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26.5.24

Cannes 2024 - Resoconto Finale (10 film recensiti) - di Riccardo Simoncini


 Un grande amico, Riccardo Simoncini, è andato per la prima volta a Cannes.
Ed ecco qui allora il suo splendido resoconto, con 10 film recensiti (e lui sa recensire...) tra cui anche opere prime e seconde che, al momento, non hanno recensioni "italiane".
Vi lascio a questo magnifico pezzo.
E grazie Riccardo!



EMILIA PÉREZ (Jacques Audiard, Concorso)

Vincitore del Premio della Giuria e del Premio Miglior Attrice (Prix d’Ensemble)


Jacques Audiard ci ha ormai abituato ad un cinema umano crudissimo in cui la malavita arriva ad essere del tutto normalizzata tra i cuori pulsanti della metropoli, dove anche nelle peggiori situazioni, invischiati nei più cupi giri d’affari, si può ancora sognare altro, trasformarsi in altro. Dal pianista gangster di "Tutti i battiti del mio cuore" alla famiglia di facciata di "Dheepan" con cui tre richiedenti asilo dello Sri Lanka cercavano un futuro a Parigi. Emilia Pérez gravita attorno allo stesso aggraziato trittico ideologico: violenza, passione e speranza disperata. Qui però con un’inventiva e una vitalità che difficilmente non solo si è visto nella sua eclettica filmografia, ma in tutto il cinema contemporaneo. Un musical magnetico e travolgente su un boss del cartello messicano che confida nella transizione di genere per affermare definitivamente la sua libertà identitaria e sfuggire all’ingombrante immagine virile che non lo rappresenta e che mai l’ha rappresentato, dal temibile Manitas dai denti d’oro alla magnanima (o almeno così si vorrebbe credere) Emilia dal volto cristallino. “Cambio di vita o cambio di sesso? Qual è la differenza?” 
Obbligato dolorosamente ad essere il più spregevole tra i tanti per ricevere rispetto, quel corpo bestiale ora diventa altro, perché “non ha senso togliersi la vita senza la propria vita”. E così cambiare il corpo, cambiare l’anima, cambiare il mondo, esplorarsi con uno specchietto riconoscendo finalmente le aree più remote della propria epidermide.
Ad aiutarlo in questo percorso di scomparsa e rinascita in cui il noir incontra il miglior Almodóvar, una giovane e brillante avvocatessa (una Zoe Saldana da Oscar) a cui si palesa l’opportunità della vita, e prima relegata a scrivere forzatamente arringhe maschiliste (“Perdoniamo gli uomini” canta) per far passare efferati femminicidi come semplici suicidi, un’artificiosa farsa da ripetere dall’inizio alla fine.
È un’idea di concepire il musical nella sua accezione più etimologica e fondativa: dare una voce da cantare, da gridare, a chi non l’ha mai avuta, trasformare in coro ciò che non è mai stato neanche sommesso solista (“Non mi manca nulla, mi manca cantare, non mi mancano soldi, cibo, fiducia, mi manca desiderare”). Una voce pulsante e ribollente che può esistere solo enfatizzando nella sensualità più fatale colori, movimenti, danze, il frastuono di uno scatto corporeo incontenibile. La voce di Manitas che diventa Emilia (una voce che è sempre stata in realtà Emilia), la voce dell’avvocatessa Rita che mantenendo la massima riservatezza (e il massimo guadagno - armata com’è della Visa Infinite che le ha dato Manitas) ha rinunciato alla sua carriera e alla sua vita sentimentale, la voce di Jessi, la moglie di Manitas, (Selena Gomez nel suo ruolo più doloroso), che è stata sempre costretta dal marito assente a sopportare insieme ai figli una prigione dorata inconsistente. “Infinite voci per il futuro sono qui” risuona sullo schermo in un planetario stellare di volti. La stessa magistrale operazione di “Annette” di Leos Carax: immagini che ci ossessionano, le nostre (in “Annette” quelle di grandi personaggi dello spettacolo, qui dei ruoli che ci vengono cuciti addosso - leader criminali, madri, mogli, aiutanti), e come distruggerle, disassemblarle con il canto, incastrando i pezzi della nostra anima in modo diverso, con un altro libretto alternativo da recitare.

In questa sospensione, in questo equilibrio impervio tra ipocrisia ed empatia, tra essere e avere, tra il piano privato drammatico (in cosa ci sentiamo rappresentati) e il collettivo criminale (come ci vedono gli altri) si muove frenetico Audiard. Stessa natura di “Barbie” di Greta Gerwig in cui la bambola perfetta improvvisamente sente di voler essere altro, trova una voce, la sua voce, che, passando e iniziando in quel caso da un senso di morte, la conduce però al di fuori dell’iper-rosato mondo pacchiano e plasticoso a cui tutti sono condannati, l’armonia di un gesto sovversivo inammissibile.
Insomma non deve stupire che Greta Gerwig (presidente di giuria quest’anno) l’abbia premiato (con il Premio della Giuria e il Premio alle migliori attrici che abbraccia per intero l’indimenticabile quadro femminile protagonista), perché ha tanto di un’idea di cinema, di una vitalità popolare con cui raccontare storie stratificate, che accomuna il veterano del cinema francese metropolitano (e qui di metropoli ne vediamo tante e in multipli continenti: Città del Messico, Bangkok, Londra) con l’attrice-regista simbolo della rivoluzione cinematografica americana.

