dissonanza dell’animo al malcelato disprezzo della tolleranza. Qui il disagio è terreno aspro e soprattutto negato: solo chi è stato confinato nei propri angoli più bui è attrezzato al dramma. Un dramma che nel progressivo ribaltamento  delle certezze rivela il valore intrinseco del film, mostrandone direttamente il negativo quando è la patina a corrodersi.


Lars Von Trier riscrive un’apocalisse che condanna qualunque artefatta edificazione terrena e celeste, dove i moti degli astri collidono ad immagine di quelli dell’animo corrotto dai sofismi del buon senso. La disarmante potenza della fine sembra volerci costringere alla scelta tra l’inconsistenza della vita innanzi ad essa e il potere dello sguardo capace fino all’ultimo di trascenderla. L’evocazione di un primordiale “spazio sacro” indurrebbe a chiedersi se vi sia davvero salvezza nella riscoperta di una dimensione “magica e creativa” o sia soltanto l’ultima impietosa dimostrazione della sua impotenza. In realtà è solo l’unica dimensione umana possibilese un altare comincia dove finisce la misura” (C.Bene, val la pena sbirciare in cineteca) non serve chiederselo ma solo abitarla e Lars prova ancora una volta a mostrarcelo.

N° 6 TWO LOVERS - SUL SENSO DI UNA FINE


Two Lovers è un film che ho trovato sorprendente per l’efficacia con cui riesce a concentrare la sua intensità  nel bellissimo finale, al punto che ho avvertito la necessità di comprenderne le sensazioni al di là del piano squisitamente emotivo. Di seguito quindi è il tentativo di far tesoro di quella malinconica commozione che – per certe opere - si capisce subito essere invito per qualcos’altro.

James Gary racconta gli squilibri bipolari di un animo che oscilla oltre se stesso, eccesso che accompagna in una storia di vertigini, cadute e soprattutto slanci dolorosamente falliti. La protezione dei farmaci, le invadenti premure familiari e il matrimonio predestinato dalle convenzioni ebraiche - stessi affari di famiglia e stessa religione - con Sandra (Vinessa Shaw, perfetta incarnazione di bellezza e sentimenti angelici): tutto vorrebbe puntellare l’equilibrio di Leonard (Joaquin Phoenix, qui interprete delicato delle tinte più forti dell’anima) e invece costituisce uno dei poli dai quali incombe il vuoto. Quella realtà giorno dopo giorno ha instillato in lui l’attitudine a volerne scomparire, fuggendo di soppiatto o dissolvendosi da ogni angolo dove può fermarsi lo sguardo (“Le persone guardano le foto, non c’è nessun bisogno che ci stiano anche dentro”): il suo desiderio è sempre un altrove.

 

 Ed ecco che l’altro estremo è passione, esuberanza liberatoria, ebbrezza che non teme cura e reclama l’urgenza di vivere: ha il volto di Michelle (Gwyneth Paltrow, affilato dardo di Cupido). Due donne: la prima mora, l’altra bionda; una che protegge, l’altra (in apparenza) da proteggere da se stessa (ma dalla quale proteggersi). Tenerezza e crudeltà dell’amore. Tra il dionisiaco e l’apollineo tutto il senso del dramma si condensa in quel magnifico finale, appunto. Leonard, in un destino che sembra esigere la serenità ovattata delle premure familiari, è semplicemente l’impossibilità (patologica) di essere felice quale artefice  del proprio destino; perché la ricerca della felicità implica nutrirla di tutto quanto ci entusiasmi ma mai ridurla ai capricci del cuore, neanche se sinceri. Il suo disturbo appare come una mutilazione dell’anima portata in ogni relazione, sempre così bisognosa di sciogliersi dalle pur amorevoli attenzioni cui è affidata: affetti che cullano dolcemente ma seppelliscono l’eros, anche quando – come con Sandra - avrebbero tutto per esplorarlo se solo non rimanesse compresso nelle proiezioni familiari. Leonard quell’eros vorrà invece trovarlo in Michelle idealizzando una donna che non ha mai dimostrato di amarlo ed egli sa – in fondo – di non essere amato pur coltivandone l’illusione, che è il surrogato della felicità.  

 Lei, ne dispone come mentore e conforto per poi sfruttarne l’ascendente a riempire il vuoto delle proprie delusioni; poi va via con un altro amore, perché la spregiudicatezza di un amante vale molto più del candore sulla via della passione. L’impossibilità di sostenere quella solitudine, definitiva come ogni abbandono, porterà infine Leonard in quel rifugio domestico per provare finalmente a essere altro: l’abisso è tentazione sempre troppo vicina per potergli resistere quando s’offre risolutivo al dolore. Al momento la vita che lo aspetta è solo l’unica a renderlo sopportabile almeno finché impari altre forme dell’amore, che pure sono accanto a sé a mettere ordine nel caos. Ma per ora quella mutilazione ha almeno la sua protesi, che non sarà mai l’arto ma si opporrà a ogni caduta che potrebbe essere l’ultima. Esser sostegno alla fragilità di Michelle lo ha sollevato forse per la prima volta dalle proprie stesse debolezze ma finalmente di fronte a quelle non è più solo e – anche con i piedi ancora bagnati - l’abisso rimane fuori dalla porta.



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