28.1.21

Recensione: "Undone" - Le serie de Il Buio in Sala - Su Prime

  

Dal creatore di Bojack Horseman (che non ho visto) una miniserie di sole due ore e mezza che senza fatica considero un capolavoro.
Alma ha un incidente stradale dal quale si salva per miracolo.
Dopo il coma scopre di avere dei poteri speciali. Vede il padre morto, fa viaggi temporali, ha premonizioni, può modificare eventi.
Decide allora di farsi aiutare dallo spirito del padre nel ritornare nella notte in cui lui morì, per modificare il suo destino.
Vita, amore, malattia, filosofia, spiritualità, il tempo, le scelte, l'egoismo, il lutto, gli errori, c'è tutto in questa miniserie in animazione.
Un'opera totale, straordinaria.

Su Prime

E' abbastanza incredibile che una persona che non mi aveva mai consigliato niente in vita sua e che nemmeno mi conosce (grazie Marco) la prima volta che mi dice di vedere qualcosa becca un'opera in cui ci sono praticamente dentro gli ultimi miei due anni (un'altra coincidenza, vedilo se ce la fai, lo adorerai...).
Undone è una miniserie capolavoro (due ore e mezza, per favore vedetela di fila) che non posso non definire "totale".
Ha dentro veramente tutto, la vita, gli errori, la filosofia, la spiritualità, l'amore, la malattia, il Tempo, le scelte, i lutti.
Un'opera esistenziale se ce n'è una che, pur essendo notevolmente complessa nell'intreccio, scorre via che è una meraviglia specie perchè (a differenza ad esempio di film come Tenet) in quella complessità ricerca soprattutto l'emozione, non la comprensione assoluta.
Vuole sì "insegnarci" qualcosa ma non in modo scientifico (anche se la scienza la fa da padrone) ma in una maniera talmente umana ed umile che sarà impossibile non commuoversi.

Alma (significa anima, non è un caso) è una ragazza quasi trentenne che ha una paura tremenda del suo futuro. Semplicemente perchè ha la sensazione che la routine la ucciderà, che se si sistemerà col suo ragazzo vivrà una vita in partenza già definita, su due binari già prestabiliti (particolare come questa tematica ricordi molto uno degli ultimi film visti, Vivarium).
Un giorno ha un tremendo incidente in auto.
Rischia di morire, ma si salva dopo due settimane di coma.
Risvegliandosi si accorgerà di aver acquisito dei "poteri", per cui potrà vedere e parlare col padre morto, andare indietro e in avanti nel tempo, avere premonizioni (il bimbo affogato, scena che ricorda tanto La Zona Morta), vivere loop, modificare fatti. Insomma, di tutto.
Il padre (ex scienziato) cercherà di aiutarla ad usare al massimo i suoi poteri proprio per riportarla alla notte in cui lui morì, per potersi salvare.

Undone è un film d'animazione in Rotoscope, quella particolare tecnica con la quale i disegni vengono realizzati su scene interpretate realmente da attori (Waking Life, A Scanner Darkly etc..., per capirsi).
La scelta è perfetta perchè l'incredibile mondo nel quale entrerà Alma dopo il coma può così essere disegnato senza limiti d'immaginazione, invece che affidarsi ad un film in attori in carne ed ossa e magari effetti speciali pacchiani.


E' una tecnica talmente poco usata che all'inizio può causare anche un filo di fastidio (perchè è un "ibrido" che gli occhi conoscono troppo poco) ma che poi vi sembrerà talmente naturale da vederne solo la bellezza (basta la prima scena dell'incidente per capire il livello tecnico).

La miniserie è composta da 8 piccolissimi episodi di soli 20 minuti l'uno, poco più di due ore e mezzo che rendono Undone un film in tutto e per tutto.
Forse l'unico difetto che posso individuare è il non essermi trovato davanti ad un crescendo continuo dell'opera visto che, dopo i primi 4 episodi, c'è secondo me un leggero calo di ritmo e di emozione (per poi risalire nel finale).
Non che il climax narrativo ed emotivo di una miniserie debba per forza sempre essere perfettamente ascendente eh, ma è innegabile che quando qualcosa prende da morire è pericoloso, anche ai fini di un giudizio finale, avvertire un calo, in qualsiasi punto sia.
Ma sticazzi insomma, per me siamo davanti ad un mezzo capolavoro.

Come detto conosciamo all'inizio Alma coma una ragazza che si sente morire nella routine della vita (se ci pensate già qua viene introdotto il concetto del loop) e che ha paura le cose possano solo peggiorare. Ha una ragazzo meraviglioso vicino, Sam, un americano-indiano (dall'India intendo) davvero dolce e innamoratissimo di lei. Ma forse è proprio Alma che non si sente all'altezza dell'amore di lui e che ha paura che la felicità - che lui vede nella loro futura vita di coppia - possa non essere anche la sua.
Iniziamo a vedere uno dei tantissimi temi di Undone, quello dell'egoismo. Ma ogni volta che verrà fuori questa tematica (praticamente sempre, in ogni rapporto) avvertiremo un egoismo molto complesso, ad appena un cm dalla sottile linea rossa dell'altruismo. Tutti i personaggi infatti, ad una considerazione finale, ci sembreranno al tempo stesso completamente egoisti (Alma, Sam, la sorella, la madre, il padre) ma anche profondamente empatici e volenterosi di aiutare l'altro. E' davvero difficile vedere i confini, in ogni rapporto.
Sam è innamoratissimo di Alma, le sta vicino, la capisce quasi sempre, eppure quando lei va in coma approfitta del suo aver perso la memoria per tornare con lei (era stato lasciato).
Anche Alma lo ama, glielo dimostra spesso, ma continua però in una ricerca personale (ne parleremo dopo) che lo esclude completamente.
Stesso discorso possiamo fare per la sorella di Alma, innamorata del proprio futuro marito ("Sei sicura di volerlo sposare?" "Sì, lo voglio", dice alla sorella) ma anche capace di tradirlo in pochi giorni, sebbene per una stupida debolezza (era ubriaca).
O pensiamo a quella madre oppressiva che sembra quasi un personaggio "cattivo" (costringe Alma alle terapie e alle medicine, non vuole capirla etc...) ma che poi scopriremo aver fatto e fare tutto quello che fa assolutamente per amore, per salvarla (mi viene in mente lo straordinario The Nest).
O quel padre, figura centrale della serie, che sembra un padre modello, un padre che, anche se morto, sta aiutando sua figlia a scoprire sè stessa, i propri poteri (qui vi consiglio Gretel e Hansel) ma che in realtà probabilmente sta facendo tutto quello per sè stesso, non solo per tornare in vita, ma per portare avanti i suoi studi.

