29.10.18

Recensione: "Antiviral"

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L'opera prima del figlio di Cronenberg è un film visivamente bellissimo, bianco, simmetrico, elegante.
Ma malato, estremamente malato.
In un prossimo futuro il divismo - uno dei concetti più lontani da me che esistano- è arrivato a livelli così assurdi e patologici che i fan comprano i virus, le malattie, contratte dai loro idoli.
Brandon "copia" suo padre (e ben venga la cosa per me) in un film che è uno Sci-Fi di corpi, aghi, malattie e mutazioni.
C'erano tutti gli elementi per tirar fuori un mezzo capolavoro. Così non è per una sceneggiatura un pò cervellotica e dispersiva. E per una mancanza di empatia in una storia sì cerebrale ma che aveva anche tutte le carte in regola per emozionare.
Ma ce ne fossero di film così.
Invece di attori come Caleb Landry Jones credo ce ne siano pochissimi.
Pochissimi

E' passata circa mezz'ora dall'inizio del film.
C'è una scena.
Io scrivo subito sul mio blocchetto "Cronenberg".
Voglio dire quando vedi carne, mutazioni, protesi ferrose tutt'uno col corpo impossibile non pensarci.
Uno dei miei due disastrosi compagni di visione (entrambi si addormenteranno più volte ed io non solo ero tenuto a svegliarli, ma anche a spiegargli scena per scena di un film che sì, è difficilotto), dicevo, uno dei miei due compagni di visione dice "Ma questo è Cronenberg!"
Anche lui, mentre lo stavo scrivendo io.

Ed ecco che come un flash mi sono ricordato che questo era, forse, proprio il film d'esordio del figlio di Cronenberg.
Vado a controllare al volo e sì, è suo.
Ricordo anche che me l'aveva consigliato, e forse pure mandato, un lettore.
Ma per una volta ho ringraziato di essermi dimenticato di tutto e di "riconoscere" da solo un Cronenberg dietro la macchina da presa.
Ovviamente mi immagino già tutti quelli che avranno criticato Antiviral, magari adducendo frasi come "Eh, vuole imitare il padre ma non è il padre" o cose simili.
Io sono completamente dall'altra parte della barricata.

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A me che un figlio intraprenda il mestiere del padre e nel suo primo film metta così tante cose dentro del su babbo pare bellissimo.
Tra l'altro in un'opera prima notevole, potentissima, molto imperfetta ma davvero interessante.
Quindi grande Brandon, ottimo esordio. E che hai imitato papà è una cosa grande, intima, che va oltre il cinema.
Ma tranquillo, ai cinefili non va bene.

Altro excursus.
Caleb Landry Jones.

28.10.18

Recensione: "7 Sconosciuti a El Royale"

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L'opera seconda del Goddard che debuttò col grandissimo "Quella casa nel bosco" è un film molto strano, per larghi tratti quasi indecifrabile.
Noir, storico-politico, thriller, giallo.
Una sceneggiatura ambiziosissima, americana fino al midollo, visto che nasconde al suo interno tutto quello che gli Stati Uniti sono, tutti i loro scheletri nell'armadio, le loro ipocrisie, le loro morti, i loro sogni, la loro musica, i loro generi cinematografici.
Troppo lungo, troppo confuso, troppo pieno di cose.
Eppure piano piano ci si riesce ad entrare dentro e alla fine questa sua anarchia diventerà il punto di forza di un film in cui, come i propri personaggi, niente è come sembra e dove può sempre accadere qualcosa che non ci si aspetta.

presenti spoiler, anche se ho evitato di fare i nomi di chi muore e chi no

Dopo lo straordinario esordio con "Quella casa nel bosco" (lo ribadisco, per me è uno dei 10 "horror" più importanti degli anni 2000) aspettavamo un pò tutti alla seconda prova Drew Goddard.
Nel frattempo ha proseguito la sua carriera di sceneggiatore (cominciata col gioiellino Cloverfield) scrivendo due film per me dimenticabili come World War Z e The Martian.
Alla regia, però, mancava da 6 anni.
E, lo dico subito, Bad Times at the El Royale (incomprensibile e completamente sbagliato il titolo italiano) è in gran parte una conferma per Goddard ma anche un evidente passo indietro.
Quello che è sicuro è che proprio nella sceneggiatura possiamo identificare i più grandi pregi e i più grandi difetti.
Una sceneggiatura enorme, non di livello, ma di complessità e ambizione.
Credo che dentro questo script possa esserci veramente tutta l'America (intesa come States) ma per uno spettatore italiano è davvero difficile cogliere tutti i riferimenti che, nascosti o no, vengono mostrati nel film.
Si tratta comunque di un film ambiziosissimo, pieno di personaggi, cose e tematiche.
Eppure l'incipit è tutto sul minimalismo.
Inquadratura fissa, una camera d'albergo.
Sembra di stare a teatro, ambiente unico e nessun movimento di macchina.
Camera spoglia. 
In una specie di time-lapse vediamo un uomo che, dopo aver liberato la stanza del mobilio, "seppellisce" una borsa sotto le assi del pavimento.
Poi rimette tutto a posto.
Poi qualcuno suona alla porta.
Poi qualcuno lo uccide.
Gran bell'inizio.

E quest'omicidio improvviso e inaspettato sarà poi un must del film, avverrà almeno altre 4-5 volte.
Siamo nel grande albergo El Royale, un tempo frequentatissimo e adesso ormai abbandonato.
L'albergo è precisamente al confine tra il Nevada e la California, la linea rossa dello stesso confine passa addirittura dentro lo stesso hotel, nel piazzale, nella hall e nei sotterranei. Insomma, un albergo tra due stati (e anche qua una delle prime tematiche del film, con la differenza abissale di regole e modi di vita che possono esserci in due stati americani contigui).
A dir la verità questo giochino della linea sarà protagonista nel primo quarto d'ora, per poi sparire del tutto.

