Siamo arrivati al quarto appuntamento con il nostro recensore-poeta Roberto.
Attenzione, film (e non cartone animato, Roberto ha scelto tutte immagini molto particolari) dello stesso regista del magnifico Room e del piccolo ma davvero bello Garage.
Credo sia veramente un film molto bello, buona lettura.
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Lenny Abrahmson ci regala un altro bellissimo film.
Jon è un giovane aspirante musicista che si imbatte nell’incredibile mondo dei Soronprfbs.
Una band dal nome assurdo il cui leader è Frank (un immenso Michael Fassbender), un genio della musica che indossa costantemente una testa di cartapesta.
Frank, Jon e il resto del gruppo andranno in “ritiro” per registrare il loro album.
Tra ossessioni per i manichini, ciuffetti nel tappeto, modi alternativi di radersi la barba, canzoni e musiche stupende, questo film regala emozioni e immagini che lasciano il segno.
Jon guarda l’oceano. Canta, ma nella sua testa. Il foglio è bianco. Le parole si rincorrono lungo pentagrammi di note immaginarie. È un musicista imprigionato in un impiegato. Sogna dalla mattina alla sera, e la notte si sveglia e vive nel suo sogno, come il sognatore di Lynch e quello di Borges.
Una persona cerca di annegarsi nell’oceano. Jon è lì, la scena è surreale. L’uomo che sta tentando di suicidarsi in questo modo assurdo è il batterista di una banda dal nome ancora più assurdo: i Soronprfbs. Jon viene avvicinato da Don, che quando scopre che lui è un tastierista, lo invita ad unirsi alla band per un concerto la sera stessa. Sarà un disastro. Un “fallimento spettacolare”, come direbbe Homer Simpson. Entriamo nella minestra, siamo su un crostino di zenzero e navighiamo nel sound di un mondo sconvolgente, splendido, tumultuoso, fantastico. Il mondo di Frank.
«Frank» è speciale. Come Frank. Parla di arte, della creazione di un’opera (che ambisce a diventare) artistica. Parla del genio, dell’artista, della follia, della sofferenza, dell’ossessione, del diventare e del diventarsi. Così Jon si unisce alla band, è lui il nuovo tastierista. Poi c’è Clara, che ama Frank di un amore misterioso, sotterraneo, viscerale, e “suona l’aria” con il suo theremin (e odia Jon). C’è Don, folle e incredibile, che ha passato anni in una clinica psichiatrica, perché amava scopare manichini (splendida, a tal proposito, la scena in cui lui canta a Jon la canzone d’amore scritta da lui anni prima). Un personaggio splendido. E ci sono Nana e Baraque, al basso e alla chitarra, che mal sopportano la presenza di Jon, a completare i Soronprfbs. Il cui leader, ovviamente, è Frank, che indossa costantemente una maschera, una testa fatta di cartapesta che non toglie mai. Vanno in Irlanda a registrare il loro album. Vi resteranno praticamente un anno. Sarà incredibile.
Il film viene narrato dalla prospettiva di Jon. È sostanzialmente un viaggio di scoperta. Di sé, del mondo, della vita, degli altri. E le domande sono tante, e fanno tutte paura per quanto sono belle. Che cosa vuol dire costruire un legame? Che cosa significa fare arte? Quanto è piacevole, quanto è terrificante? L’idea, estremamente diffusa, che la creazione artistica, che la “vera” arte, in ogni sua accezione (musica, pittura, scrittura, eccetera), derivi dalla sofferenza, dal dolore, perché colui che sta male è capace di raggiungere vette sconosciute agli altri, è sbagliata, infondata, insensata. Jon la pensa così. Si chiede quanto abbia dovuto soffrire Frank per arrivare a concepire una musica tanto bella, per essere capace di cogliere certe sfumature emotive, certe gradazioni dell’esistenza invisibili agli occhi di chi non è come lui. Si domanda quanta sofferenza abbia dovuto affrontare durante la sua infanzia, rinchiuso negli istituti, senza amore, senza carezze, da solo con la fiamma della musica che diventa fuoco inestinguibile nelle sue vene. L’arte, dunque, è figlia del dolore? No. O meglio: forse. Può esserlo, sì, ma in pochissimi casi. «Deve essergli successo qualcosa che l’ha reso così» si ripete. «Quanto deve aver sofferto per creare una musica così sublime». L’arte è figlia di se stessa. Si nutre di se stessa. Nel finale del film saranno i genitori di Frank a spiegare a Jon che quella del loro figlio è stata un’infanzia felice, ha vissuto in una famiglia amorevole, in una casa carica di vita, di sorrisi, di carezze. La sofferenza, come dice sua madre, non l’ha aiutato, semmai l’ha limitato. Però è così: l’idea dell’artista tormentato, sofferente, autodistruttivo, è terribilmente affascinante, à la page. Ma l’arte