26.1.21

Recensione: "Thunder Road"

 

Un film comico, drammatico, strampalato e dolcissimo.
Come del resto così è il suo protagonista.
Jim è un poliziotto a cui è appena morta la madre e che sta divorziando, con la paura di perdere anche sua figlia.
Un uomo vicino al crollo, al meltdown, che finge invece di stare bene. E per farlo parla continuamente, anche del nulla, per coprire quel silenzio cosmico che ha paura di affrontare.
Film scritto, diretto e interpretato da un giovane attore e regista, Jim Cummings, un autentico fenomeno.
Un one man show il suo, per un personaggio indimenticabile in un film dalla dolcezza, delicatezza e sottigliezza psicologica veramente rara.
Magnifico


Parla, parla, parla, parla, parla, parla, parla e a tratti si mette anche a parlare Jim.
Parla continuamente, senza sosta.
Tutto quello che dice spesso non ha senso, non è importante, è banale.
L'importante è che parli continuamente.
E Jim (che tra l'altro è dislessico, particolare importante) parla per coprire un vuoto, per non sentire il frastuono del silenzio in un periodo della sua vita difficilissimo.
La madre è appena morta (lui era il figlio prediletto dei 3), l'ex moglie sta iniziando le pratiche del divorzio, la figlia che tanto ama rischia di restare con lei.
Jim è in un momento particolarissimo, quello che gli anglosassoni chiamano "meltdown", quello del possibile crollo.
E allora invece che "nascondersi" Jim usa la parola come arma per far finta di non vedere quel crollo imminente.
Film meraviglioso, di una sensibilità pazzesca, credo psicologicamente uno dei più delicati, dolci e interessanti visti questi anni.
Ecco, Thunder Road è un film un pò comico, un pò drammatico, un pò strampalato e tanto tanto dolce come un pò comico, un pò drammatico, un pò strampalato e tanto tanto dolce è l'indimenticabile protagonista, Jim.
E Jim è interpretato da quello che, con un solo film visto, considero già un autentico fenomeno, Jim Cummings (non è un caso che nel film abbia il suo vero nome).

Jim Cummings ha scritto il film, lo ha diretto, lo ha interpretato.
E in tutte e tre le fasi (scrittura, regia, recitazione) questo giovane (e anche figo) ragazzo americano mostra delle doti incredibili.



Thunder Road non è altro che un lunghissimo one man show, Jim Cummings è sempre sulla scena, come fosse un palcoscenico, e parla sempre, come fosse un infinito monologo. 
Eppure c'è "anche" il film, eppure funziona tutto, il plot, i personaggi secondari, le vicende.
Cummings fagocita l'intero film dentro di sè ma riesce a non darti mai l'impressione di essere autoreferenziale o esibizionista, anzi, il suo Jim diventa un personaggio straordinario a cui riesci a volere un bene infinito.
Basterebbe già il prologo (straordinario), 12 minuti si piano sequenza, di cui 10 con una lentissima carrellata avanti (ma il film sarà pieno di long take, tutti nascosti e perfetti) in cui ci viene presentato un personaggio fatto e finito.
Il suo ridicolo discorso al funerale della madre, quel suo infantile, quasi inquietante, eppure dolcissimo ballo abortito per colpa di un registratore rosa che non funziona, quel suo piangere d'improvviso e chiedere continuamente scusa (sarà una costante del film), ecco, dopo 12 minuti io "sono già Jim", lo amo già.
E più il film andrà avanti più vorresti entrare dentro ad abbracciare questo ragazzo devastato che finge a tutti di star bene, che finge a tutti di avere tutto sotto controllo e che invece sta solo parlando al mondo per non avere il coraggio di fermarsi, farsi un pianto, e ammettere che qualcosa non va.
Anche al lavoro va di merda tanto che Jim viene licenziato. E anche qui il suo sfogo è ridicolo e struggente alla stessa maniera, le parole cattive di un uomo buono, parole a cui non crede nessuno.

25.1.21

Recensione: "Ixcanul" (Vulcano) - Passeggiate, il cinema della poesia - 13 - di Roberto Flauto

 

Torna Roberto con un'altra delle sue stupende recensioni.
Il film sembra bellissimo (poi dalle poche parole che ho letto di Roberto anche di più).
Vi lascio prima alla sua presentazione e poi alla recensione.
Ah, al momento (gennaio 2021) il film è su Chili a 2.99
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Un vulcano. Una piantagione di caffè.
Una famiglia di contadini e braccianti.
Maria, la sua vita, il suo sogno, il destino già scritto.
Un film meraviglioso e potente.


Vorrei prenderle la mano, accarezzarle una guancia, sentire il profumo del vulcano nel suo sguardo.
Nei suoi occhi. Siamo già dentro l’oscurità della vita. In quel denso, vibrante e affamato magma che pulsa nelle vene di questa ragazza di una bellezza tagliente, che attraversa i mondi, viscerale, selvaggia, irrefrenabile. Allora vorrei passeggiare al suo fianco, sulle rocce, accanto a un rivolo di lava bollente, disegnerei un’aurora di fuoco nelle sue mani, così ogni suo saluto sarebbe l’annuncio di una nuova nascita. Ma non ce ne sarebbe bisogno, perché la bellezza è intrinsecamente genesi. Anche se non sorride mai. Eppure quanto desiderio scorre sotterraneo, quanti sogni che urlano, fino a causare terremoti cardiaci, rivolte dell’anima, figlia di un cuore che batte e vince su tutto e tutti.
Il suo viso. Quella labbra. Lo sguardo basso.