24.10.18

Recensione: "Jim & Andy" - BuioDoc - 40 - Su Netflix

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Nel 1999 esce lo stupendo Man on the Moon, con Carrey che interpreta il geniale comico Andy Kaufman.
E lo fa in maniera talmente mimetica da far paura.
Venti anni dopo esce questo documentario sul dietro le quinte del film che è anche una intervista-seduta terapeutica allo stesso Carrey.
Se amate Carrey, o se amate Kaufman, o se amate Man on the Moon dovete vedere Jim & Andy.
Ma potete o dovete farlo anche solo se amate il mestiere dell'attore, per capire questo strano mondo di false identità, di maschere dietro le quali nasconderci o scatenarci.
Per capire che, a volte, si interpreta qualcun altro anche solo per fuggire da sè stessi


Quando il secolo scorso emise i suoi ultimi respiti, nel 1999, uscì Man on the moon.
Il film raccontava la vita di un comico incredibile, Andy Kaufman.
Per interpretarlo venne scelto un comico altrettanto incredibile, forse meno geniale e più smorfieggiante, ma grande lo stesso, Jim Carrey.
Carrey solo l'anno prima aveva stupito il mondo in un ruolo drammatico in uno dei più grandi film che abbia mai visto, The Truman Show.
Man on the moon sarà la conferma del suo immenso talento, la conferma che dietro la sua incredibile mimica facciale e la sua esuberanza c'era molto altro.
Poi arriveranno The Majestic e un altro capolavoro, Eternal Sunshine.
Quando vidi Man on the moon mi innamorai perdutamente di Andy Kaufman, di questo comico alieno, uno capace di fare e pensare cose incredibili, quasi tutti contro ogni logica comica.
Kaufman che lesse tutto di seguito in tv Il Grande Gatsby, Kaufman che sfidò, con sprezzanti - e finte - invettive misogine le donne a sfidarsi con lui a wrestling, Kaufman che creò un suo alter ego, l'immenso Tony Clifton, e per molto tempo nessuno si accorse che fosse lui, Kaufman che che finse la morte di una donna a teatro e si mise a ballare sopra di lei per farla tornare in vita e tanto tanto altro ancora.
Mi innamorai così tanto di questo comico - non comico, fuori da ogni regola, che andai a vedermi i suoi video sul tubo.
E mi si fermò il cuore. 


Tutto quello che avevo visto nel film interpretato da Carrey era là, identico.
Se togliessimo la "grana" cinematografica e televisiva rischieremmo quasi di confonderli.
Pensai che raramente, forse MAI, avevo visto una tale mimesi tra attore e personaggio - tra l'altro in questo caso reale-  interpretato.

16.10.18

Recensione: "Laissez bronzer le cadavres" - "Dhogs" - "Tigers are not afraid" - "Dog" - TOHorror - 4 -

L'ultima giornata al ToHorror Film Festival è assolutamente la migliore delle 4.
Paradossalmente il film più debole è proprio quello che avrei pensato come capolavoro, l'ultima pellicola dei registi di Amer.
Poi abbiamo una bellissima fiaba nera messicana, un interessantissimo film-game metacinematografico galiziano e uno stupendo, comico e straziante, film francese - Dog - che, per me, è la cosa più bella vista questi giorni

Nei due film con titoli simili, Dhogs e Dog, presenti spoiler


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LAISSEZ BRONZER LE CADAVRES ( fuori concorso )

Personalmente la grande delusione del festival.
Non dico di essere andato a Torino per questo film (semmai per Climax) ma è stato sicuramente uno dei motivi principali.
Lo sapete, avevo amato Amer sopra ogni cosa.
E avevo sentito di un film che manteneva lo stesso incredibile stile della coppia Cattet-Forzani ma, in questo caso, al servizio di qualcosa di più narrativo.
E sì, è tutto vero, ma che delusione...
Appena il film comincia sono dentro Amer. Dettagli ravvicinatissimi (occhi, labbra), rumori anche minimi esasperati al massimo (con Cattet-Forzani anche un respiro o lo struscio di un vestito diventano debordanti), giochi grafici, fotografia straordinaria, gusto dell'inquadratura raffinatissimo.
Che meraviglia, sono ancora vostro, mi son detto.
Il problema è che poi il film va avanti, è sì abbastanza narrativo ma poi, dopo un quarto d'ora, si blocca del tutto.
E assisteremo ad un'ora sempre uguale a sè stessa, una stessa scena o stesse dinamiche ripetute all'infinito.
Mi nascondo, sparo, parlo, mi nascondo, sparo, parlo, mi nascondo, sparo, muoio, parlo.
Tanto che, veramente, ho rischiato di addormentarmi più volte.
Questo qua è l'unico, ma veramente unico, film senza tematiche di tutto il festival, di tutti e 13 i film. Niente, non c'è niente dentro.
E o.k, sticazzi delle tematiche a volte. Il problema è proprio nell'assenza assoluta di ritmo e in quella delle trovate narrative, talmente nulla che l'unica speranza era non che succedesse qualcosa ma che ce la mostrassero nel modo più bello possibile.
In Amer almeno c'era così tanto mistero e simbologia che ce ne fregavamo della "storia". Qui la storia c'è ma è meno storia della storia di Amer.
E allora che fare? 
Niente, l'unica cosa era ogni volta aspettare qualche trovata visiva nuova, qualche inquadratura indimenticabile.
E ce ne sono, tantissime.
Quel corpo d'oro, gli sfondi color pastello, la strepitosa sequenza del girarrosto, la centralità delle inquadrature, la mappa con le formiche che simula gli spostamenti umani (geniale), quella ragazza in controluce che tanti vedono (e che per me simboleggia la Morte, Morte che colpirà praticamente tutti), i pezzetti di carta infuocati, quella morte tra oro e sangue.
Un'opera d'arte.
Ma che non va avanti, non racconta nulla, non ha tematiche, non ha sottotesti.
La magnificenza del Nulla

