
Torna il nostro giovanissimo super esperto di Anime giapponesi Enrico.
In realtà ogni volta che scrivo "torna" (riguardo le rubriche esterne del blog )dovrei invece dire "finalmente ripubblico un pezzo di..." visto che loro li pezzi me li mandano sempre, sono io che rimando...
Ma stavolta non potevo perder tempo perchè Enrico ci parla di un capolavoro animato che ha fatto la storia del cinema e che proprio settimana scorsa è tornato nei cinema, Akira.
Vi lascio alla sua presentazione e poi alla (sicuramente bellissima) recensione.
Nominatemi un anime più conosciuto di Akira, se vi viene in mente. Un film talmente rappresentativo di un’idea, di un modo di fare, di un concetto di arte, che raramente è stato raggiunto nella storia dell’animazione anni ’80 (ma forse, proprio del cinema tutto), allo stesso tempo diventato popolare tramite esso. È con Akira che il “cartone giapponese” diventò per la prima volta qualcosa da volere, ricercare fieramente, pretendere dal mercato, spalancando le porte dell’Occidente a ciò che venne prima e dopo. Alcuni di quei prodotti sono tornati di nicchia. Lo stesso Katsuhiro Otomo è stato messo in ombra dalla sua creatura, e sì che è la mente dietro Steamboy, Roujin Z, Metropolis, Spriggan, antologie, fumetti. Akira invece è rimasto intoccabile, torna nei cinema e in ristampa ogni pochi anni, e finalmente, al suo 35esimo anniversario, mi sono deciso anch’io a vederlo per la prima volta, sul grande schermo. Questa, più che una recensione, è l’impressione di chi per una volta smette i panni di appassionato, e torna ad essere spettatore in una sala. Davanti a sé, un film di corpi torturati, di metropoli devastate, dei loro suoni, e dei loro colori, centinaia di colori.
Per dovere d’inventario, attualmente disponibile anche su Netflix.
Spoiler sparsi, ma d’altronde lo avrete già visto tutti.
Una parola innanzitutto, sulla visione “competitiva” di film. La ricerca spasmodica dei grandi capolavori della storia del cinema, a mio parere, non può essere una gara né un’indigestione. Il desiderio di entrare a far parte della cultura della cinematografia passata può solo essere lodevole, se umile. Per contro, non ho mai condiviso l’idea che per “capirci qualcosa” della settima arte, o qualsiasi altra espressione artistica per quel che importa, ci debbano essere patenti e passaggi obbligati, determinate visioni nel caso del cinema. Lascerei volentieri la scienza di queste espressioni a chi le fa o le studia, mentre la comprensione non richiede altro che una mente degna di questo nome. È una convinzione che si rafforza quando ho l’occasione di vedere un rinomato classico sul grande schermo: ammirare Akira come era stato inteso nel 1988 vale tutta la pazienza con cui l’ho atteso – pazienza che in realtà, è spesso null’altro che un “attendere il momento giusto”, pratica perfezionata in anni di attesa della distribuzione italiana di prodotti orientali (una specie di addestramento zen ad honorem). Con in più, tutta la naiveté di conoscere poco o nulla sui retroscena del film, esattamente come la maggior parte degli spettatori di allora. E poco importa se fino a ieri mi avrebbero detto di essere indegno di chiamarmi appassionato di anime.