Emilia però insegue la sua libertà anche a costo forse di schiacciare quella altrui. Riorganizza il presente e il passato di tutti, trasforma storie come ha trasformato la sua, richiama a sé i figli con volontà di (onni)potenza anche senza essere formalmente più il loro padre, anche senza che esista più quel padre. Perché che futuro può esistere senza le creature che hai accarezzato fino all’attimo prima come i tuoi figli, non importa se nate da un corpo “altro”, e per cui ora sei solo una distante e inafferrabile zia (ma ancora con lo stesso odore familiare occultato da un profumo femmineo - “hai lo stesso odore di mio papà” canta il figlio in una delle sequenze più tragiche e ambigue del film)? Fino a che punto la famiglia può essere relegata ad un’identità e un genere?
Così Emilia, dopo aver sconfitto la disforia, non si accontenta di essere donna, diventa matriarca demiurga, Madonna pagana da celebrare, simulacro dissimulante capace di piegare il caso, icona corrotta e corruttibile che converge su di sé tutte le immagini altrui (“We buy” si canta nel folgorante incipit). Perché il Male si insinua ovunque, in ogni essere umano, in ogni trasformazione, in ogni identificazione. Tra i desaparecidos è scomparso anche l’amore. Ed Emilia non ne è immune.

Il colpo di fulmine di questa Cannes 2024.
Distribuito prossimamente da Lucky Red.


SISTER MIDNIGHT (Karan Kandhari, Quinzaine des cinéastes)


Un imbarazzante matrimonio combinato nei sobborghi di Mumbai. Un neo-marito inetto incapace di dire di no (nemmeno all’alcol), rifiutato da tutte le ragazze del paese, e una neo-moglie che ne è l’esatto opposto (e per questo considerata pazza dalla gente): forte, impavida, carica forse di tutto quello che un intero genere ha dovuto subire nel corso della Storia dell’umanità. Si contano i giorni passati senza che quel matrimonio viva del suo processo fisiologico, senza neanche conoscersi, senza che il marito si comporti come tale, tra le primissime esilaranti e silenziose scene di attese che sembrano appartenere alla migliore tradizione di cinema muto. “Non ho mai incontrato una donna così volgare” la rimprovera lui. Lei, dietro quel nervosismo aggressivo, vorrebbe una vita normale, paritaria e appagante, quella che il deludente matrimonio avrebbe dovuto garantire. Invece le cicatrici del passato si riverberano con urgenza in una rabbia viscerale ed esasperata, nell’irrequietezza facciale di un volto assetato di vendetta che non riesce a stare fermo, si corruga, si distende, con gli occhi spalancati si inferocisce imbarazzato ad ogni fotogramma. Così Radhika Apte, l’indimenticabile protagonista Uma, offre un’interpretazione mimica e mimetica vicinissima a Buster Keaton e Toshirō Mifune, un compendio di divertentissime espressioni disarticolate e impazienti.
In realtà questa è solo la premessa per un film che scombina tutte le carte e i generi, una squilibrata commedia punk - come recita la sinossi - che si reinventa più e più volte senza mai annoiare. Con continui colpi di scena, imprevisti, assurdità e improbabili rimedi Uma inizia a sentire il suo corpo soffrire, diventa ipersensibile ai suoni e alla luce del giorno, gira costantemente incappucciata e con gli occhiali da sole per una Mumbai chiassosa e caotica. Solo la notte risolve quel “suono della frustrazione” che sembra attanagliarle l’anima, alla ricerca di un sangue che la renda viva dall’interno, che la faccia sentire di nuovo reale. Ed è proprio reale il sangue (soprattutto di piccoli volatili e capre) di cui inizia a nutrirsi in una versione a sua volta destrutturata e vitalistica del classico vampiro, da cui Kandhari riprende soltanto l’archetipo della solitudine eterna (tanto che le sue vittime addirittura riprendono vita dopo essere state morse).
Come il revenge movie di vampiri al femminile “A Girl Walks Home Alone at Night” di Ana Lily Amirpour, in cui un bianco e nero pulitissimo veniva sporcato da una società iraniana senza valori, anche qui Uma è un’errante creatura che non vuole più stare nel posto che le è stato assegnato, rifiuta la sua società e i suoi costumi, in una trasformazione irreversibile e inarrestabile.
Arriva davvero a segno questo esordio indiano ma di produzione inglese (il regista vive e lavora da tanti anni a Londra), che tanto infatti guarda ad Occidente nel ritmo e nello stile, dall’indimenticabile colonna sonora pop-rock fino ai jump cuts che in montaggio suddividono tutto in spassosissime vignette umoristiche. Ricorda tanto di quel modo ormai iconico di Wes Anderson (più ancora dei colori pastello e della geometria compositiva) di costruire l’ironia per situazioni e gesti esagerati ed enfatizzati, con movimenti di macchina in asse ed effetti speciali in stop motion, ma anche di quello humor disilluso alla Kaurismaki, semplice ma assurdo.

Un percorso di selvaggia auto-scoperta che diventa però anche di indipendenza e ribellione. Sister Midnight lancia un grido di libertà al di fuori di ogni regola, convenzione, morale e contratto, nel cinema come nei personaggi, per sostituirlo con un linguaggio spregiudicato che non teme nulla e nessuno, tantomeno gli uomini.
Nel cielo notturno le nuvole hanno inghiottito le stelle. Ma ora è tornata la luna.
-“You are a monster.
-“It’s hard to be a human. What’s your excuse?
Sister Midnight è destinato a diventare un cult.