6.5

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DHOGS ( in concorso )

Molto molto interessante.
Parte che pare di ritrovarsi in Holy Motors (o in Interruption), con questi spettatori in sala che guardano uno spettacolo.
Dopo pochi minuti, nella sequenza del tassista che si cambia d'abito, ci sembrerà ancor di più di ritrovarsi nel film di Carax.
Alla fine però ci accorgeremo che quella di Dhogs è operazione per certi versi simile, specie nella metacinematograficità, ma anche molto differente.
Abbiamo diversi episodi, apparentemente slegati l'uno dall'altro ma in realtà tutti in qualche modo collegati.

13.10.18

Recensione: "Housewife" - "Pig" - "St. Agatha" - "One Cut of the dead" - ToHorror 2018 - 3 -

E così è successo, per la prima volta in vita mia mi son visto 4 film in un giorno (ma il record fuori dai festival rimane di soli 2).
Abbiamo la clamorosa conferma del regista dello splendido Baskin, uno strano film iraniano dal soggetto geniale ma poi troppo debole ed esplicito nel trattarlo, un horror psicologico purtroppo tanto già visto e uno spettacolare comedy-zombie che porta il livello di metacinema su lidi mai visti prima

possibili spoiler in qualche film





HOUSEWIFE (fuori concorso)

E così dopo la grande opera prima Baskin abbiamo la conferma di avere un autore horror con i controcazzi (e, attenzione, le opere seconde son quelle che di solito fregan tutti).
Stiamo parlando di Can Evrenol, turco.
Housewife parte con un prologo folgorante, derivativo sì ma talmente ben girato, fotografato e montato che ce ne freghiamo.
Sentiamo la parola "visitatori", strane figure viste solo dalla madre. La mente mi è andata subito a The Others ma poi in realtà i due film sono cose completamente diverse.
Semmai il punto di riferimento più vicino nel cinema recente direi che potrebbe essere Amer. Stesse due temporalità, sempre una bambina nel prologo che subisce un trauma fortissimo (davvero potente e drammatica quella scena), stessi colori (il blu e il rosso la faranno da padroni per tutto il film, forti richiami ai grandi classici dell'horror-giallo italiano) e, come in Amer, la chiave "sessuale" usata per sublimare quel trauma infantile.
Sì, il sesso la farà da padrone in questo splendido film, molto complesso. Dal primo mestruo nel prologo alla "nascita" dell'epilogo quasi ogni scena ha una forte componente sessuale-erotica, quasi sempre giocata sul simbolico però.
Film elegantissimo, colonna sonora perfetta, 3-4 stacchi di montaggio bellissimi, atmosfera che gioca sempre tra realtà e sogno, presente e passato, verità inconfutabili che poi diventano nuove verità, commistione tra mondo-altro e convegni stile Scientology.
E, a differenza di tanti, troppi film, di questo festival rovinati da troppi dialoghi (almeno 4) qua si parla il meno possibile, qua di spiegoni o metafore svelate non ce ne sono, qua è lo spettatore a dover mettere del suo per interpretare.
Housewife è un horror psicologico giocato sui meccanismi del sogno, dalla rimozione alla sostituzione, anche se questi viaggi temporali e metaforici non incidono in una narrazione degli eventi ricostruibile linearmente.
La fotografia è magnifica (ma del resto anche in Baskin lo era), la classe di Evrenol indubbia, semmai potremmo storcere il naso per un eccessivo simbolismo e per un finale di grandissimo impatto e di pari difficoltà interpretativa ma, insomma, ce ne freghiamo quando abbiamo atmosfere così.
Ritroverete Argento, Fulci, Lynch, De Palma, Polanski in un film che però non scimmiotta nessuno. E poi ancora collassi temporali, oggetti simbolo (bellissima la paura del w.c), deja vu, fino ad un finale delirante (anche in Baskin ad un certo punto arrivava il delirio) in cui pare che Rosemary,s Baby ed Eraserhead si siano fusi insieme.
Il film a questo punto mette dentro concetti superiori, trascendentali, con richiami lovecraftiani inconfutabili.
E una storia "semplice" di trauma famigliare diventa qualcosa di molto più grande, una specie di terribile racconto di ereditarietà di poteri superiori all'uomo.
Che dire, film complesso che potrebbe anche allontanare lo spettatore ma io davanti a tanta classe e capacità di suggestioni mi sciolgo sempre

7.5/8


PIG ( in concorso )

Ah, ma che peccato...
Il soggetto di Pig è, ad adesso, il più originale e accattivante del festival.
In Iran ad un certo punto tutti i registi cominciano ad essere uccisi da un serial killer.
Solo uno di loro sembra salvarsi. E a lui sta cosa non sta bene, gli sembra di non essere considerato. E, alla fine, viene anche sospettato di essere lui lo stesso killer.
Grande idea e gran prologo.
Ma se ci sono scene veramente riuscite è anche vero che Pig commette una marea di errori.
Uno è da matita blu.
Il film è una chiarissima metafora sulla censura in Iran, sull'impossibilità di far arte, sui registi avversi al regime.
Il problema è che questa cosa viene esplicitamente detta e non solo una volta ma una decina.
Ed ecco che non possiamo più parlare di metafora (che, si sa, la metafora è figura retorica giocata sull'ellisse e sulla semplice sostituzione) ma di vero e proprio film di esplicita denuncia.
E siccome il film ha assolutamente la costruzione di una metafora sentirsi poi infiniti dialoghi che ce la spiegano diventa estenuante.
Come se non bastasse in almeno 5 scene Pig diventa una specie di Natale in Iran, con momenti di comicità che definir di grana grossa e privi di guizzi è poco.
Per non dimenticare dei surreali inserti musicali alla Austin Powers abbastanza irritanti per me.
Peccato, peccato perchè l'idea era formidabile, l'attore principale quello giusto, la parte del serial killer convincente e qualche accenno al metacinema interessante.
Poi nel finale il film cambia radicalmente tematica, andando a parare su quella del successo virale, dell'importanza di You Tube, del "esisti solo se hai like", dell'esser disposti a tutto a costo di avere successo.
Il tutto anche ben rappresentato eh, ma dimostra ancora una volta una scarsa capacità del regista di mostrare senza spiegare.
Ho adorato invece che, alla fine, non si sappia chi fosse il serial killer, questa sì una grandissima metafora lasciata tale (il killer è un'entità sconosciuta - Lo Stato? - che non ha volto).

