In questo periodo della mia vita in cui si sta piano piano, in maniera lenta, costante ma positivamente inesorabile, tornando ad essere un uomo con la U maiuscola ecco che una semplice intervista può diventare emblematica.
Ieri notte vedo a fine partita l'intervista a Luis Enrique.
La Spagna nel gioco ci ha dominati, ha giocato una partita meravigliosa, ha messo in mostra il talento accecante di Pedri, quello di Dani Olmo, un'organizzazione di squadra incredibile e, rispetto a vecchie Spagne, anche una verticalità molto superiore.
Veramente, sono rimasto conquistato da questa squadra.
Non abbiamo rubato la partita ma, a gioco, ci sono stati superiori, e di due spanne.
A fine partita intervistiamo (nel senso noi italiani) Luis Enrique, e io ero già lì pronto a vedere un uomo arrabbiato, scosso, o almeno deluso e con poca voglia di parlare.
Ha perso ai rigori da 20 minuti, e perdere ai rigori ti uccide, specie quando hai dominato nel gioco.
E sento quest'uomo che dice di essere contento, che non ha rimpianti, che ha visto una grande Italia e una grande Spagna, che ha assistito ad una partita di calcio di livello altissimo, che è orgoglioso di sè e dei suoi ragazzi e che augura tutto il meglio all'Italia, ovvero di vincere l'Europeo.
Tutto detto con una serenità e una "verità" nel suo volto che, davvero, quasi mi commuovevo.
Poi si torna nello studio e il presentatore ci ricorda quello che è successo a Luis Enrique due anni fa.
Ovvero perdere per un male terribile e incurabile quella cosa splendida che tiene in braccio nella foto qua sopra.
Probabilmente il dolore più grande che un essere umano possa vivere.
Appena mi hanno ricordato questa cosa (che avevo colpevolmente dimenticato tanto da insultare 3-4 volte - ovviamente per scherzo - Luis Enrique durante la partita) il mio piccolo cervello ha fatto 1 + 1 e ha associato l'intervista disarmante di 2 minuti prima a questa cosa che è successa all'allenatore spagnolo.
Per farla breve Luis Enrique 3 anni fa avrebbe rilasciato la stessa identica intervista?
No.
No.
Certo se una persona è sportiva è sportiva e sicuramente si sarebbe comportato da signore anche 3 anni fa.
Ma, e ne sono certo, la serenità che ho visto in questa ultima intervista, quel sentirgli dire tutte quelle frasi di sconcertante sportività sono figlie di quello che quest'uomo è diventato in questi ultimi due anni.
Perchè si cambia, sempre, e quando ci va bene si migliora.
Ora, senza girarci intorno, il tema da affrontare è il dolore.
Ci sono dei dolori talmente grandi che io li ho sempre associati ad un pozzo.
Questo per 3 motivi.
Il primo è l'oscurità che più scendi il pozzo più ti avvolge.
Il secondo è lo spazio strettissimo di quel luogo, un luogo così stretto che ti impedisce di muoverti, di vedere la luce, di avere spazi più grandi per respirare.
Il terzo è l'inesorabilità del percorso che un pozzo ha, ovvero quello di renderti impossibile girarti e risalire ma dover quasi per forza arrivare fino al fondo.
Eppure in questa metafora di quei dolori così grandi e perfetti per cui ti manca l'aria e ti sembra che finchè non arrivi in fondo non hai modo di risalire (come nel caso di Luis Enrique ma anche in casi meno definitivi, meno gravi ma ugualmente totalizzanti come sono capitati ad ognuno di noi), eppure dicevo avviene sempre - o quasi sempre - una cosa strana.
Ovvero che arrivati in fondo, là dove il pozzo è più scuro, succede un miracolo.
E quel miracolo è che c'è dell'acqua, acqua che si presume stagnante ma che in questi casi, per una sorta di magia che ha a che fare con l'essere umano (no, non calatevi in un pozzo reale per vedere se è vero, in quelli reali non succede) non solo è limpidissima ma risplende.
Quando arriviamo in fondo al pozzo del dolore troviamo una luce e dell'acqua e in quell'acqua vediamo riflessi noi stessi.
Ci vediamo quindi riflessi, vediamo le ferite del dolore passato, ripensiamo al percorso, alla discesa, che ci ha portato lì e inevitabilmente (a meno che certi dolori non ci uccidano del tutto) guardandoci in quell'acqua avviene una cosa stupenda, ovvero lo scoprire di volere bene a quel viso là, il volere bene a quell'essere umano che ha così sofferto.
Ci vediamo quindi riflessi, vediamo le ferite del dolore passato, ripensiamo al percorso, alla discesa, che ci ha portato lì e inevitabilmente (a meno che certi dolori non ci uccidano del tutto) guardandoci in quell'acqua avviene una cosa stupenda, ovvero lo scoprire di volere bene a quel viso là, il volere bene a quell'essere umano che ha così sofferto.
In quell'oscurità, quando non è più possibile andare più giù, "noi vediamo noi" e decidiamo che adesso che abbiamo i piedi per terra meritiamo di risalire.
Una volta risaliti quasi sempre usciamo persone migliori.
Luis Enrique ha raggiunto il fondo più fondo che un uomo possa raggiungere, è arrivato quasi al centro della Terra, e se è riuscito ad uscirne (anche se una parte di sè resterà sempre laggiù) allora sentire una intervista come quella che abbiamo sentito è veramente niente.
Attenzione, nessuno sta facendo un elogio del dolore, chè non c'è niente di più bello nella vita che la gioia, la felicità, l'amore e la realizzazione.
E nessuno sta nemmeno facendo un discorso sull'utilità del dolore inteso come conditio sine qua non, perchè con una profonda analisi di noi stessi si possono raggiungere certe vette di consapevolezza anche senza passare per forza dal dolore.
Quello che si vuol dire è che se un dolore c'è stato, se ormai è un dato di fatto, l'occasione per renderlo utile è troppo grande.
Non cogliere quell'occasione sarebbe un aggiungere un errore ad un dolore, sarebbe non sfruttare un'opportunità che nessuno si augura ma che - se ormai c'è stata - in qualche modo deve migliorarci, deve farci riflettere.
Luis Enrique ha avuto un qualcosa di talmente irrimediabile e "perfetto" che per poterne cogliere insegnamenti o crescita personale bisogna avere un'anima eletta (e anche tante persone vicino).
Quasi tutti noi invece affrontiamo dolori sì fortissimi ma che non hanno niente di irrimediabile, anzi, a volte sono dolori che possono somigliare a trampolini.
L'intervista di ieri di quel grandissimo uomo che è diventato (o magari è sempre stato) Luis Enrique non è una lezione di sport, quella è solo la superficie.
L'intervista di ieri è una lucida, meravigliosa ed emblematica esaltazione dei valori.
Era più sereno lui che diceva quelle frasi apparentemente senza senso (almeno nel mondo del calcio) di noi che, da vincenti, eravamo lì ad ascoltarlo, noi che forse quel grado di consapevolezza che lui ha non possiamo averlo.
Che, forse, non potremmo nemmeno averlo mai.
Ma che dobbiamo lottare per raggiungerlo, sempre.
alla piccola Xana Martinez
alla piccola Xana Martinez