THE DAMNED / I DANNATI (Roberto Minervini, Un Certain Regard)

Vincitore del Premio Miglior Regia Un Certain Regard - ex-aequo


La Guerra di Secessione americana come origine di una fragilità culturale, la ferita mai rimarginata, il fardello selvaggio e violento da ereditare. Minervini con il suo "ufficiale" esordio nella finzione (anche se è più il documentario impossibile che mai nessuno nell’Ottocento ha potuto girare) sembra arrivare alla radice di quei “mondi al limite del mondo” che ha da sempre raccontato nei suoi documentari osservazionali, di creazione e riscrittura della realtà. Da “Stop the Pounding Heart” a “Louisiana”, ma anche l’ultimo “Che fare quando il mondo è in fiamme?”: zone impervie e inaccoglienti in cui diventare e sentirsi Americani.
Siamo nell’inverno del 1862, in piena guerra civile, e un gruppo di volontari delle truppe nordiste deve mappare il confine occidentale, la frontiera che separa il noi dal loro, o forse più il noi dal noi. Solo che i giorni e le notti si alternano senza che nulla accada, lì dove i ghiacciai portano l’oro e lo sedimentano sotto le rocce, lì dove “sarebbe un bel posto per mettere su famiglia”, invece rimane un limbo primordiale di logoramento, di guerra senza la guerra (spesso fin troppo breve in realtà, che rappresenta anche il limite più grande del film: si guarderebbe quell’avventura per delle ore e invece si risolve in appena 90 minuti).
Lì tutti hanno già sparato, persino i 16enni “senza un pelo sulla faccia”, nessuno però ad altri esseri umani, è lo scarto che separa un cacciatore da un assassino. Improvvisamente però la polvere da sparo accende l’orizzonte, e la carcassa grondante sangue non è più di cervo o bufalo. Senza neanche accorgersene quello scarto si è risolto: si è o gli uccisi o gli uccisori, in mezzo ai colpi senza direzione, si spara alla cieca, a sagome senza volto né bandiera, nemici invisibili. Si risponde al fuoco perché non c’è alternativa, anche se il tempo di pensare sarebbe fin troppo, per spostare poco più in là, come con la frontiera americana, il confine sottilissimo, spesso irrisorio, tra bene e male, tra giusto e sbagliato, si è Americani per aver aspettato (“Che pace quassù”). 
Un’azione dilatata stretta sui singoli, sui volti e i corpi sospesi tra l’attesa e la violenza (come il recente meraviglioso “Los Colonos”, disponibile su MUBI), tra la spietatezza e la trascendenza, tra un tempo rarefatto in cui preoccuparsi di evitare il (proprio) sangue e il successivo in cui lavare via quello dei compagni dalle braccia ormai non più pure. Siamo dalle parti dell’Aguirre di Herzog, del Malick de “La Sottile Linea Rossa” e del “First Cow” di Kelly Reichardt, una Storia asciugata e contemplata nel suo carattere più visionario, esistenziale, anti-epico.
Intanto le infinite storie dei singoli si rivelano al lume di candela, un confessionale disperato in cui testimoniare il proprio passaggio, perché le domande non rimangano solo tracce vuote sul cammino. Tenere viva la fede con una piccola croce artigianale ricavata da due legnetti intrecciati ad uno spago, l’intimo ed esclusivo rapporto con i cavalli scalpitanti, superare la neve, oltrepassare valichi, affrontare il gelo bianchissimo che annerisce l’epidermide: un modo di vivere l’avventura che richiama per tanti aspetti l’ultimo “Godland” di Pálmason, ma dove lì il motivo ideologico che guidava quella missione ai confini dell’uomo era evidente fin dalle premesse (diffondere la fede e costruire una chiesa), qui le domande senza risposta si accumulano esplicite ad ogni giornata passata ad aspettare, ad allontanarsi da tutto ciò che dovrebbe tenerci in vita, una casa, ma a riavvicinarsi a tutto che ci rende vivi, Americani vivi, le riflessioni su chi siamo.
Perché farlo allora? Che sia Dio, l’ideale eroico familiare o l’istinto di sopravvivenza, ormai è troppo tardi per dare una risposta. Abbiamo già sparato. I lupi sono arrivati.
Una volta si diceva che se canta un pettirosso andrà tutto bene”.

Ora al cinema distribuito da Lucky Red, imperdibile.


BLACK DOG (Guan Hu, Un Certain Regard)