6

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ST. AGATHA ( in concorso )

Madò quanto me dispiace che fosse presente in sala proprio la sceneggiatrice (tra l'altro bellissima ragazza, italiana ma che lavora negli Usa) perchè è proprio la scrittura del film quella che, insieme alla tremenda colonna sonora, è forse la parte più debole del film.
La sceneggiatrice ci ha esplicitato il suo (legittimo) pensiero anticlericale ma poi è evidente come questo suo astio abbia portato ad un film che non ha saputo restare dentro un limite credibile ma abbia portato quegli assunti a derive talmente esagerate da raggiungere risultati a volte pacchiani.
Perchè se è vero che un film sulle suore cattive è sempre ben accetto poi metterci dentro anche la loro avidità, mostrarcele torturatrici, con i fucili in mano, traditrici, picchiatrici e tanto altro è il tipico esempio di quanto si voglian dire troppe cose avendo troppo poco tempo per dirle.
E, purtroppo, come con Pig e altri film del festival, si parla tremendamente troppo, si spiega tutto, si mostra tutto, si gioca veramente poco coi silenzi.
Ci sono poi dei flash back con una fotografia assassina, piena di filtri, non si regge.
E una colonna sonora opprimente che sottolinea ogni passaggio.
Ma che il regista o il direttore della fotografia abbian problemi lo dimostra anche la scena di lei che si aggira la notte. Lo fa con una candela accesa quando, in realtà, la luce che arriva a noi è fortissima (tra l'altro quella candela non la spegne mai quando è l'elemento più forte - se fosse buio DAVVERO - per farsi scoprire).
Si riesce poi a peggiorare una scena già di per sè terribile mostrandoci lei che legge il libro senza bisogno della candela. Insomma, un paradosso.
Ma forse la scena più incomprensibile è quella della ragazza disposta a fari torturare solo per non rispondere "Agatha" alla domanda "Chi sei?".
Insomma, io gli dicevo Agatha sulla fiducia.
Però, incredibilmente, il film regge, non è un disastro, ti tiene lì, ha talmente tante cose dentro che alla fine tutto st'insieme qua e là qualcosa ti lascia.
Anche qua ad un certo punto viene messa dentro una setta (l'idea dei "compratori" mi ricorda Get Out o uno degli Hostel, anche se lì le merci eran diverse) e anche qua (e direi agli organizzatori che invece della strega questa poteva essere la tematica comune del festival) abbiamo grandi accenni di schizofrenia (come in Is that you?, Housewife, Derelicts e in parte anche Climax).
Quando alla fine le suore diventano una specie di ghetto-gang però ci cadono le braccia.
Un applauso comunque a questa sceneggiatrice. E il consiglio di usare il suo talento più sul non detto e sul poco e non sull'ossessione di voler dire tutto quello che ha da dire o che pensa di alcuni aspetti del mondo.
Less is more, in bocca al lupo

6




ONE CUT OF THE DEAD ( in concorso )

Ed eccola la vera perla del concorso (anche se per adesso come film migliore in assoluto del festival se la lotta col film cubano).
One cut of the dead è probabilmente il film più metacinematografico della storia del cinema.
Come abbiamo detto ieri è meta-meta-meta-meta cinematografico, ovvero parla del cinema che parla del cinema in almeno 4 diversi modi.
Si sta girando uno zombie movie.
Ad un certo punto sentiamo "cut", era solo un film nel film. Solo che quando gli attori sono in pausa vengono attaccati da veri zombie.
Insomma, film nel film.
O almeno questo si pensava.
No, andremo molto molto oltre.
Perla comica, geniale, capace di far ridere in maniera fragorosa tantissime volte, specialmente nel quarto segmento metacinematografico (ovvero quello del "vi mostriamo realmente come sono andate le cose").
Le trovate sono infinite e avviene una cosa incredibile, ovvero quella di provare "empatia" per una troupe, pazzesco.
L'idea di girare un film live, in diretta televisiva, con un unico piano sequenza non solo è straordinaria ma è l'unica "scusa" che si poteva pensare per poi realizzare tutto il resto, ovvero un film che "non si poteva fermare" in nessun modo.
Tra l'altro carinissimo che all'inizio si dica che quella scena fosse al 42imo ciak, paradosso di un film che poi sarà quasi solo one take.
Ma funziona maledettamente tutto, compresi tutti i personaggi, dal regista disperato e invasato a sua moglie (la migliore) - attrice che prende tutto troppo sul serio -, dall'ubriaco al fonico che deve cacà.
E funziona incredibilmente anche la piccolissima parte emotiva, con quel padre e quella figlia che si ritrovano in questo casino dove tutti devono aiutare tutti.
Come se non bastasse avremo nei titoli finali un quinto metacinema e, se vogliamo, un sesto nel titolo stesso del film, che è lo stesso titolo del film nel film.
Insomma, non fatemi dire niente di più, imperdibile