E allora, sotto la patina della notorietà, qual è la storia di Akira? Il film è ambientato nel 2019, prevedendo con largo anticipo che le Olimpiadi di Tokyo dell’anno dopo sarebbero state azzoppate da una catastrofe umanitaria. Trent’anni prima una misteriosa esplosione, che vediamo nel famosissimo incipit, ha sconquassato il centro della capitale giapponese, ricostruita successivamente attorno all’impressionante cratere. Questa Neo-Tokyo però è a sua volta un buco infernale di instabilità e degrado, sulle cui strade regnano i Centauri, giovani scapestrati riuniti in bande, che in sella alle loro moto combattono come se la guerra non fosse mai finita. È durante una di queste scorribande che Tetsuo quasi muore, scontrandosi con un bambino dall’aspetto di un vecchio. Nemmeno il gruppo del ragazzo e il loro leader, Kaneda, possono impedire che scienziati e militari dall’aria losca portino via entrambi…

La trama del film è veramente una creatura curiosa, sicuramente frutto del tentativo di comprimere in due ore l’imponente graphic novel di Katsuhiro Otomo, che è anche regista, sceneggiatore e designer dei personaggi dell’adattamento. Va velocissima nella prima parte, rombando gloriosamente come le splendide moto futuristiche dei protagonisti, anche se è solo l’introduzione del mondo e dei caratteri. Va lenta, persino con qualche tempo morto, nella seconda che è quasi azione non stop. Imbastisce un mondo immensamente ambizioso per raccontare la storia intima e contrastata di due amici d’infanzia. È ignorantemente e fieramente portata avanti da esplosioni, sfoggio di poteri telecinetici, intrattenimento puro, ma pure basata su un conflitto molto personale, su temi molto adulti (la volontà, l’innocenza, i principi animatori di questo mondo, il sacrificio), sul protagonismo di personaggi in buona parte difficili da scrivere (e da leggere, nelle loro motivazioni profonde). È insomma, uno di quei mix che, o hai in mano un capolavoro che riesce miracolosamente a tenere tutto assieme e farlo funzionare, o esploderà pesantemente come un mezzo corazzato qualsiasi sulla strada di Tetsuo. Nel caso di Akira, direi che la posterità ha già decretato su quale lato si adagia. Direi che posso coscientemente accodarmi, visto che nella mia particolare visione i capolavori sono proprio questo: non film perfetti, anzi, opere d’arte che si ergono per strani e sovente imperscrutabili motivi al di sopra dei loro difetti. Sono i Blade Runner, sono i Brisby e il Segreto di Nimh, entrambi del 1982 (l’anno del manga), da cui Akira sembra aver appreso una lezione importante, la costruzione di un futuro cyberpunk dall’uno, la guerra tra Scienza, Natura e Ignoto (intesa come polemos, uno dei principi eraclitei) l’altro. Che poi futuro tra virgolette, quel 2019 è tale solo sul calendario, il mondo di Akira è quello anni ’80 dei telefoni a gettoni e le manifestazioni studentesche e antigovernative che infuocavano le strade del Giappone. A tal proposito, se volete un valido rappresentante di finzione storica ambientato in quel mondo, vi consiglio caldamente di leggere Norwegian Wood, un libro straordinario scritto da chi, Haruki Murakami, quegli anni li ha vissuti davvero.

Frattanto nel film, uno dei gruppi di protesta finisce per incrociarsi con i giovani Centauri quando Kaneda, alla stazione di polizia dove li hanno sbattuti dopo il rapimento, si invaghisce di una dei membri, Kei. Anche se sembrano saperne sul misterioso vecchio-bambino – chissà se Otomo si è ispirato al Mamoo della Pietra della Saggezza, a sua volta modellato sull’attore Paul Williams de “Il Fantasma del Palcoscenico” – i ribelli e la loro lotta col potere costituito sono più che altro un MacGuffin per giungere alla presenza di Tetsuo. Meravigliosa e tragica però la loro fine, trascinati nella sorte parallela del consiglio di governo; divorati da questo Giappone al limite che fagocita e collassa continuamente su sé stesso. Esattamente come farà, in una esplosione di body horror, il corpo di Tetsuo, provato infine dai suoi poteri psicocinetici: acquisiti nello scontro fatale di quella notte, lo rendono praticamente imbattibile, al costo di tremendi mal di testa, visioni, incubi come quello delirante dei giocattoli indemoniati, che sembrano una versione satanica di certe carte di Yu-Gi-Oh. E una voce che lo chiama: ma, se proprio a lui appartiene, chi è questo fantomatico Akira? Comincia una marcia della morte attraverso Tokyo, mentre si accodano torme di fanatici millenaristi, in cerca del loro salvatore, e un esercito ottuso e violento cerca inutilmente di opporvisi.