Vincitore del Premio Miglior film Un Certain Regard


Centinaia di cani riempiono lo schermo, una massa indistinta di zampe corre giù da una desolata duna grigia del deserto del Gobi, nella Cina occidentale. Sono randagi. Scappano perché qualcuno li sta braccando. Scappano perché sarebbe inaccettabile averli in giro per le strade mentre si stanno preparando i Giochi Olimpici di Pechino del 2008, il grande sogno enfatico, il grande eclisse spettacolare. Scappano perché quella terra decadente è stata completamente abbandonata a se stessa, le persone se ne sono andate, i luoghi sono scomparsi, e i pochi edifici rimasti verranno presto analogamente demoliti con la fatalistica promessa di una “Nuova Città”.
A differenza di “The Power of the Dog” di Jane Campion, dove il cane era più un’illusione ottica del paesaggio, un oscuro miraggio da ricercare in cima alle montagne per chi sapeva osservare oltre l’orizzonte, qui quei cani esistono per davvero, ovunque, in ogni strada e in ogni orizzonte, riescono addirittura a far ribaltare gli autobus itineranti nel niente.
L’ensemble canina del film è infatti una delle più ricche che si è visto di recente e fin dal momento della sua anteprima a Cannes è stata frontrunner per la Palm Dog di quest’anno, il premio istituito nell’ambito del festival dal 2001 e completamente dedicato ai quattro-zampe (e vinto, tra gli altri, l’anno scorso dall’iconico Border Collie Snoop - nome vero Messi - di “Anatomia di una caduta”). Come ne “L’isola dei Cani” di Wes Anderson, suo personale capolavoro in stop motion, in mezzo ai rifiuti e alle macerie i randagi banditi dalla civiltà cercano ancora di trovare uno spazio e una libertà, dopo che l’uomo l’ha imprigionata dentro gabbie, reti metalliche e ricche taglie di cattura.
Dopo un paio di titoli epici da grande pubblico, il regista Guan Hu passa ad un cinema fortemente introspettivo, che si concede il tempo e il silenzio di lunghe panoramiche. Al centro il rapporto intimo e profondo tra un ex-detenuto di poche parole, ex-rocker ed ex-biker del circo, una celebrità nella città prima dell’omicidio di cui si è stato accusato, e un esilissimo cane nero che dà il titolo al film, il più ricercato del quartiere tra tutti i randagi, per l’infondato sospetto di essere portatore di rabbia. Due reietti che si incontrano, dal primo divertentissimo momento in cui scelgono di urinare sullo stesso muro pericolante. Una sintonia graduale che passa per gesti, sguardi, più spesso intonati fischi flebili nel vento con cui il protagonista Lang comunica con il suo nuovo compagno di vita, il suo fedele amico, la sua dolcissima salvezza, mentre tutti cercano di catturarli ad ogni angolo distrutto, ad ogni pezzo di storia tradita (con tanto di comparsata di Jia Zhangke in un ruolo secondario). Anche Lang infatti è braccato, da quel passato di omicida che l’ha costretto in carcere forse ingiustamente e che ora continua ad ossessionarlo nei brutali familiari dell’ucciso che tornano a più riprese a minacciarlo e a malmenarlo (e qui si vede il talento di Guan Hu nel cinema più squisitamente d’azione, traslato dai suoi precedenti film). Ma Lang e il suo cane, che da randagio viene presto registrato al comune (per evitare un’altra assurda disposizione che rende perseguibili anche gli animali domestici), si aiutano a vicenda, sfuggono testardi ai loro destini, vagano come nel videogioco “The Last of Us” per un mondo alla deriva, ultimo residuo di vita, apocalisse senza la fine del mondo (“Dove stiamo andando? Andiamo soltanto”).
In cielo tutti gli occhi sono per vedere l’eclisse. L’eclisse degli ultimi, di tutti coloro che hanno perso la strada, ma hanno trovato una luce.

Distribuito prossimamente da Movies Inspired.


L’HISTOIRE DE SOULEYMANE (Boris Lojkine, Un Certain Regard)

Vincitore del Premio della Giuria Un Certain Regard e del Premio Miglior attore


C'è una Francia che scalpita, corre, si perde: il senso del mondo e del tempo. La Francia di “À plein temps” di Éric Gravel o di “Un autre monde” di Stéphane Brizé, di fastidiosi tic nervosi perché la pressione è troppa persino per un dirigente d'azienda. Figuriamoci per un giovane fattorino della Guinea che consegna ordini in sella alla sua bici e che tra 2 giorni dovrà sostenere il colloquio più importante della sua vita, non di lavoro, ma della sua esistenza: se cioè avrà un ruolo in quella terra oppure no, se gli verrà accettata la richiesta d’asilo oppure no. Souley, come viene chiamato dagli amici, corre da una parte all’altra della città, fa il rider affittando l’account a pagamento di un suo “amico” perché non ha ancora i documenti per lavorare (e quindi con una tassa d’affitto completamente fuori mercato). Corre, corre, “non ho tempo di parlare” ripete, mentre un timer scandisce il tempo dell’unica doccia della giornata e le pesanti borse sotto gli occhi crescono ad ogni secondo di riposo mancato (come il Ricky Turner sul suo furgone delle consegne in “Sorry We Missed You” di Ken Loach), tra clienti scortesi, ristoranti in ritardo con gli ordini, poliziotti che abusano del loro potere e auto che sfrecciano non rispettando i semafori. Ma soprattutto quando può Souley impara a memoria la storia che qualcuno gli ha scritto (“Parla piano, prenditi il tuo tempo” gli raccomandano), la ripete ad alta voce più e più volte, ripassa nomi e date di quello che ha vissuto, quando è partito e quando è arrivato, perché i dettagli gli hanno detto che renderanno il suo racconto più verosimile, quando dopo quei 2 fatidici giorni verrà deciso tutto.
Forse fin troppo debitore al cinema dei Dardenne (a cui i riferimenti non si limitano ad un generale aspetto tematico, ma ne abbracciano anche quello stilistico e narrativo) l’opera terza di Boris Lojkine si inserisce in quel filone “in tempo reale” ansiogeno e claustrofobico. Respiriamo senz’aria in fase con Souley, nella sua corsa per la sopravvivenza, nelle sue infinite chiamate al telefono per risolvere problemi, contrattempi, ritardi, menzogne di tutti (di lui stesso compreso): una routine che inizia prima dell’alba con la sveglia che rimbomba nel dormitorio per ricordare a tutti di prenotare un posto letto per la notte una reazione a catena che tutto muove dal denaro (sui corpi e sulle ferite, più che sui nomi e sui numeri che Souley deve ricordare), anche solo per ottenere quella carta del partito a cui Souley si è iscritto senza interessarsi minimamente di politica, solo per aumentare le chance di vedere approvata la sua disperata richiesta d’asilo. O almeno così gli hanno detto, perché Souley si fida di tutto quello che gli dicono, con il suo animo buono e innocente che lo fa preoccupare costantemente per la madre malata rimasta giù in Guinea (“hai preso tutte le medicine?”) insieme a quella che avrebbe potuto essere sua moglie e che invece adesso è promessa ad un ricco ingegnere, ma lui è felice lo stesso, di tutto quello che può ridare loro in cambio. Un animo gentile (che ricorda per tanti aspetti quell’umanità purissima di “Io Capitano” di Matteo Garrone) che persino in quel vortice asfissiante lo fa fermare ad aiutare un anziano cliente a cui il figlio ha ordinato la cena a domicilio.
Tutto però va storto, il tempo stringe (persino per essere buoni) e la storia da raccontare all’ufficio della richiesta d’asilo politico si riavvolge su se stessa. 
La storia di Souleymane, la storia di tante storie, la storia che deve ancora cominciare.
Perché hai lasciato la Guinea?