8

12.10.18

Recensione: "Derelicts" - "Boar" - "Summer of 84" - "Is That You?" - ToHorror 2018 - 2 -

Dopo il film evento Climax iniziamo a parlare degli "altri" film.
Nei 4 di oggi ce ne sono 3 in concorso, uno - Summer of 84 - fuori.
Abbiamo un film dimenticabile, uno molto migliore di quello che si poteva pensare, uno buono e uno ottimo.
Proviamoci

presenti spoiler


DERELICTS ( in concorso)  

Ad oggi il film più debole visto.
Inizio riuscito con un montaggio molto particolare ed evocativo e la divertente sequenza dei due vecchi che trombano come non ci fosse un domani.
Da lì in poi parte un home invasion sgangherato, completamente improbabile per dinamiche e personaggi.
Lampanti e direi espliciti i rimandi a La Casa del Diavolo (o quella dei 1000 corpi) di Rob Zombie e quelli a Non aprite quella porta, specialmente nella "figura" dell'assurda famiglia di assassini che irrompe a casa della famiglia "presuntemente" normale.
Paradossalmente il film può assomigliare al bellissimo Krisha, siamo sempre nel Giorno del Ringraziamento e c'è un tacchino (che anche qua non verrà mai mangiato) a farla da padrone.
Abbastanza riusciti alcuni personaggi della famiglia dei pazzi, come quella specie di Leatherface con un orsacchiotto in faccia e la ragazza mezza demoniaca.
Molto anonimi invece i componenti della famiglia tradizionale, anche se, per recitazione, la mamma riesce a spiccare.
Il film è un'ora e un quarto quasi sempre uguale a sè stessa con qualche battuta buona (finger food su tutte), qualche scena riuscita (l'occhio fatto esplodere col pompa-pene) ma con tante tante cose che non vanno, tipo la pioggia fatta con Paint, alcuni errori madornali (BunnyMan che distrugge tutta la tavola e la scena dopo è tutto a posto) e scene improbabili (il vecchio che deve cacà).
In ogni caso è opera prima, fatta col niente, ci si accontenta.
Quello che dispiace semmai è non trovarci nessuna idea dentro.
Nel finale c'è una possibile, anzi, direi quasi certa, allusione al "era tutto un sogno", ma anche qua l'idea non sembra ben sviluppata.
E anche la possibile tematica "la famiglia di pazzi non è comunque peggiore di quella tradizionale" non incide.
Per appassionati

5.5

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BOAR ( in concorso )

Non avrei mai pensato che dopo Razorback (film di cui ricordo nulla, se non una serata magnifica) mi sarei ritrovato un'altra volta a vedere un film su un cinghiale assassino...
Eppure con i festival accade anche questo.
Presentatomi come film super cazzone (semmai lo era invece Derelicts) in realtà Boar va oltre ogni aspettativa rivelandosi film ben recitato, con una componente drammatica o "seria" convincente e con degli effetti speciali (non visivi) davvero sorprendenti, primo tra tutti il mega mega cinghiale animatronico praticamente identico a quello dell'immagine simbolo de Re della terra selvaggia.

11.10.18

Recensione: "Climax" - ToHorror 2018 - 1



L'ennesimo enorme film di Noè.
Insieme a Seul contre tous e Enter the void potremmo quasi parlare di una trilogia di film esperienza, tutti unici.
Un gruppo di ballerini si ritrova in un salone per preparare una coreografia.
Iniziano a bere.
Iniziano a sta male.
In un delirio di corpi, musica, colori e magnificenza tecnica un film sul caos, sulla perdita di sè.
Un sabba

presenti spoiler

Lo dico da subito, son di parte.
Adoro Noè.
E ho adorato Climax.
Ieri della ventina di persone che eravamo a vederlo molti più della metà erano tra il perplesso e lo schifato, solo in 3-4 non avevamo dubbi sul fatto di aver visto l'ennesimo enorme film del nostro.
Ci tengo a dire che capisco perfettamente ogni critica, qualsiasi critica.
Se c'è un film che può destabilizzare o irritare questo è Climax.
Quindi tranquilli, vi capisco.
Ma se fate parte dei detrattori forse meglio non leggere, tutto quello che io esalto - in buonissima fede- è quello che voi avete odiato.

Neve.
Con una bellissima inquadratura dall'alto vediamo una ragazza arrancare disperatamente.
Poi titoli di coda del film.
Quelli veri eh, tanto che alla fine effettiva del film non li vedremo (qua c'è un piccolo errore di Noè, visto che poi vedremo quella ragazza che fine ha fatto in una inquadratura).
Tra l'altro questo gioco verrà riproposto anche dopo, con i titoli iniziali messi a metà film e con il titolo del film, invece, fatto vedere solo alla fine.
Insomma, dopo i titoli di coda comincia il film.
Con delle interviste a dei giovani francesi. Sono provini per far parte di un gruppo di danza. Si chiede loro quanto la amino, la danza dico, i loro obiettivi, alcune domande più private.
Poi, e il campanello si accende, che rapporto abbiano con la droga.
Poi ancora si parla di America, probabilmente questo gruppo di danza finirà negli Stati Uniti.
E, attenzione, nella mia lettura questa cosa conta abbastanza.
Tra loro c'è anche una ragazza americana, una soltanto, ricordatevelo.