Lei si chiama Maria. Ha diciassette anni. La sua è una povera famiglia di contadini che vive in una campagna alle pendici di un vulcano, e lavorano in una piantagione di caffè. Siamo in Guatemala, lontani dalla “grande città”. Maria e i suoi genitori sono di origine Maya, non hanno praticamente niente, non parlano nemmeno lo spagnolo, e non conoscono che qualche briciola di quella civiltà che appare distante anni luce. Sembra di essere in un altro mondo, e per certi versi sembra di essere in un mondo altro. Di certo, Maria è affetta da una malattia incurabile: è una sognatrice. È Alice e vuole (deve) attraversare lo specchio, che in questa storia ha le fattezze di un vulcano che si erge maestoso e guarda tutto dall’alto. Nei suoi occhi si affollano desideri su desideri, che in realtà sono soltanto uno: andare via.
Le sue mani. Il candore del suo stare al mondo. Il frastuono del suo silenzio.

Maria e sua madre stanno portando la scrofa nel recinto del maiale. Aprono la bocca dei due animali e danno loro da bere del rum, per farli eccitare. Devono accoppiarsi, hanno bisogno che la scrofa partorisca, perché presto arriveranno il promesso sposo di Maria con la famiglia e hanno bisogno di carne per la festa. Ovviamente, si tratta di un matrimonio combinato, lui, Ignacio, è un uomo adulto, vedovo, che sa parlare lo spagnolo e si occupa della gestione della piantagione dove lavorano Maria e la sua famiglia. Ma la ragazza è attratta da un suo coetaneo, chiamato Pepe, il quale progetta di lasciare questo luogo sperduto e senza futuro per andare negli Stati Uniti, e lei desidera che lui la porti con sé. Ma Pepe vuole solo portarsela a letto. E lei non l’ha mai fatto, anche se esplode di desiderio (quella piccola scena in cui lei si adagia sull’albero, come per fare l’amore, è tanto tenera quanto triste). Una volta versato il rum nelle bocche dei due animali, la madre va via, mentre invece Maria si attarda a guardare. Anche questa è una piccolissima scena, siamo solo all’inizio del film, capace di restituire tutta la complessità e il bisogno dell’anima di questa giovane ragazza Maya di respirare e vivere la sua vita. Il sesso ubriaco di due maiali in un recinto sporco di fango, sotto gli occhi sognati di una ragazza che sogna l’amore. Un futuro possibile. La possibilità di scegliere.




Andare via. Via da un futuro già scritto, verso l’ignoto. Via dalla miseria, dalla polvere, dal terreno, dal fango, dai maiali, dalle rocce, dai serpenti. Verso l’altrove, come quello che invocava Pessoa, lo stesso altrove che soggiace in tutte le preghiere di Maria, in tutte le sue implorazioni al vulcano, agli spiriti che abitano quei luoghi, fuori dal tempo, immersi in un fluire che appartiene a un mondo incomprensibile ai nostri occhi. Andare via. Via dai ragazzi ubriachi, dall’amore imposto, dalla piantagione, dal lavoro che spezza la schiena e i sogni, dalle ceste da portare sulla testa, da tutti i macigni che gravano sul cuore, che schiacciano i desideri, che impediscono all’anima di respirare. Per questo vorrei prenderle la mano. Per darle un po’ di leggerezza. Per alleviare anche solo per un attimo la gravità dell’esistenza. Per portarla oltre il vulcano. In un mondo con le case lontane dal fango. Con l’elettricità, le automobili, la plastica. Lontano dall’odore nauseabondo di un destino programmato, in cui c’è tutto tranne la scelta. Ed è proprio questo che Maria desidera più di ogni altra cosa: scegliere. E il desiderio di andare via, la necessità vitale di dare un senso ai propri giorni, è più forte della paura di morire, di veder marcire la propria vita, più forte del timore di poter soccombere: è forse per questo che Maria si concede a Pepe. Lì, in mezzo agli alberi, di notte, aggrappata alla speranza di andare via. Sì, perché lui lo ha promesso. La porterà con sé oltre il vulcano. Negli Stati Uniti. Verso un futuro possibile. Ma non lo farà. Non lo aveva mai nemmeno pensato. Andrà via da solo. Lasciando Maria delusa, triste, abbandonata, sola. E incinta.

Ixcanul è un film meraviglioso e potente.
E meravigliosi e potenti sono gli occhi di Maria.
Per certi versi mi ricorda una delle ragazze tahitiane di Gauguin. Quei colori. Quelle decorazioni. Quel cielo che pare dipinto. E c’è anche tutta quella grandiosità tipica dei luoghi esotici e lontani dal nostro stile di vita. Ma non c’è retorica – o almeno io non ne vedo, non ci sono intenti “politici”, né alcun tipo di rivendicazione da parte del regista, anche se qualcuno potrebbe leggere il film come una “denuncia” del modo in cui vengono trattati i nativi da parte dei governi sudamericani che fagocitano e divorano queste culture. Io credo sarebbe un errore intendere il film in questo senso. Non c’è sociologia spicciola, né velleità antropologiche di sorta, non ci sono particolari sottotesti sociali, seppure non è da escludere totalmente la possibilità di una lettura di questo tipo, secondo cui la riproduzione del popolo di origina Maya venga intralciata dagli spagnoli per annichilirne la cultura, in attesa che scompaia definitivamente. Ripeto, questa lettura non è del tutto irreale, ma a mio avviso non è l’intento del film denunciare alcunché. Perché questa è la storia di una ragazza che desidera vivere la sua vita. Alice che vuole attraversare lo specchio, questo vulcano metafora di un confine invalicabile verso quel mondo nuovo, che sa di libertà.