LE ROYAUME / THE KINGDOM (di Julien Colonna, Un Certain Regard)


Nel paesaggio brullo di una Corsica estiva a metà anni ‘90 ancora non invasa dai turisti, tutti i giovani si riposano, quel sacrosanto momento delle vacanze in cui godere delle prime disincantate esperienze di vita. Ma non vale per Lesia, figlia del leader di un clan criminale locale. Mentre tutti sono in spiaggia, lei deve andare via, in un posto sicuro, senza telefono, senza poter vedere e sentire quello che avrebbe potuto essere un primo amore.
Come in “A Chiara” di Jonas Carpignano (che sempre di una famiglia malavitosa parlava, di ‘ndrangheta in quel caso) esistono dei padri (deplorevoli) e delle figlie (piene di vita). Come in “A Chiara” esistono dei segreti di quei padri che quelle figlie non devono sapere. Come in “A Chiara” ci sono domande che quelle figlie non devono fare. Anche in “Le Royaume” infatti si susseguono i “qualcosa”, “qualcuno”, “da qualche parte”, generiche risposte che rendono la propria famiglia un buco nero senza ritorno, un tornado da cui è impossibile tornare (“Perché nessuno mi dice niente”). E se mai capitasse di sentire una virgola, un suono, un nome, quel “qualcosa”, “qualcuno”, “da qualche parte” dovrà diventare “nulla”, “nessuno, “da nessuna parte”.
Quei padri sono sconosciuti esattamente come le infinite persone che entrano ed escono continuamente dalla propria casa, che salutano, sorridono, danno la mano, ma non sappiamo quanti colpi abbiano sparato l’attimo prima, di quanto sangue si siano sporcati le mani prima di stringere la nostra.
Ne conosco pochi, forse nemmeno mi importa / Ma sorrido e chiedo: “Volete un bicchiere d’acqua?” / Stringono i miei zigomi più forte negli spazi tra le nocche” canta Angelina Mango nella sua magnifica “In fila indiana”.
Lesia (un’incisiva esordiente Ghjuvanna Benedetti) non ci sta, proprio come la Chiara dell’omonimo film già citato. Con i suoi grandi occhi spalancati vuole vedere, capire, in modo complementare agli occhi presto ciechi dell’adolescente Ava del film omonimo di Léa Mysius, che crescendo troppo in fretta si bagnano irreversibilmente nel torbido, in qualcosa che, per citare “La Chimera” di Alice Rohrwacher, “non è fatto per gli occhi degli uomini”. Così Lesia scruta, pedina, va oltre il limite che le sarebbe concesso, con la curiosità e l’incoscienza di una ragazzina che mette in pericolo se stessa e la sua famiglia, ma anche con il dolore dell’assenza di una figlia che ha dovuto sentire troppo spesso “ci vediamo presto” da chi doveva essere invece lì ad abbracciarla prima di andare a dormire.
L’opera prima di Julien Colonna, un affresco a tutto tondo della vita insulare e isolata corsa (con quel dialetto che ruba e assorbe dall’italiano e dal francese e che difficilmente si è sentito sullo schermo), funziona di più quando affronta questo turbolento rapporto padre-figlia e annoia invece nelle scene più apertamente crime, che appesantiscono invece la pellicola.  
Quella figlia non può infatti che avvicinarsi al padre, ideale polo magnetico impossibile da lasciare andare, anche a costo di sacrificare se stessa (va a caccia con lui anche se odia cacciare) pur di passare del tempo insieme. E quel padre, imprigionato nei perché che non può dare e nel cambiamento che non vuole accettare (“Perché non possiamo andare via? “È così e basta” - l’esatto opposto di Emilia Peréz), non potrà che a suo modo rimanere fermo, senza scappare, perché la scheggia impazzita di sua figlia, il satellite che ha trovato ora una gravità, gli ruota attorno.
Sembra di rivivere in parte (con esiti ben meno riusciti) quel disperato riavvicinamento di “Aftersun”, dove un padre e una figlia, sconosciuti con lo stesso sangue, si concedevano un’ultima vacanza per accumulare gli ultimi ricordi prima che il tragico li distorcesse per sempre. Cartoline sbiadite ancora con l’odore di salsedine, tappeti blu su cui distendersi a guardarsi prima di cadere al lato opposto dell’orizzonte.

Lesia e il padre vivono una fantasia, una fuga travestita di normalità, perché intanto sul vecchio boss, che si taglia la barba non per ringiovanirsi agli occhi della figlia ma per essere più difficilmente individuato da chi lo sta cercando, si aggira una condanna a morte dai suoi nemici. La violenza ormai non è più solo astratta immagine bidimensionale nei notiziari. “Respiriamo la paura, la mangiamo, è ciò che ci tiene in vita”.
Come in “Aftersun” tutto cambierà da quel momento. 
I ricordi saranno diversi, sapranno di padre, per una volta senza giubbotto antiproiettile.