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Le interviste son tante, direi troppe.
Ma questo "tanto, direi troppo" sarà costante di tutto Climax.
E' che Noè porterà tutto al suo limite estremo in durata. 
E sia in queste interviste che poi nella sequenza in god view del ballo ci mostrerà tutti, letteralmente tutti, i ballerini, più di venti mi pare.
Le interviste le vediamo in un vecchio televisore casalingo ai lati del quale ci sono impilati dvd di film. E tra questi dvd ci sono anche i film che molto probabilmente hanno ispirato Noè.
Ma fermiamoci un attimo, a queste estenuanti interviste.
Una "sequenza" lunga, forse forse pure noiosa, esasperata.
E allora parliamo subito di uno degli aspetti più incredibili di Climax, ovvero quello del ritmo.
Dopo il prologo (epilogo) assisteremo a un film in 5 "atti" caratterizzati da 5 tempi diversi, anche se in tutti e 5 i casi dilatati al massimo.
Prima queste interviste.

9.10.18

Recensione "Mayhem - Disperata Ricerca" - Joseph Mehri - 1986 - Boarding House - 13 - di Giorgio Neri

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Torna la rubrica esterna più longeva de Il Buio In Sala, quella curata da quel pazzo assurdo di Giorgio Neri.
Torna, al solito, con uno dei suoi introvabili, malati, sporchi cult degli anni 70 e 80, film che ha visto solo lui e che nessuno come lui in Italia conosce così bene. 
Stavolta, in fondo, c'è anche il link del film!
Vi lascio alla solita delirante ma lucida, malata ma molto competente, recensione di Giorgio

Ah, trovate le altre 12 puntate sull'etichetta Boarding House, a sinistra nella home page del blog


“Vaffanculo” è una parolina magica
che risolve molti problemi.
Jim Morrison

Chi bazzica tra i cestoni dei dvd dei centri commerciali, possedendo
una profonda ed inveterata curiosità, sarà sicuramente stato attratto
dai prezzi bassissimi dei dvd di questo regista e produttore siriano:
Joseph Merhi che, insieme al suo collega Richard Pepin (una specie di
tuttofare: si ritaglia ruoli di direttore della fotografia, montatore
e anche produttore all’occorrenza), ha avuto una discreta carriera
negli anni Ottanta e una notorietà nel XXI secolo - sul web - come
regista peggiore di Edward D. Wood Jr.
Eppure Joseph Merhi ha concepito ed iniziato la sua carriera
cinematografica con un film che ha diversi elementi in comune con Henry - Pioggia Di Sangue di John McNaughton.
Stesso anno: il 1986.
Due protagonisti: nel film di McNaughton sono due sadici e serial
killers; in Mayhem sono due “giustizieri” che fanno piazza pulita di
delinquenti e spacciatori.
In mezzo alla violenza, una donna che nel film di Merhi si sdoppia in due.
Unica differenza - a parte che McNaughton ha una capacità registica
migliore e una raffinatezza invidiabile nel trattare la violenza - è
il fatto che il film di Joseph Mehri andò in sala nello stesso anno in
cui uscì mentre Henry apparve al cinema solo nel 1989.

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Ma cos’ha di speciale questo film?
È genuino e senza sofismi di sorta nel trattare la disperazione e il
caotico mondo dell’esistenza dei personaggi coinvolti (“mayhem”
significa, infatti, Caos).

8.10.18

Recensione: "Anatomia del Miracolo" - BuioDoc - 39 -

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Sant'Anastasia, Napoli
Siamo nei giorni della processione della Madonna dell'Arco, una Maria ferita nel volto che è punto di riferimento dell'intera, devotissima, comunità.
Ci sono una ragazza in carrozzina che non crede più ai miracoli, una pianista coreana che vede Dio nella musica e una trans che vive invece la sua religiosità in maniera più classica e sentita.
Dopo Il Libraio di Belfast un altro dolcissimo documentario di Alessandra Celesia, autrice che riesce sempre a star fuori da quello che mostra, a non dare giudizi, ma al tempo stesso ad amare le sue storie in modo assoluto

il film inizierà il suo tour di proiezioni a metà novembre



Mica facile recensire un film che hai presentato ad un festival parlando con la regista.
Chè poi uno può pensare che sei condizionato dalla cosa o, quantomeno, condizionato dalle sue parole.
Poi il giorno dopo trovi su facebook un commento di quello che, per te, era il "personaggio" (leggasi persona) più bello del documentario. E allora diventa ancora meno facile scrivere, c'è sempre quella fastidiosa sensazione che poi scriverai cose belle apposta.
E invece no, e invece le cose belle che scriverò son belle semplicemente perchè son belle, fatevene una ragione.
Avevo già "conosciuto" Alessandra Celesia col dolcissimo "Il Libraio di Belfast", un documentario sussurrato, tenero, una carezza nel viso.
E ritrovo qua lo stesso modo di approcciarsi alle cose di Alessandra, quel suo "star fuori" da quello che mostra facendoci comunque sentire la sua presenza, il suo amore per l'umanità che racconta.
Che poi vai ad analizzare il titolo, con quella parola così fredda, "anatomia", e qualcosa non ti torna.

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Perchè se è vero che lo sguardo di Alessandra riguardo la materia del film è distaccato, non personale, oggettivo (tanto che io non avevo nemmeno capito se fosse atea o religiosa) e quindi sì, quello che vediamo è effettivamente il "corpo", la morfologia del miracolo, è anche vero che è invece molto personale il suo occhio, il come ci mostra le cose.
Potremmo dire, quasi con un ossimoro, che quello di Alessandra è un partecipatissimo modo di raccontare distaccatamente le cose.
Siamo a Napoli, più precisamente nelle frazione di Sant'Anastasia, frazione devota, devotissima, alla Madonna dell'Arco, una Maria ferita in volto, diversa dalle altre.
Seguiamo principalmente la storia di 3 personaggi, una trans completamente inserita nella comunità e nella vita religiosa della città (tanto che partecipa attivamente all'organizzazione della processione), una splendida ragazza sulla sedia a rotelle che ormai ai miracoli non crede più e una pianista coreana rimasta folgorata da Napoli.
Ne nasce un film che è tutto giocato sul numero 3.
Tre, ovviamente, che è anche il numero per eccellenza nel cattolicesimo.
Ma tre sono anche le "lingue" parlate nel film, lo stretto napoletano, l'italiano di qualche religioso (e della ragazza sulla sedia a rotelle) e l'inglese della coreana.