21.1.21

Mi aiutate a ricordare il titolo di un film? - Stagione 4 - Fabio's Edition

 

Circa 4 anni fa (ma vado a memoria, in tema con il post) creai qui sul blog una sezione che aiutava qualsiasi avventore (lettore o cosmonauta casuale nel web) a trovare il titolo di film di cui...si era dimenticato o non sapeva il titolo.
Dando più informazioni possibili (a volte scarnissime del tipo "c'era una tipa bionda che baciava un tipo in macchina") noi si cercava di aiutarlo.
Anni fa eravamo un team straordinario, ricordo che delle prime 100 richieste (davvero difficilissime) ne trovammo 83. Poi alcuni lettori eccezionali sono spariti, altri aiutanti pure, io da solo ho perso entusiasmo, tanto che questi ultimi due anni rispondevo solo se sapevo al volo il titolo.
Ma un paio di settimane fa è sbucato un lettore, Fabio, che in pochi giorni ha risposto a tipo 20 richieste rimaste inevase. Ora, mica so se ci ha preso eh, ma il fatto che abbia quasi sempre citato titoli impossibili e i due/tre vecchi richiedenti che gli hanno risposto dicendo che il titolo era giusto mi fa pensare che sia letteralmente un fenomeno. Lui stesso mi ha confermato che non c'è cosa che gli piaccia di più che ricercare titoli.
E allora se l'è cercata, apro per la QUARTA volta questa sezione praticamente solo per lui, sperando possa seguirla e aiutarvi.
Perchè la apro per la quarta volta? perchè ne ho già aperte tre? Perchè sono sempre andate benissimo, superando ogni volta i 200 commenti. E sto cazzo di Blogger a 200 commenti va in tilt, rendendo confuso il poter commentare (dal 201mo commento in poi bisogna ricaricare la pagina per vedere il proprio commento e le risposte).
Quindi apriamo ufficialmente la quarta stagione, e che Fabio sia con voi

MI RACCOMANDO

QUANDO FATE RICHIESTE METTERE PIU' COSE POSSIBILI, SCENE, GLI ANNI IN CUI PENSATE POSSA ESSERE USCITO IL FILM, QUANDO LO AVETE VISTO, qualsiasi cosa. Ogni elemento in più è decisivo



19.1.21

Recensione: " Chi ha ucciso Daigoro Tokuyama?" - Anime e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 10 - di Enrico G.


Enrico, il nostro giovane esperto di anime giapponesi, "festeggia" il decimo appuntamento con la rubrica in un modo insolito, ovvero non recensendo un'animazione ma una serie su Amazon Prime in "carne e ossa" (o live action come dicono quelli bravi).

Ovviamente giapponese :)

Dice sia straordinaria, vi lascio a lui, prima con la presentazione e poi con la recensione
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Prendo una pausa dagli anime per consigliare questa serie straordinaria, nata comunque in grembo a quella inconfondibile genialità del Sol Levante. Un giorno come tanti, in un liceo femminile di Tokyo. La classe 3-C arriva in aula, ma il loro professore è già lì, seduto s’una sedia. Morto. Spaventate, le ragazze invece di denunciare tutto nascondono il corpo.

Comincia l’Odissea di questo gruppo, sulla carta un thriller polanskiano ad impianto teatrale, in realtà un viaggio allucinato e grottesco, intriso di umorismo nero spesso irresistibile. Protagoniste, queste ragazze accomunate solo da un cadavere nell’armadietto, tutte complici, una di loro forse addirittura assassina.

Da guardare assolutamente, la trovate su Prime Video. Questo è un consiglio, quindi libero da spoiler.

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Mi ha letteralmente folgorato. Guardo poche, pochissime serie tv, ma una giapponese in live action, per di più “comica” (con gli asiatici e la commedia si cammina sempre sugli specchi), almeno all’inizio, era un vero salto nel buio. E lo sarà anche per gente molto meno diffidente di me, visto che un prodotto così radicale può solo essere destinato a spaccare le opinioni. Una volta cominciata però, mi ha preso in ostaggio costringendomi a fare una cosa che odio, ovvero guardarmela tutta d’un fiato, come un enorme film di 6 ore. E l’ho amata in ogni sua componente.

La trama innanzitutto. Comincia subito, in quarta, con un professore morto, e le sue studentesse che, per cose da nascondere, comprensibile paura della notorietà o illogica paura di affrontare la realtà, fanno finta che nulla sia successo, e vanno avanti nella loro ordinaria vita scolastica. Per la location, radicale se ce n’è una: il set di una classe. Manco una scuola (c’è un’unica panoramica esterna che sa di modellino lontano un miglio), manco un’ala della scuola, e magari la palestra o la piscina. No no, proprio una CLASSE, con giusto il pezzo di corridoio esterno e nient’altro. Un radicalismo che farebbe impallidire Roman Polanski. Con rimandi a quest’ultimo pure nel tono: più che a quello orrorifico di un Inquilino del terzo piano, a quello grottesco del sottovalutatissimo Cul de sac, sempre del mitico regista polacco.



Forse però esiste una luce ancora più luminosa a guidare questi creatori, tanto che potremmo chiamare Who killed Daigoro Tokuyama “la serie dei più grandi fanboy viventi di Nakashima Tetsuya”. O almeno del film Confessions, direttamente citato nell’episodio 2. A parte quello, ci sono innumerevoli similitudini, la cattiveria con cui viene demolito il microcosmo scolastico, le trovate arzigogolate di sceneggiatura, l’esaltazione di temi difficili (le molestie, la pressione sociale, l’individuo schiacciato dal gruppo) tramite uno stile pop, sopra le righe, pieno di slow motion, dettagli, voce fuori campo. Abbastanza da farmi stoppare la serie e andare a controllare i crediti aspettandomi di veder comparire il suo nome. Non l’ho trovato, ma l’ispirazione è evidente, se compare addirittura il meraviglioso orologio che gira al contrario, in una delirante scena onirica.