ARMAND (Halfdan Ullmann Tøndel, Un Certain Regard)

Vincitore del Premio “Camera d’Or” per la miglior opera prima


Due giovani madri vengono convocate d’urgenza a scuola, qualcosa riguarda i loro figli, qualcosa di violento, di impossibile da giustificare. Uno scontro dialettico claustrofobico, di verità e bugie, di manipolazione e punti di vista contraddittori. Speculazioni, sospetti e supposizioni: tutto in una stanza e i pochi corridoi intorno di un edificio scolastico elementare fatiscente, con l’intonaco sul punto di cadere e l’allarme antincendio rotto, tutto concentrato in poche ore, quando gli studenti sono usciti e nessuno si aggira tra i banchi, se non l’impalpabile verità. Tutto non per garantirsi l’innocenza come nel processo autoptico di “Anatomia di una caduta” (innocenza giuridica s’intende, perché quella relazionale sarà sempre messa in discussione in ogni caso) ma per conservare l’immagine di un figlio perfetto, che “non l’avrebbe mai potuto fare”. Ma come insegna “Dark Night” di Tim Sutton chiunque può essere in realtà quel bullo, quel criminale, persino quel terrorista. C’è qualcosa di culturale che si annida nelle azioni del singolo. Era l’ideologia americana che plasmava i gesti in “Dark Night”, sembra più una paura edipica quella di “Armand” (e per questo quindi più vicina al similissimo e sempre americano “Mass” di Fran Kranz su due coppie di genitori che anni dopo una strage scolastica si reincontrano ai poli opposti delle colpe e del dolore: vittima e assassino).
A differenza infatti di “The Teacher’s Lounge” che recentemente raccontava di analoghe dinamiche scolastiche dalla prospettiva però di un’unica insegnante che doveva confrontarsi con un’infinità di storie e costruire una verità che le includesse tutte, qui è tutto affidato ai genitori. Non i figli quindi il (reale) motivo di quell’accesa discussione di sguardi inconciliabili, non i “terzi infelici” di Schopenhauer, ma i primi due infelici che li hanno generati con infelicità. “È di nuovo Armand”, il figlio di una delle due madri, si dice all’inizio, come se fosse sempre lui il problema, sempre i figli, sempre gli altri, quei bambini con “tante fantasie e poche difese”, incapaci giuridicamente di intendere e di volere. Ma quei bambini in realtà nella purezza dei loro strumenti custodiscono anche l’egoistica ossessione dei genitori per se stessi, per il proprio riflesso, per il mancato e imperfetto corrispondersi tra chi condivide lo stesso DNA, un sogno impossibile da strappare via. Così si giudicano i figli in funzione di come si giudicano i genitori, per una volubile e temporanea coincidenza con chi ha dato loro la vita che li inghiotte nell’oscurità più cupa.
Nonostante una scrittura fin troppo paradigmatica e una seconda parte che inutilmente si brucia nel mistico (come in “May December” di Todd Haynes dietro ogni commovente foto di famiglia si nasconde infatti una farfalla imprigionata nel proprio bruco), l’esordio del nipote di Liv Ullmann e Ingmar Bergman è tenuto in piedi soprattutto dalla sua formidabile protagonista. Un’altissima Renate Reinsve con pantaloni di pelle e rumorosi sandali con il tacco, ansiosa, psicotica, trasformativa, che in un istante ride di gusto e in quello successivo piange singhiozzando e ansimando per lunghi interminabili minuti. Dopo aver abbracciato la crisi generazionale dei trentenni ne “La persona peggiore del mondo” Reinsve si immerge qui magistralmente in quella più in là, dei genitori frustrati, nervosi, vulnerabili, che vomitano sui figli quello che vorrebbero vedere per se stessi, rendendoli protagonisti dei propri incorreggibili disturbi traumatici, riempiti come sono delle fantasie dei genitori, non delle proprie.

Continuano a ripetere che non è nulla di grave, è stato un incidente. Ma forse l’unico incidente è stato diventare genitori, l’unica folle colpa è esserlo voluti diventare. Ma va tutto bene così. Si ama come si può.

Distribuito prossimamente da Movies Inspired.


SAVANNA AND THE MOUNTAIN (Paulo Carneiro, Quinzaine des cinéastes)