non è figlia della sofferenza. Forse il contrario. La creazione – in quanto tale, in quanto genesi, nascita, parto – implica sangue, sudore, dolore, sofferenza, ma anche e soprattutto luce, gioia esplosiva, desiderio. «Frank» è questo: una storia d’amore tra l’uomo e l’arte, che si declina lungo le diverse e imprevedibili traiettorie di senso che si dipanano dal cuore pulsante di un crostino di zenzero immerso nella minestra della vita. «Frank» è questo: una dichiarazione d’amore istintiva, passionale, senza mediazioni, è Kiss me Nefertiti, è sismi necessari: perché l’arte è un terremoto dell’anima, un’onda implacabile, incontenibile, assassina, catartica, liberatoria, per questo dobbiamo assicurare i perimetri galattici e restare al sicuro e andare alla deriva, perché fare arte vuole dire indossare una maschera autentica, non il solito finto viso vero. Come Groucho Marx che indossa finti baffi veri sui suoi veri baffi finti. O almeno credo con precisione. «Frank» è anche questo: un manifesto d’amore senza tempo ma con tutti i temporali. Perché c’è una profonda differenza tra “sposare il guardiano del faro” e spostare il gradino del fare: se ne accorge Clara, sul finale del film, quando canta tra le lacrime e Frank, senza maschera, si avvicina al palco.
Non lo riconoscono. Jon, che l’ha accompagnato lì nel locale, per permettere al gruppo di ritrovarsi, li guarda dal bancone del bar. Poi andrà via, perché lui non appartiene a quel mondo, se ne renderà conto in ritardo. Era rimasto accecato dalla luce di Frank, al punto da voler diventare (come) lui a ogni costo. Eppure Don lo aveva avvertito: «prima o poi, Jon, avrai questo pensiero: “perché non posso essere Frank?” oppure “forse posso essere Frank”. Però, Jon, può esserci un solo Frank. Uno solo». Don sa di cosa sta parlando, lo ha vissuto sulla sua pelle. Forse pensava a questo mentre stringeva il cappio intorno al suo collo. Indossa la maschera di Frank e si impicca. Ciao, Don. Sarai polvere, la tua tomba un barattolo di integratori. E ti dimenticheranno nella casa in Irlanda, nel deserto del Texas spargeranno la polvere di un vero integratore. Secondo me la cosa ti ha divertito. Perché «Frank» è un film divertente. Fa sorridere. Come quando Don corre nudo verso il mare per annegarsi, urlando «non voglio essere me, non voglio vivere!» e Clara lo ferma lanciandogli un bastone in testa da lontanissimo. Come quando la famigliola tedesca arriva nella casa in cui stanno registrando l’album perché la avevano prenotata per le vacanze, e Frank parla con la madre. Non sapremo mai cosa le ha detto, ma li vedremo danzare, volteggiare e lei che lo ringrazia dicendo: «grazie per avermi liberata, per avermi illuminato l’anima di una nuova verità». Ecco, «Frank» ci dice che non bisogna soffrire per creare, ma bisogna amare. Lui ha bisogno degli amici, della famiglia, dell’amore, per essere e per essere Frank. E anche noi.
Non lo riconoscono. Jon, che l’ha accompagnato lì nel locale, per permettere al gruppo di ritrovarsi, li guarda dal bancone del bar. Poi andrà via, perché lui non appartiene a quel mondo, se ne renderà conto in ritardo. Era rimasto accecato dalla luce di Frank, al punto da voler diventare (come) lui a ogni costo. Eppure Don lo aveva avvertito: «prima o poi, Jon, avrai questo pensiero: “perché non posso essere Frank?” oppure “forse posso essere Frank”. Però, Jon, può esserci un solo Frank. Uno solo». Don sa di cosa sta parlando, lo ha vissuto sulla sua pelle. Forse pensava a questo mentre stringeva il cappio intorno al suo collo. Indossa la maschera di Frank e si impicca. Ciao, Don. Sarai polvere, la tua tomba un barattolo di integratori. E ti dimenticheranno nella casa in Irlanda, nel deserto del Texas spargeranno la polvere di un vero integratore. Secondo me la cosa ti ha divertito. Perché «Frank» è un film divertente. Fa sorridere. Come quando Don corre nudo verso il mare per annegarsi, urlando «non voglio essere me, non voglio vivere!» e Clara lo ferma lanciandogli un bastone in testa da lontanissimo. Come quando la famigliola tedesca arriva nella casa in cui stanno registrando l’album perché la avevano prenotata per le vacanze, e Frank parla con la madre. Non sapremo mai cosa le ha detto, ma li vedremo danzare, volteggiare e lei che lo ringrazia dicendo: «grazie per avermi liberata, per avermi illuminato l’anima di una nuova verità». Ecco, «Frank» ci dice che non bisogna soffrire per creare, ma bisogna amare. Lui ha bisogno degli amici, della famiglia, dell’amore, per essere e per essere Frank. E anche noi.