Poi c’è il cast. In questo, è uno show con fegato da vendere, fatto di una ventina di attrici giovanissime, un attore prestato a fare il cadavere (e che attore, bravissimo nella sua non-presenza) e pochi altri, appena più che comparse. La recitazione cede al sopra le righe solo in sporadici momenti, e quasi sempre, cosa sorprendente, da parte dei pochi adulti che fanno capolino nella fortezza fisica (l’aula) e psicologica (la bugia) delle ragazze. Tra questi però impossibile non citare il bidello, con i suoi monologhi sulla natura degli oggetti, il suo sudore sgocciolante, il ruolo apparentemente passivo di chi sembra all’oscuro di tutto. Lo lascio subito, facendo ammissione di colpa: parliamo di un personaggio talmente assurdo, bello e sconfinato, quasi un Demiurgo degli strati bassi, che ci vorrebbe un’analisi intera solo per lui. Ma non si può, ci sono troppe cose di cui parlare, troppe. Nemmeno ho toccato il lavoro enorme delle ragazzine, protagoniste assolute.

E quando dico “ragazzine” lo intendo davvero, con l’età dell’epoca che si aggirava tra i 15 e i 18 anni. Gli aspiranti registi prendano esempio, da chi ha il coraggio di spiegare a ragazze di quell’età, che oggi hanno un paio d’anni appena meno di me, senza riserve o ipocrisie, come interpretare questa assurda storia di morte, sospetti di molestie, tendenze suicide, complotti, scherzi crudeli.  Tra l’altro, questa serie è uscita nel 2016, l’anno di The Witch, e del cast spicca proprio la più giovane, la “detective”: praticamente l’Anya Taylor-Joy giapponese. Che, ho scoperto, non solo essere talentuosissima, ma addirittura la voce principale della sigla. Mi levo il cappello, c’è poco da fare.



Già mi aveva sorpreso questa performance da furto totale della scena, ma in più si nota una chimica spontanea, straordinaria tra queste studentesse, tutte, e dico TUTTE bravissime. E ciò probabilmente è dovuto, come ho scoperto, all’essere o essere state membri di un gruppo idol, uno di quei classici fenomeni giapponesi. In calce, consiglio caldamente il film Perfect Blue, se volete vedere questo tipo di intrattenimento smitizzato e demolito fino alle fondamenta. A differenza del trio del compianto Satoshi Kon, qui parliamo di un gruppo veramente immenso, una cosa tipo cinquanta membri stabili. Sapendolo, è surreale vederne questa fotografia d’epoca in salsa scolastica, dove ognuna di loro si chiama col proprio nome anziché uno fittizio. Cioè, la piccola detective Yurina Hirate, si chiama veramente così, pur non interpretando se stessa.

18.1.21

Recensione: "Vivarium"

 

Io non lo so se sto film è discreto, bello o bellissimo.
So soltanto che è tanto tanto interessante.
E per questo scriverne a 9 giorni dalla visione è un grandissimo peccato. So che a voi frega nulla ma dispiace a me scrivere di un film di contenuti così tardi, con così tanti ricordi ormai annebbiati e tante interpretazioni offuscate. Però volevo comunque segnalarlo, quindi proviamoci.
Una giovane coppia, molto innamorata, è alla ricerca della loro prima casa.
Finiranno in un quartiere nuovissimo, pieno di case tutte identiche una all'altra.
Un quartiere dal quale sarà impossibile andarsene.
A metà tra il film metaforico sociale e il thriller esistenziale Vivarium è un'opera spietata che parla di noi e delle vite che ci vengono imposte.
Tra The Truman Show, Dogtooth e The Bothersome Man un'opera affascinante, inquietante e surreale, forse non completamente riuscita ma che riesce sicuramente a far riflettere lo spettatore e regalargli una profonda inquietudine e disagio

PRESENTI SPOILER

Gemma e Tom sono una giovane coppia, molto innamorata (e sta cosa non la dico tanto per ma perchè quello che provano l'uno per l'altro lo "senti" per tutto il film e diventa per me un elemento molto importante, anche di empatia).
Lei (interpretata dalla bellissima e bravissima Imogen Poots (Green Room) è una maestra d'asilo, lui un giardiniere.
Decidono di fare il grande passo, comprare una casa.
Arrivano in un'agenzia in cui trovano un impiegato inquietante, stralunato, uno di quelli che al tempo stesso ti strappa un sorriso e un brivido sulla schiena.
Questi li convince ad andare in un nuovissimo quartiere residenziale, costruito ex novo, fatto apposta per le giovani famiglie.
I due, anche se dubbiosi, accettano. Si ritroveranno in un allucinante quartiere di case tutte uguali una all'altra, da soli (nessun altro abitante).
Un quartiere dal quale sarà impossibile andar via.


(per una volta ho scritto parecchia trama proprio perchè avendo penso ricordi almeno aggiungo righe, ahah)

Vivarium è l'opera seconda di un relativamente giovane regista irlandese, Lorcan Finnegan.


Un film interessantissimo che nasconde nella sua anima, al confine tra il grottesco, lo sci-fi e il surreale, una profondissima analisi della società di oggi.
Già nel prologo la scena col nido di uccellini e quel "Gli serviva un nido" sono un pò manifesto di tutto quello che vedremo dopo.
Se devo trovare 3 film che, fusi insieme, possono generare Vivarium segnalerei Truman Show, Dogtooth e The Bothersome Man, insomma, due capolavori e un film bellissimo.
Del meraviglioso film con Carrey prendono questa sensazione di ritrovarci in una vita manovrata da altre persone, una vita non naturale, non nostra e dalla quale è impossibile uscire. Non è un caso che come Truman non poteva uscire da "Trumania" così i nostri due protagonisti (anche se per motivazioni più metaforiche e trascendentali, non fisiche e umane) non possono uscire dal loro quartiere. Anche la stessa scenografia ricorda quella del film di Weir. E se ci pensate quel cielo perennemente sereno che troviamo qua pare finto e disegnato come accadde in Truman Show.
Di Dogtooth prendono una parte più "nascosta" ma, forse, il vero motore del film,
Il figlio che viene assegnato alla giovane coppia, infatti, ha bisogno di una educazione ex novo, da zero. I due devono insegnargli i nomi delle cose e anche di tutte quelle che esistono nel mondo reale, ormai a loro precluso, Il bambino (odioso e insopportabile) di Vivarium somiglia così tantissimo ai figli della coppia di Dogtooth. E io son quasi sicuro che il fatto che la prima cosa che a lui viene insegnata, ovvero proprio a fare il cane, sia un omaggio voluto al film di Lanthimos.