C’era un volta un piccolo villaggio nel nord del Portogallo, un luogo desolato senza turisti e visitatori, in cui la vita sembra essersi fermata 50 anni fa, tra le montagne sovrapposte, i campi rigogliosi, gli allevamenti incontrollati, i vestiti lavati a mano. Ma un giorno gli animali sembrano stranamente più nervosi del solito: i cavalli scappano via, le pecore belano lamentosamente, qualcosa sta cambiando. La fiaba perfetta rurale deve infatti scontrarsi con il progetto imprenditoriale di una multinazionale inglese, che proprio lì a Covas do Barroso vuole costruire la più grande miniera di litio a cielo aperto, riabilitare quella terra, o meglio sfruttarla, per alimentare le macchine elettriche del Nord Europa. Ma chi ha chiesto agli abitanti cosa vogliono? A chi appartiene davvero quella terra? Come in “Alcarràs” di Carla Simón (che di un simile impossessarsi parlava, per diritto ma non per cultura, nelle valli della Catalogna) l’approccio è graduale, si cerca innanzitutto di mediare, la via della pace, offrendo in dono tutto quello che quella terra che vogliono esautorare ha da offrire: erano pesche in “Alcarràs”, sono salsicce in questo caso. Ma com’era prevedibile nessun dono basterà. Dai ricchi burocrati (o chi per loro) otterranno solo la proposta di soldi e qualche posto di lavoro in più, ma alla fine è una questione di principio: quella terra non appartiene a chi la vuole occupare, “per quello che è nostro” non rimane che lottare.
Anche il magnifico “As Bestas” di Rodrigo Sorogoyen partiva da un analogo progetto di energia rinnovabile in un piccolo villaggio della Galizia, ma dove lì erano proprio gli “stranieri” a voler rifiutare la transizione ecologica e gli ostinati principi degeneravano nella violenza più sanguinolenta tra gli stessi compaesani (fango, sudore e sangue), qui alla brutale pratica estrattiva gli abitanti di Covas do Barroso rispondono con canti popolari alla chitarra (“Perché ora è tempo di combattere” incalza il ritornello) e fucili caricati a salve, al più con zappe, falci e forconi. È la forza della scena, del teatro, dell'arte che cerca di sconfiggere il niente. Parate, fiaccolate, costumi e carri fantasiosi: la libertà attentata nel “Far West di Covas do Barroso”, gli indiani contro i cowboy, la cultura contro il denaro.
Dopo due avventurosi odeporici documentari, Paulo Carneiro realizza un’opera ibrida, tra realtà e finzione (la lotta sta effettivamente continuando da oltre 10 anni, con il territorio riconosciuto dalla FAO come patrimonio agricolo mondiale), che tanto racconta del mettere in scena, della forza salvifica con cui diventare corpo e voce di una battaglia, il paesaggio culturale con cui demolire (in questo caso sì) quello antropomorfo. Sono i confini geologici che creano la nostra casa, anche nelle zone più remote, quelle rocce che diventano parlanti, urlanti, agonizzanti, solo per il fatto di averle calpestate con le proprie tradizioni. L’operazione inversa a “The Damned” insomma: dove nel film di Minervini per diventare Americani bisognava lasciare la propria casa e approfondarsi nel niente desolante, qui bisogna ad ogni costo rimanere lì, nella propria casa, nella propria terra, nelle proprie storie, un paesaggio visivo e sonoro sconfinato in cui perdersi con il binocolo in lunghissimi zoom che giocano a trovare l’intruso. Al di là dell’innegabile atmosfera ipnotica (al pari dei documentari di Michelangelo Frammartino, con esiti qui ben più deludenti), costruita nella forma di un documentario western, la struttura però troppo spesso si ritorce in uno sviluppo centrale carente che non approfondisce mai davvero i personaggi che sta raccontando, facendo perdere nel semplicismo persino il nobilissimo motivo di lotta (e in effetti non deve stupire che il regista sia partito a scrivere il film proprio dalla prima e dall’ultima scena, quelle indubbiamente più memorabili).
Nello scorrere delle stagioni, dall’autunno alla primavera, in continui cicli di opposizione e arresto, la comunità sogna come unico futuro sostenibile e possibile quello che non cambia, senza invasori né parassiti. Tutte le generazioni si uniscono alla protesta, ma rispetto al già citato “Alcarràs”, dove i più giovani giocavano spensierati negli ultimi residui di natura, qui i più piccoli del villaggio diventano i messaggeri, la fanteria sacrificabile giù a fondovalle ad indagare su quello che sta accadendo, a riordinare i sogni premonitori di quello che sarà presto.

Dei razzi di capodanno rimbombano nel cielo ad annunciare la fine dell’armistizio. Una schiera di trattori avanza al fronte, ora in prima linea. La guerra può iniziare.
Perché come insegna “A Ghost Story” di David Lowery, ogni storia di demolizioni è una storia di fantasmi. La storia di Covas do Barroso è una storia di fantasmi armati di tradizioni e storie, tutte da raccontare.


APPRENDRE / ELEMENTARY (di Claire Simon, Special Screenings)


Claire Simon continua il suo grande progetto documentaristico sui luoghi in cui essere umani di professione. Dopo l’ospedale ginecologico di “Notre Corps” (e qui recensito dallo sottoscritto, recuperatelo su MUBI) Simon immerge la macchina da presa all’interno di una scuola elementare alla periferia di Parigi, osserva, sempre con il suo inconfondibile stile privo di manierismi, le vite quotidiane degli e delle insegnanti, dei bambini e delle bambine che la abitano. Come già era per il precedente film, il mondo di Frederick Wiseman si inerpica qui lungo le pareti empatiche dell’umanità, come fondare cioè un luogo che non sia un semplice ammasso di cemento e pezzi di legno ma uno spazio dinamico che cresca insieme alle persone che lo popolano, curate o educate, in un microcosmo di storie che è un “valzer folle dei destini”.
Dalle classi dei più piccoli a quelle dei più grandi, dal primissimo momento in cui salutare i propri genitori al cancello d’ingresso a quello libero di una gita fuori porta sulla Senna. Più spesso vediamo volti dolci e piccole manine che imparano, a fare i primi calcoli con le dita, a sfogliare curiosi il dizionario per scoprire il magico mondo delle parole e delle misure o inventarne uno nuovo alternativo e più creativo (come quello xilofono che diventa un vecchio telefono, l’Argentina che diventa un antico monumento storico, la Tour Eiffel che diventa alta 100 centimetri, un universo semantico degno di tutte le imprescindibili lezioni di Gianni Rodari).
“L’hai fatto e dicevi che era impossibile”. Quei bambini possono infatti fare tutto. E Simon posiziona il suo sguardo proprio alla loro altezza, dove tutto si tinge di colore, stupore, incanto, tangibile materia umana dove i polmoni sono bottiglie riempite d’acqua e l’amicizia si annida ancora in quelle piccole manine che senza paura stringono quelle dei loro coetanei.
Un quadro multietnico (aspetto essenziale della scuola francese e quindi di riflesso nel film - come il bambino ossessionato dall’Algeria che riscrive lì attorno tutta la geografia) in cui ognuno arriva con il suo carattere, il suo vissuto, la sua ineguagliabile esperienza, un coro di voci, come quello di Emilia Peréz, in cui ognuno canta con un’indole, un’intenzione, un’intensità diversa, ma è proprio quella variabilità sonora che crea la meraviglia polifonica di una scuola, di una pedagogia, di una società che si difenda umana, insieme di autoritratti, come quelli che disegnano i bambini, diversi per colori, forme, dimensioni, eppure sempre giusti, perfetti, verosimili.
Così si impara a perdere più che a vincere, a scusarsi più che a dimostrarsi forti, perché per ogni bambino che ha difficoltà c’è qualcosa di cui ha bisogno piuttosto che di una fredda etichetta diagnostica da assegnargli. Discussione, dialogo, dibattito: è il collettivo ciò che importa, è nel rapporto con l’altro che c’è la crescita. Quella sfumatura educativa in cui non conta solo il momento finale, i voti, il diploma, ma il processo stesso come fine ultimo. Quel concetto della paideia greca traslata anche nell’italiano che, al di fuori dell’ingiusta accezione aulica attribuita, abbraccia il percorso formativo come parte integrante dell’arricchimento culturale di un individuo e del suo diventare parte di una società civile, politica e morale.