Ma tre sono anche i diversi approcci al "miracolo".
Quello di Fabiana (la transessuale) è classico, da perfetta devota, accecato dalla fede e incrollabile.
Quello di Giusy (la ragazza) è invece sul binario opposto, ovvero quello di un ateismo "razionale" che porterà, tra l'altro, a delle riflessioni straordinarie.
E poi c'è Sue che, a mio modo di vedere, è a metà delle due.
Perchè se è vero che la sua vita è completamente dentro la religione è anche vero che la sua ricerca in vita, il suo "miracolo", ha matrici più universali.
Per lei Dio è da ricercarsi nella musica, vero e proprio linguaggio divino.
Ad un certo punto dice una cosa bellissima, ovvero che l'uomo è l'unica creatura al mondo a non conoscere il suono del suo canto.
E lei quello vuole trovare, il suo canto o, citando Whitman come fa lei, il suo battito.
Una visione più ampia della religiosità che mi ha ricordato anche un certo animismo, tipico, ad esempio, degli anime di Miyazaki.



Ma tre sono anche i tipi di barriere che il film presenta.
Per Fabiana c'è quella dell'identità sessuale.
Per Giusy c'è quella della condizione fisica.
Per Sue c'è quella linguistica.
Sono tre modi diversi di non essere "uguali" agli altri, tre modi diversi di avere difficoltà nello stare al mondo, nel confrontarsi e nell'accettarsi.
E' come se le tre donne fossero tre esseri viventi "ibridi", una uomo-donna, una normodotata-handicappata, una straniera-napoletana, tre donne al confine tra due mondi.
Ma nel documentario, come avviene spesso con la Celesia, questi eventuali problemi non vengono mai mostrati con pesantezza, anzi, la diversità e le eventuali ferite sono prese con grandissima serenità e forza.
Non c'è mai commiserazione, mai esagerata pietas.
Verso la fine del documentario Giusy dice una cosa bellissima, ovvero che riesce a riconoscersi solo per come è, come se quella sedia fosse parte di sè, una sua protesi. Probabilmente, se guarisse, non riuscirebbe più a veder sè stessa.
Ma del resto l'accettare le nostre ferite, le nostre mancanze, i nostri handicap, la nostra diversità è qualcosa che, appunto, ci avvicina al divino.
Dio, o chi per lui, non ci premierà per le nostre glorie o i nostri diplomi ma per le nostre ferite.
Ed è così che un film con una base fortemente religiosa diventa qualcosa di molto di più, una laica e straordinaria riflessione sull'essere umano.
Si ride più di una volta, impossibile non ridere coi napoletani. Specie la piccola storia della pentola di fagioli fa tanto Napoli e un mondo che quasi non c'è più.
Ci sono momenti più di stanca e c'è la sensazione - forse unico difetto del film - che le tre storie non abbiano un adeguato epilogo.
Ovviamente questo non è cinema narrativo, non c'è un plot. Ma, tranne che per Giusy e quel commovente finale sulle note di Vasco Rossi, gli altri due personaggi li "perdiamo", li salutiamo, in un modo troppo normale, molto meno emozionante di altre sequenze in cui li avevamo seguiti.
Quello che resterà più di tutto di questo documentario sono i volti e le frasi.
Il volto di Fabiana, il volto di Giusy con quegli occhi che strabuzzano continuamente.
E tante frasi, bellissime.

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L'amore per il silenzio della notte di Fabiana, il dialogo sul miracolo tra le due sorelle coreane ( "il miracolo è un riflesso del paradiso" "no, è il riflesso del desiderio umano di sperare che c'è qualcosa di oltre"), la razionalità di Giusy ("io ci sono nata così, che male ho fatto?" "perchè se siamo 1000 persone alla processione Dio dovrebbe salvarne solo una?"), il bimbo che mentre ascolta suonare Sue le dice che la fa chiagne, l'ipocrisia della devota che dice a Giusy che evidentemente se non ha la forza necessaria per pregare la Madonna non è abbastanza disperata, i paesani che strisciano verso Maria il giorno della processione, i neomelodici che cantano disperati.
In un documentario che non dà giudizi, che si limita solo a mostrare e tratta una tematica come quella della religione con profondo rispetto.
Poi siamo noi spettatori, semmai, a giudicare quello o quell'altro.
La Celesia ci mostra cose, semplicemente.
Nella cornice magnifica di una città poi che appena ci entri dentro è già cinema.

Ma c'è una sequenza impressionante, qualcosa che dice ancora Giusy.
Lei adora le moto, quel simbolo di velocità così opposto a quel suo starsene ferma in una sedia dalla quale mai più si alzerà.
Un giorno il padre l'ha portata ad una gara.
Tutti hanno i tappini alle orecchie, lei no.
E quando la gara parte il rombo di 20 motori è assordante.
E Giusy dice che mai niente le è sembrato così vicino al miracolo come quel rombo.
Un rombo che ha scatenato una forza immensa, una scossa quasi tellurica, un qualcosa che ha dato la sensazione a Giusy di essere leggerissima, di potersi alzare, di volare.
Questo paragone tra la dirompenza di un miracolo e il rumore dei motori di una gara mi ha fatto tremare le gambe.

E finiamo con Vasco Rossi, con Giusy che lo canta a squarciagola.
E le parole di Vasco sembrano la sinossi del film.