Ossessione e Possessione. L’arte si tesse entro questi due terminali. Almeno secondo Marina Cvetaeva. E io le credo. Anche lei si è impiccata come Don. E indossava la maschera della sua poesia, che poi era il suo vero volto. Ossessione: perché non esiste attimo, pensiero o gesto che non contempla ciò che ami. Possessione: perché sei la creatura della tua creazione e perché “niente rimane senza di te”. In fondo, e «Frank» lo dice chiaramente: per essere artisti basta davvero molto. Il poco è per gli stupidi, il tutto è per gli incapaci, il giusto è per chiunque. L’artista è altro, è altrove, è altroquando. È Frank. Forse anche Jon lo è, un vero musicista, un artista vero, forse lo diventerà, ma non con loro, con i Soronprfbs: lui non appartiene al loro mondo, ma era necessario per lui imbattersi in Frank. È stata la sua catastrofe, nel senso matematico del termine (della notte): ovvero morfogenesi, mutamento di forma, rinascita, ridefinizione identitaria. Per questo lascia il bar mentre il gruppo suona e Frank canta, tra lacrime e sorrisi. E poi partono i titoli di coda. Splendido. I love you all.
Ma cosa c’è in quella testa dentro quella testa? Cos’è l’ispirazione? Come si corteggia l’infinito? Il figliol prodigo vuole tornare… Sguardi. Libertà. Fuoco. Ancora. Musica. Vi amo tutti. Crostino di zenzero portami via. È molto bello rivedervi.
È una voliera e voi siete uccelli.
Ho un certificato.
La sirena galattica risuona.
Accendiamo la luce e lasciamo che brilli.
Libera la tua creatività.
Oeccscclhjhn.
Infrequenze stridenti di immensità pulsanti.
Stringimi tra le tue braccia.
Lipstick Ringo.
Cincillà.
Visto qualche anno fa ma non ricordo assolutamente niente, sono andata su YouTube a rivedere qualche spezzone, ma l'ho davvero resettato 🤔
RispondiEliminaDedico a questo film non una poesia ma un corto "Danny boy" future shorts.
Frank sarà felice di rivederti, ne sono certo ;)
EliminaE di certo apprezzerà anche la dedica. A proposito, ho visto il corto - che non conoscevo. All'inizio mi aveva fatto pensare a questa musica e a questo video:
https://www.youtube.com/watch?v=DxrHNQZhvKw
All'idea di interdipendenza, al completarsi, al con-fondersi come unico modo di essere, la sola possibilità di salvezza. Poi mi sono detto che in realtà vuole dire altro. E non credo abbia a che fare con il "conformismo", con il tranciare le proprie ali per volare negli stessi cieli degli altri. Io credo che questo corto parli d'amore. O meglio: dell'innamoramento. Perché decapita di perdere la testa per una persona e diventare (come) il mondo.
Accidenti, si è cancellato tutto quello che ho scritto, ci riprovo. Frank dovrà aspettare un po', sono in attesa del mio elicottero per tagliarmi i capelli ma c'è il coprifuoco al momento....
EliminaIeri ho visto il corto dopo aver letto la tua recensione e l'ho voluto contrapporre a Frank dalla grande testa dove invece qualcuno decide di tagliarsela. Questo corto mi ha colpito, folgorata ma anche rattristata. Anch'io gli ho dato immediatamente la lettura di quanto di noi dobbiamo rinunciare per integrarci in questo mondo che ci vuole sempre più omologati, di come sei ai margini se il tuo sentire, il tuo pensare si discosta da un pensiero comune. La scena finale, la torre gemella colpita, il testo di sottofondo meraviglioso mi fanno pensare a un mondo che sta perdendo i suoi valori, l'indifferenza delle persone che si calpestano, si è perso la testa, i pensieri, il cervello e gli occhi. D'altro canto si parla anche di innamoramento, di una rinuncia di sé, di voler fondersi all'altro (come in Lobster), non un incontro, ma la paura, il non riconoscere nell'altro i miei ideali, scappare, e nell'incontro comunque c'è una rinuncia di qualcosa, atto generoso, persino realistico, ma mi ha lasciato comunque tristezza.
Burial in effetti ha molto in comune con questo corto, è più immediata la lettura ed è tenero, ma qui ci vedo accoglienza e non rinuncia di qualcosa. Danny boy si presta a diverse letture, l'ho riguardato, lo trovo profondo, ma perché lo trovo triste, struggente?