Tra tutti quei bambini la fortuna più grande è trovare insegnanti che possano trasmettere un entusiasmo ancora più contagiante del loro, capaci di sorprendersi (e sorprenderli) come non si usa più fare “tra gli adulti”. Quegli insegnanti che non saranno fatine magiche dei denti che portano i soldini, ma ti terranno la mano e stretto in un abbraccio come solo un essere umano saprà fare.


VINGT DIEX / HOLY COW (Louise Courvoisier, Un Certain Regard)

Vincitore dello Youth Award Un Certain Regard


Giovani sciolti nella noia, dissolti nello svago: birre, ballo e il presente rurale francese senza futuro. Sta tutto nella prima indimenticabile sequenza: un vitellino sui sedili anteriori di una vecchia auto, lo sfondo di un’ironica geografia generazionale di abbandono, aspettando la prossima fiera in cui ubriacarsi per andare a dormire all’alba, quando la nebbia scende e i pascoli iniziano all'aperto la giornata. È lo stesso mondo anagrafico perduto e meccanico che animava l'esordio di Bruno Dumont "L'età inquieta": i plumbei occhi di Freddy pieni di vuoto che si elettrizzavano solo per le incontrollate crisi epilettiche. In “Vingt Dieux” però arriva la realtà a distruggere in un istante quel disilluso mondo di spensieratezza e sregolatezza, così il 18enne Totone (l’esuberante esordiente Clément Faveau), dallo sguardo e l’aspetto ancora glabro, in una delle tante notti di perdizione scopre il padre morto in un incidente stradale (anche lui come il figlio alza un po’ troppo il gomito con l’alcol), vedendo crollarsi addosso come un pesante secchio di letame tutte le responsabilità che non si è mai preso. Non può più starsene seduto a fare niente su grossi pneumatici abbandonati, da un momento all'altro deve occuparsi della sorellina, trovare i soldi per farlo, costruire il carattere maturo per riuscirci. In quell’aspro paesaggio di sole cocente, nelle zone orientali del Giura, in cui l’odore di buoi si sedimenta sulla pelle, il modo più rapido, efficace, normale è produrre formaggio, il rinomatissimo Comté, ma bisogna essere i migliori della regione, superarsi e superare, vincere il premio di agricoltura locale di 30.000€ (con gli stessi esiti di tensione del concorso di montoni dell’islandese “Rams”). Ma i soldi rappresentano in realtà l’ultimo obiettivo in quella che è a tutti gli effetti una crescita formativa, l’elaborazione della fine della giovinezza più che l’elaborazione di un lutto. Totone, i suoi amici e la sua sorellina sognano di produrre il formaggio come una volta si sognava di andare sulla Luna. Così si improvvisano agricoltori, si arrangiano con mezzi di fortuna, emulano compulsivamente vecchi tutorial online e dimostrazioni pubbliche casearie, rubano il latte approfittando del primo amore di Totone nato (e fallito) tra le balle di fieno.  
Sembra un po’ il contraltare agreste dello splendido e metropolitano “Amanda” di Mikhaël Hers: lì era il terrorismo a riavvicinare nel lutto un tenerissimo rapporto familiare (zio-nipote) sullo sfondo di una malinconica Parigi costellata di parchi verdeggianti. L'esordio di Louise Courvoisier, dopo il meraviglioso corto su una coppia di acrobati itineranti, dettaglia invece la realtà provinciale, la rende delicata in ogni secchio di latte versato o rubato, in campi seminati che si spengono di notte come le candele, in quelle continue imprecazioni (il titolo “Holy Cow” rappresenta proprio l’esclamazione più frequente di tutto il film) che accompagnano i ricorrenti tentativi falliti di crescita più che di agricoltura. Pur lasciando da parte qualche linea narrativa che avrebbe meritato più approfondimento (per esempio il rapporto tra Totone e la sorellina che è in effetti l’origine di tutto il racconto e che invece rimane sullo sfondo), “Vingt Dieux” colpisce per l’umanità che riesce ancora a regalare. Quando si cresce i sogni non devono farsi da parte.
Because she had kisses sweeter than wine”.

3 commenti:

  1. grazie delle recensioni, messi in lista, speriamo arrivino in un numero di sale decente

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    1. Grazie a te, Ismaele! Speriamo che i premi che hanno ricevuto li aiutino ad arrivare un po' ovunque

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  2. Grazie mille della recensione!!!
    Potrebbe iscriversi come lettore fisso al mio blog per cortesia?
    https://raimondiit.blogspot.com/

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