Vivere, anche se sei morto dentro
Vivere, e sperare di star meglio
Vivere, e non essere mai contento

vivere

vivere, è come un comandamento
vivere, come stare sempre al vento

senza perdersi d'animo mai
e combattere e lottare contro tutto contro

oggi non ho tempo
oggi voglio stare spento

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Il Cinema dell'Olimpo, 13 grandissimi film della nuova cinematografia greca


Ormai lo sanno anche i sassi, il cinema greco è probabilmente il mio preferito.
La cosa incredibile è che ogni volta che vedo un film di un autore di quelle parti provo sensazioni incredibili.
Di solito si parla di "scuole" o correnti a sproposito e esagerando in luoghi comuni.
Nel caso della new wave greca no, è evidente e assolutamente "dimostrabile" come sia venuta fuori un'ondata di autori al tempo stesso molto diversi tra loro ma comunque riconoscibili.
Un cinema quasi sempre freddo, freddissimo, un cinema del disagio, potentissimo, destabilizzante, che molto spesso è caratterizzato, specie con il capofila Lanthimos, da soggetti incredibili.
Ho scelto 13 film, 12 di autori greci e un introvabile mezzo capolavoro cipriota (dai, mezza Grecia).
 E in tutti non c'è il minimo spazio per la leggerezza (forse solo la Tsangari, ma a modo suo), ci troviamo davanti a 13 opere secche, dure, brillanti nel soggetto magari ma poi contraddistinte per la grandissima essenzialità e il modo nudo in cui ti mostrano le cose.
In alcuni casi ci troviamo davanti anche ad opere profondamente colte, che stimolano il cervello come poche.
Vediamone alcune

i titoli, se cliccati, rimandano alle recensioni



IMPRESSIONS OF A DROWNED MAN

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Parto proprio con il cipriota.
Tranquilli, non potete vederlo, è introvabile anche in rete.
Ma farò di tutto perchè un giorno venga visto.
Un'opera esistenziale, colta, ma per niente presuntuosa.
Un piccolo capolavoro sull'eterno ripetersi delle cose, sulla vita e sulla morte, sul non volersene andare

A BLAST


Credo che sia il più debole dei 13.
Forse l'unico con cui mi limiterei al "bel film".
Un film di corpi e sesso, un thriller basato sull'attesa, un'attesa che senti che prima o poi si tramuterà in un'esplosione

ALPS

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Ed eccolo il primo Lanthimos presentato (non la sua opera prima però).
Soggetto incredibile.
Un gruppo di attori viene pagato per personificare delle persone morte.
I parenti dei defunti che non accettano la perdita dei loro cari li ingaggiano e loro interpretano quei ruoli.
Un film sulla figura dell'attore e una delle più stranianti opere sulla non elaborazione del lutto che abbia mai visto

DOGTOOTH


Il film simbolo del nuovo cinema greco.
E una delle più grandi opere di questo nostro nuovo secolo.
Inutile presentarlo, inutile consigliarlo visto che ormai, anche senza esser stato mai distribuito da noi, è una pietra miliare

THE LOBSTER

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Ancora Lanthimos, nella sua prima opera fuori dai confini natii.
Tanti pensavano che si sarebbe venduto, che avrebbe cambiato la sua anima, magari per soldi.
E invece è sempre lui, soggetto geniale, analisi dei rapporti umani impressionante, omicidio degli affetti, distopia antropologica.
In un film che per colpa di un secondo tempo sensibilmente inferiore al primo non arriva al capolavoro

IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO

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La definitiva consacrazione worldwide di Lanthimos.
Opera totale, straordinaria, colta, insidiosa, metaforica, densa.
Un film su colpe e debiti.
E su forze più grandi di noi

SUNTAN


Un uomo bruttino e molto solo viene sedotto da una giovane bellissima.
Il suo cervello fa crack, quell'improvvisa e incredibile "fortuna" lo manda completamente fuori di sè.
Film molto coraggioso, con un personaggio principale al tempo stesso odioso ma, ahimè, assolutamente verosimile

ATTENBERG

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Regista donna che ritroveremo ancora, la Tsangari.
Come quasi tutti i film greci anche qua ci viene presentato un mondo degli affetti e sessuale anomalo, "sbagliato", straniante.
Opera algida, un particolarissimo (e bellissimo) coming of age

CHEVALIER


Torna la Tsangari e questa volta ci parla di noi "uomini.
E lo fa con un film tragicomico, quasi parodico.
Una spietata (ma condivisibile) analisi della ridicolaggine del maschio.

INTERRUPTION

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Per quanto mi riguarda è un capolavoro.
Uno spettacolo teatrale (L'Orestea) viene interrotto da un gruppo di uomini armati.
Sono terroristi?
Sono attori e tutto fa parte dello spettacolo?
Un film straordinario che è perfetta metafora dei nostri tempi, delle nostre paure, del nostro voler essere spettatori di tutto


LUTON

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Per buoni tre quarti di film ho pensato che fosse uno dei film greci più deboli che abbia visto.
Intendiamoci, solo perchè la media è straordinaria.
Poi però arrivano quei 10 minuti finali, incredibili.
E tutto acquista senso

STO LYKO


Incredibile, sia nella prefazione che nei mini commenti non ho mai nominato la parola chiave, quella che gli esperti dicono sia stata la molla di tanta creatività e di tanta urgenza in questo cinema, la Crisi Greca.
Innegabile che molti film l'affrontino, alcuni in maniera esplicita, altri metaforica.
Eppure nessuno come Sto Lyko parla della terribile crisi greca in un modo così spietato ed essenziale.
Quando un paese crolla anche gli ultimi, quelli che già non avevano quasi niente, ne risentono.
Con un finale pazzesco

MISS VIOLENCE

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Terribile, devastante.
E mentre lo vedi ti dici che no, è solo un film.
E invece non lo è, tutto quello che accade accade in milioni di case.
La porta si chiude, infine.