Complimenti per le tue scelte cinematografiche.
Su Frank.
EliminaLa testa sulla testa è l'elevazione a potenza, metafora, se vuoi, del tracimare della creatività. O più semplicemente, e più verosimilmente, è il correlativo oggettivo del recinto difensivo di un uomo assediato dall'esistenza. Entrambe le cose, forse. Dio benedica Frank. E viceversa.
Su Danny Boy.
Io ci vedo amputazione e non imputazione. Mi spiego peggio: la perdita della testa (che non è una sconfitta) è metafora di un amore nascente che fa tanto male quanto è vero, autentico, irrinunciabile. L'uomo che ama in un mondo di persone senza amore, un sentimento che è sicuramente senza capo (né coda) e senza sottoposti: è fermento, è nascita continua, e quindi bisogna dare un taglio netto a questa testa che ancora si ostina a non amare.
L'omologazione, la diversità, il conformismo (che credo siano proprio i temi centrali del corto), a mio avviso, sono argomenti fin troppo dibattuti, spesso mal posti, soffocati dalla solita insopportabile retorica. Il mondo ci vuole omologati? La società ci vuole conformi? La vita ci vuole elicotteri? Certo, e per fortuna. Il ché non significa non essere liberi, essere ingabbiati: vuol dire essere vivi. Del resto, se è vero che il mondo e la società ci conformano a loro, e altrettanto vero che ognuno di noi conforma il mondo e la società intorno al proprio sentire.
Ma capisco la tristezza di cui parli. E' comprensibile. Il mondo è testa(rdo), la vita è corpo(sa), l'amore è l'unione dei due: un testa-corpo (e se muori è perché hai ricevuto un corpo mortale alla testa).
L'avevo detto che mi sarei spiegato peggio.
gran bel film
RispondiEliminamprevedibile, complicato (e complessato), a tratti grottesco.... ma molto credibile e decisamente centrato. L'arte, il talento e il successo, un triangolo spesso non risolto, i vertici si inseguono ma raramente si incontrano; spesso la follia, la cattiveria, l'inadeguatezza di colui che ha il "Talento" porta alla NON COMPRENSIONE. Il film è una parabola su tutto questo e aggiunge molto di più. Penso che sia un buon film sulla musica, anzi un film che ha la rara capacità di narrare senza filtri le sinergie che si instaurano in un gruppo musicale, con particolare attenzione sulla pressione che deve sopportare il front man/leader.
Frank è un personaggio difficile da dimenticare e, potendo, vorresti regalargli il meritato successo, così ti trovi a giudicare Jon (il co-protagonista) in modo negativo; eppure non vi era altro finale possibile.
Consigliato ma non troppo. Citazione per un Fassbender sorprendente, ma ottimo tutto il cast.
mi leggerò volentieri la recensione. Grazie
Grazie a te, Stefano!
EliminaSei stato perfetto e puntuale nella tua riflessione, che condivido pienamente. Quel "triangolo spesso non risolto" spesso diventa un quadrato, perché entra in gioco il desiderio; e quasi sempre diventa un cubo, perché arriva il Caso a creare nuove dimensioni (esistenziali).
Frank è un personaggio indimenticabile, e c'è un Fassbender strepitoso, come opportunamente hai sottolineato. Voglio un gran bene a entrambi.
E, ti confesso, alla fine non giudico negativamente Jon, anche se tu hai ragione: non vi era un altro finale possibile. Doveva andare così. Non c'era altro modo per trasformare "I love your wall" in "I love you all".
L'amore abbatte ogni muro.
Ricordo d'averlo visto un po' di anni fa, rimane impresso quel faccione, il suo bel significativo e la sorpresa di vedere l'attore che lo interpreta ;)
RispondiEliminaLa faccia di Frank è stupenda! Così come il viso di Fassbender dentro quella testa. Sul set, come dice Domhnall Gleeson nei contenuti speciali del dvd, veder recitare MF con quel faccione indosso era ipnotico, inquietante e armonico.
EliminaL'ho visto anni fa quando uscì ma mi ricordo questa storia bizzarra, ma allo stesso tempo bellissima, poetica e commovente alla perfezione. Per non parlare dell'interpretazione di Fassbender che aveva così tanta profondità e complessità nonostante portasse una maschera per tutto il film.
RispondiEliminaDecisamente, Sonia. Questo film contiene al suo interno una miriade di sfumature narrative, dalla commedia ironica a quella grottesca e surreale, dal dramma esistenziale alla storia di formazione, condito da musiche magnifiche e interpretazioni eccezionali.
EliminaUno dei film più assurdi che abbia mai visto
RispondiEliminaAssurdo, sì, ma mai fine a se stesso, non si compiace mai della sua assurdità.
EliminaE poi è bellissimo.