13.1.21

Recensione: "Piercing" - Su Prime

 

Sfiorato ma non visto alla Notte Horror del TFF 2018, ho recuperato Piercing per puro caso, "inseguendo" altri film da protagonista di uno dei miei nuovi attori preferiti, l'Abbott di Possessor.
Oltre ad aver avuto conferma della grandezza di Abbott (in un ruolo quasi identico a quello di Possessor) mi sono ritrovato davanti un piccolo film (un'ora e un quarto) ma interessantissimo.
Un uomo progetta di uccidere una prostituta.
La fa venire in una stanza d'albergo.
Le cose prenderanno una piega completamente inaspettata.
Sempre in bilico tra una possibile deriva ironica e una molto pesante, Piercing è un film "da camera" (in tutti i sensi) che affronta finezze psicologiche davvero molto interessanti.
Da vedere assolutamente

Sfiorai "Piercing" al Torino Film Festival del 2018.
Faceva parte della Notte Horror, una serie di 4 film di genere che parte la sera e arriva quasi a mattina.
Decidemmo di andar via prima di Piercing (era l'ultimo film) e posso dire con certezza che, anche nel caso ci fossero stati Synecdoche New York e Old Boy con registi presenti in sala, la scelta di andar via sarebbe comunque stata migliore, in quello che è uno dei giorni più belli di questi ultimi anni.
In ogni caso se fossi rimasto avrei probabilmente considerato Piercing il film più bello dei 4 proposti perchè il primo, Mandy, aveva una prima parte straordinaria ma non amai la deriva trash che prendeva poi, il secondo, Ghostland, era un buonissimo film horror ma del quale riscontrai parecchi difetti (non me ricordo adesso quali) mentre il terzo, L'occhio che uccide (sì, quello storico) dormii per più di metà (oh, era tardissimo eh, non è un'accusa al film, tranquilli cinefili).
Piercing rispetto a Mandy e Ghostland è sicuramente più piccolino, in tutto, nel budget, nel cast, nella ambizioni, nella durata. Però, ecco, in questo suo esser piccolo è sicuramente un film che mi ha convinto di più, al quale faccio fatica a trovare tanti difetti.
In realtà ci sono arrivato per caso, non per completare quella nottata mai completata al cinema, ma perchè mi sono "innamorato" di Christopher Abbott in Possessor e un amico mi ha segnalato quest'altro film dove era protagonista.
Non solo confermo l'innamoramento ma dico ufficialmente che se un giorno dovessi reincarnarmi voglio diventare gli occhi di Christopher Abbott.
Tra l'altro è molto particolare quanto il suo ruolo in Piercing somigli da morire a quello in Possessor. Ancora una volta un uomo in grandissima difficoltà, ancora una volta un uomo in qualche modo "posseduto", ancora una volta un killer che commette o deve commettere omicidi a causa di qualcosa più forte di lui che lo comanda.



Se in Possessor quel qualcosa era un'altra persona entrata dentro di lui, qui le cose sono diverse, i demoni del protagonista sembrano più personali. Ma, come in Possessor potevamo vedere la figura di Tasya come metaforica (di una parte nascosta di sè), così in Piercing a quella parte nascosta di sè possiamo abbinare presenze reali (tipo la madre) che hanno portato il protagonista ad avere una psiche completamente devastata, e una ricerca del male che non gli appartiene ma è solo reificazione di dolori troppo grandi.
Avrete capito che anche stavolta ci troviamo davanti ad un thriller psicologico (intendiamoci, siamo una spanna e mezzo sotto Possessor per me) anche se l'atmosfera dei due film è molto diversa.

12.1.21

Chi deve leggere i blog?



 In solo due giorni ho trovato, per puro caso, due diversi blog che, anche se in maniera diversa e da prospettive diverse, hanno parlato dello stesso tema, ovvero della "blogosfera" e dei lettori.
Sto parlando dei post di Miki Moz (che non ho mai frequentato ma so essere blogger bravissimo e molto seguito - tra l'altro anche commentatore a volte qui da me -) e di Franco Battaglia (amico di lungo corso, fin dai tempi di Film Tv, almeno 10 anni).
Il primo post aveva un titolo eclatante, del tipo "Mi ritiro dalla blogosfera".
Il secondo, quello di Franco, uno apparentemente più generale, "Blog sharing".
Dico la verità, sono rimasto basito da entrambi i post. Ma non nel senso di aver trovato le cose che Miki e Franco dicono sbagliate, ma proprio letteralmente stupito, quasi sconcertato.

Il post di Miki, all'apparenza così "netto" (mi ritiro dalla blogosfera) poi lo leggi ed è tutt'altro.
Scopro infatti che la blogosfera, nella quale mio malgrado sono da 11 anni, non è - come credevo io - il mondo dei blog, ma l'interazione tra essi.
Ovvero per blogosfera si intende la rete di relazione che unisce i vari blog e blogger. Quello commenta da me, io commento da lui, lui pubblicizza me, io pubblicizzo lui, si fanno cose insieme etc...
Continuando a leggere l'articolo dell'ottimo Miki scopro quindi che il suo è una specie di titolo click bait (non lo dico nel senso negativo del termine, per chi sapeva cosa fosse la blogosfera ad esempio non lo è) perchè in realtà lui il blog lo continua (anzi, meglio di prima, dice) ma si tira semplicemente fuori da questo do ut des tra blogger che, tra l'altro, stava ormai morendo da tempo (per la crisi dei blog e per il fatto che comunque è sempre più difficile star dietro a tutti).
L'articolo mi ha sconcertato intanto perchè dopo 11 anni ho scoperto cos'è la blogosfera e poi perchè ho scoperto pure che ci si può "togliere" da essa, come se prima quel fatto di commentare un blog da parte di un blogger e a sua volta ricevere lo stesso "trattamento" fosse qualcosa di dovuto, una specie di contratto che ora si rescinde.
Ma la cosa che più mi ha sorpreso è un'altra, e qui la unisco al post di Franco Battaglia.
Franco parla invece di quelli che lui chiama "apolidi della blogosfera", ovvero utenti che non hanno un blog ma commentano ovunque, in tutti gli altri blog.
Franco si chiedeva perchè non ne aprissero allora uno, anche se adesso ha cambiato idea, gli sembrano ottimi utenti.
Se leggete i due articoli e tutte le risposte (da Miki sono centinaia, da sempre quello è un blog commentatissimo, complimenti) viene fuori una cosa pazzesca per me, o almeno per quelli che sono i miei pensieri.
Ovvero che i blog esistano per i blogger, che il nostro sia un mondo chiuso dove dobbiamo tutti averne uno, tutti commentarci tra noi stessi e l'utente semplice che capita per caso è quasi un disturbo.
Incredibile.

Dico la mia.
Io da sempre sono stato fuori da queste logiche. Non solo non ho mai commentato altri blog perchè ero io stesso un blogger (ogni volta che dico "sono un blogger" mi viene un conato, ma non so come altro dire) ma ogni volta che ricevevo un commento da uno di loro, semplicemente, ho pensato che in quel caso loro fossero nelle vesti di lettori.
Sì, è vero, mi sono capitati anche quelli che mi hanno chiesto in commento di farsi pubblicità a vicenda, ma da anni non li vedo più.
Dirò di più, io ho sempre rifiutato anche tutti i Premi dati ai blog dagli stessi blogger (mi sembra ci feci un post, "L'unico stronzo del villaggio") perchè li trovavo quasi...imbarazzanti, un farci i pompini a vicenda senza senso. Ogni anno gli stessi premi, uno stesso blog che per 10 anni premi gli stessi 10, un'esaltazione generale per me insensata (sono semmai i lettori a doverti premiare) che magari ha aiutato qualcuno a farsi conoscere ma, per quanto mi riguarda, dava più una brutta sensazione ai lettori che positiva.
Quindi no, io non ho mai fatto parte della blogosfera per capirsi. Semmai ho fatto cose meno "dovute" e più sincere, come la rubrica "Blog ai confini del mondo" dove ho presentato e fatto conoscere blog molto belli (spesso migliori di questo qua) ma pochissimo seguiti. Credo questa sia la strada virtuosa, non i commenti a vicenda o i premi dati in casa dagli stessi abitanti della casa.
Ma la cosa che più mi ha sorpreso da questi due articoli, e la domanda quindi che mi sono posto, riguarda chi deve leggere i blog.
Perchè, davvero, se leggete quei due post sembra che i lettori "puri" vengano o considerati meno importanti dei blogger, o alcune volte osteggiati, specie se anonimi.
Trovo tutto questo pazzesco.
Quando si apre un blog e lo si mette in rete è ovvio che si scrive sperando che qualcuno possa leggere. Certo, ci sono casi in cui si può aprire un blog solo per sè o solo per prova (la mia ex ragazza ad esempio fece così), non mettendolo ancora ufficialmente in rete o comunque aperto per avere soltanto una specie di diario personale privato, ma nel 95% dei casi se lo si apre è sperando di esser letti.
E, per me, chiunque ti legge, chiunque lascia un commento, ti fa un regalo.
E, attenzione, SPECIALMENTE se non è un blogger a sua volta.
I lettori puri sono i più veri, quelli che leggono e commentano senza sicuramente volere niente in cambio. Anonimi, non anonimi, assidui, occasionali, non importa, ogni lettura e ogni commento sono un personale "grazie" che un blogger dovrebbe dire.
Leggendo quei due articoli e tutti i commenti mi sembra di stare in un altro mondo, leggo di blogger che non sopportano gli anonimi, altri che accettano solo gente con l'account google, altri che rimpiangono quando tutti i blogger si facevano finti commenti l'un con l'altro, altri che non capiscono quei lettori che commentano ovunque e via dicendo.
Forse non capisco tutto questo perchè, appunto, io in quella blogosfera di cui parlano non sono mai stato dentro, certe dinamiche le ho sempre odiate, ho sempre pensato che ci sono solo tre categorie in questo mondo del blogging, ovvero chi scrive, chi legge e chi commenta.
E ognuno di noi può essere ogni volta una di queste tre categorie.
Io posso scrivere un post, posso leggerne uno di un altro, posso commentare dove voglio, senza che mi debba sentire il "blogger" che fa visita a un altro o un lettore mal considerato o un commentatore fastidioso.
Come posso rispondere quindi alla domanda del post?
Semplicemente dicendo "chiunque voglia".
Continuiamo, finchè ne abbiamo forza e volontà, a mettere nero su bianco online i nostri pensieri.
Chiunque voglia leggerli è il benvenuto.
Chiunque voglia commentarli, anche a cazzo, è il benvenuto.
Non siamo una casta, ma persone che, semplicemente, scrivono e leggono.
E che non dovrebbero mai costringere nessuno ad essere letti nè sentirsi costretti a doverlo fare da altri.
Siamo solo parole nel vento, all'aria aperta, parole che possono colpire chiunque, che possono accarezzare chiunque, e alle quali chiunque può reagire nel modo in cui crede.
Finchè pensiamo che quel vento debba soffiare solo in casa nostra allora l'unica cosa che alla lunga otterremo è solo una fortissima e raggelante aria viziata.

5.1.21

Recensione: "Possessor"

 

Forse ho il mio nuovo thriller psicologico preferito degli ultimi anni.
Possessor, del figlio di Cronenberg (per favore giudicate lui e il film in quanto tali, e basta co ste cazzo de stroncature quando uno è figlio di, basta, sono solo i giudizi di chi non riesce a dire altro) è un'opera seconda grandiosa (dopo già l'interessantissimo  Antiviral), capace di creare un'atmosfera così densa, inquietante e straniante che si fa davvero fatica ad arrivare alla fine.
Un film sul controllo degli altri, sulla manipolazione, sulla spersonalizzazione, sulla parte oscura di sè.
Bellissimo da vedere, di una violenza psicologica e fisica impressionante ma anche di classe raffinata, sia estetica che contenutistica.
E non parliamo degli attori, specie di un Abbott mostruoso.
Madonna che film

Raramente nel cinema recente un film mi ha messo in una condizione psicologica così densa, dolorosa e intensa.
Credo che Possessor possa diventare il mio thriller psicologico preferito di questi ultimi anni.
E per parlarne non posso disconoscere lo stato in cui mi ha messo. Se è riuscito a colpirmi così tanto è giusto che in mezzo ad analisi in qualche modo oggettive io "ricordi" anche lo stato d'animo che mi ha causato e che questo influisca pesantemente sul giudizio globale. Perchè il cinema è anche e soprattutto emozione.

Purtroppo ha un solo difetto, che l'abbia girato il figlio di Cronenberg. Solo per questo motivo - non ne vedo altri - la critica può distruggere un'opera così potente (intendiamoci, non esaltarla come faccio io è normalissimo ma distruggerla no).
Io trovo invece stupendo che un figlio prenda a ispirazione e punto di riferimento l'opera del padre. In quasi tutti i campi della vita questa cosa piace ed emoziona ma nel cinema no, nel cinema se sei "figlio di"  avrai sempre persone pronte ad attaccarti, a fare confronti, a sminuire il tuo lavoro solo perchè quello del padre era più grande.
Io me ne frego, prendo Possessor solo per quello che è e prendo Brandon Cronenberg solo per quello che è.
E il primo - il film - è grandioso, il secondo - il regista - un giovane uomo che a 40 anni ha fatto solo due film (e cristo santo non so perchè) riuscendo a girare un'interessantissima opera prima, Antiviral, e sta roba gigantesca qua.

Intanto c'è da dire quanto i due film si somiglino. Entrambi fantascienza, entrambi molto complessi (Antiviral troppo secondo me), entrambi inquietanti e fastidiosi, entrambi raccontano di ricche società che compiono cose terribili sfruttando la scienza (ed è bello che in tutti e due i film non riusciamo a capire se quello che stiamo vivendo è un futuro o un presente parallelo e malato. C'è anche qualcosa di Eternal Sunshine comuque), entrambi (ma del resto è il figlio di Cronenberg) sono basati sul concetto di "impianti" nel corpo, dei veri e propri body horror.
Del resto i primi 10 secondi di Possessor sono quanto di più cronenberghiano ci possa essere. Fa benissimo Brandon a cominciare così, a far vedere dopo soli 3 secondi che sì, che "imiterà" il padre, alla faccia di chi non piace la cosa.



Il prologo è bellissimo, per vari motivi.
Per la superba atmosfera, per quella sensazione per cui non sai cosa sta succedendo, perchè ci mostra sin da subito grandi location, uno spettacolare uso sia della fotografia che dei colori di scena (il film sia nelle luci che in tutto il resto - costumi, location, oggetti - ha tonalità diversissime da Antiviral, qui calde contro le glaciali del primo film).
E poi arriva una scena dalla violenza quasi insostenibile, in un film in cui questo tipo di scene sarà all'ordine del giorno, in un modo più massiccio e riuscito dei veri e propri splatter. Ma a differenza di quel cinema di genere qui la violenza efferata ed esagerata (nel gergo si chiama "overkilling") ha profonde matrici psicologiche, in un film che uccide lo spettatore proprio per questo, perchè non c'è un momento in cui si riesce a respirare ed uscire da questa apnea cerebrale, da questa sensazione di profondo disagio che il film ti crea, proprio dovuta alla matrice psicologica di ogni suo aspetto.

3.1.21

Recensione: "Soul"

 

Visto a Natale ma per più di una settimana l'ho tenuto nel cuore, senza riuscire a scriverne.
Ma stanotte, forse per rifarmi di Boldi e De Sica, ho sentito il bisogno di parlare di cose belle.
E Soul è una cosa bellissima.

E così la Pixar ha fatto nuovamente centro...
Parlando dei suoi film ho spesso esaltato la loro grande anima.
E proprio di anima alla fine sono arrivati invece loro a parlare, era inevitabile.
Soul è la summa di alcuni dei più grandi capolavori di questa magnifica casa di produzione, probabilmente il loro progetto più ambizioso, per certi versi direi quasi "definitivo" riguardo alcune tematiche che la Pixar ha sempre battuto, come la morte, le piccole cose, le emozioni, i rapporti tra le persone.
Ed ecco così che questo magnifico Soul, film che negli ultimi 15 minuti mi ha commosso da morire, diventa una straordinaria unione tra gli insegnamenti di Up (la meraviglia delle piccole gioie quotidiane, la felicità che si può trovare nel poco), il mondo dell'Aldilà di Coco, alcune trovate di Rataotuille (Joe che diventa gatto e istruisce 22 ci porta a mezz'ora quasi identica all'indimenticabile film del topolino, per non parlare di 22 che assaggia la pizza e trasalisce come Ego quando assaggiò la ratatouille) e, forse soprattutto, la struttura di Inside Out con l'unica differenza che qua l'architettura della mente è sostituita da quella dell'anima (ma per il resto L'Ante-Mondo è quasi identico all'Universo che c'era dentro la testa della bimba di Inside Out, con le sue "isole", con i suoi personaggi, con i suoi giochi grafici e quelli tra le dimensioni).



Ecco, se proprio vogliamo trovare un difetto a questo magnifico cartone potrebbe essere in questo lieve sentore di "già visto" che la stessa Pixar ci aveva proposto.
Ma, lo ripeto, io la vedo più come una summa, un punto definitivo a 10-15 anni di progetti.

Joe è un uomo di mezz'età abbastanza triste perchè la sua più grande passione e talento, la musica, non l'ha portato a raggiungere i sogni di bambino.

2.1.21

Recensione: "In vacanza su Marte"

 

Per la prima volta, a 43 anni, vedo un film di Boldi e De sica.
Mi scuso sin da adesso ma la recensione sarà lunga.


Vaffanculooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo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