29.2.20

I Film della Quarantena - Giorno 5 di 30 - La Trilogia sull'Essere un Essere Umano di Roy Andersson


Ieri ho visto due film per la Quarantena ma oggi non sono riuscito a scriverne.
E allora andiamo un'altra volta di archivio.
E peschiamo quella che, tutta assieme, è una delle opere più grandi degli ultimi 20 anni, la Trilogia sull'Essere Umano di Roy Andersson.
La grandezza di questi 3 film, il modo di girare di Andersson, il suo sguardo sulle nostre esistenze sono veramente qualcosa di grandioso e, sicuramente, unico nel suo genere.
Nelle 3 recensioni ho veramente parlato di decine di cose, pochi altri film mi hanno dato così tanti spunti.

Ve le rimetto in ordine di visione, non in quella dei film.

"Nei film di Andersson l'umanità e la società sono destinate a non andare avanti, a star ferme, a restare imbottigliate come imbottigliate sono quelle migliaia di persone ferme nel traffico della città.
L'umanità di Andersson o non ha più un futuro, o non sa dove andare o se sa dove andare è destinata a non riuscirci.
Forse però siamo ancora un passo oltre. Forse Andersson racconta addirittura L'Apocalisse umana, forse la fine c'è già stata e i suoi esangui e impotenti fantocci sono solo creature rimaste in un mondo già esploso"






Se ci si può innamorare di una donna con un solo sguardo, senza sapere nulla di lei e di tutti gli anni che ci sono dietro, così, un solo istante e ti innamori di lei senza sapere cosa nascondano i 20, 30, 40 anni che hanno preceduto quell'istante, se è possibile questo perchè non potersi innamorare di un regista allo stesso modo?
Solo che lo sguardo fugace che ti fa innamorare di un regista non lo ricerchi nei suoi occhi -  come per la ragazza - ma in un'immagine, in un'inquadratura. Questi sono gli occhi del regista.


E così circa 4 mesi fa mi capita sotto l'occhio questa immagine:


ed è amore a prima vista. Quest'uomo bianco come la morte che guarda negli occhi un piccione appollaiato in un ramo, questo strano museo di scienze naturali, questa freddezza ambientale e situazionale eppure con una fortissima vitalità intellettiva dentro.
Il film vince Venezia ma a me non interessa. A me interessa sapere di chi sono quegli occhi e li scopro essere di un regista svedese di 70 anni di cui non avevo mai sentito parlare, Roy Andersson.
Che, a parte 1/2 lavoretti giovanili, nella sua carriera ha fatto solo 3 film, uno ogni 7 anni (2000, 2007, 2014). Non voglio sapere altro, aspetterò il momento giusto per vedere se quegli occhi che per un istante mi hanno saputo così stregare riusciranno a fare lo stesso se proverò a guardarli a lungo. Come quell'uomo e quel piccione.
L'occasione, quasi fortuita, arriva ieri.
Controllavo di nuovo la lista di MyMovies, quella che servirà poi al progetto streaming del blog e per sbaglio, ma veramente per sbaglio, leggo il nome di Andersson sotto la locandina di un film.
Non resisto un attimo.
Ed è stato fantastico accorgersi dopo due sole inquadrature che quegli occhi di cui ti eri innamorato sono proprio quelli che avevi visto in quel'istante, non era un gioco di luce strano o un tuo momento particolarmente debole quando accadde.
Andersson, l'ho capito dopo 20 secondi, è uno di quei registi che sa meglio raccontare la mia visione del mondo.
Un mondo che racconta di un'umanità eternamente depressa, malinconica, rassegnata, insoddisfatta.

Risultati immagini per you the living movie

Ma, ed è qui che io e il regista svedere facciamo veramente scopa, tutta questa insoddisfazione, questa malinconia e questa rassegnazione sono viste con un occho grottesco, divertito, brillante e, se lo analizziamo bene, nemmeno privo di speranza.
You, The Living è un film-non film quasi privo di struttura, costruito su scenette quasi autonome, su personaggi che a piacimento tornano o no, su legami tra gli stessi personaggi assolutamente sfuggenti.
E per rendere al meglio questo modo di raccontare Andersson usa quasi sempre inquadrature fisse, quasi sempre interni, quasi sempre fredde e statiche scene dove mettere in mostra il suo bestiario umano.
Non c'è una storia generale, non c'è nemmeno una storia singola portata a compimento, soltanto un album di vite disilluse. L'insoddisfazione è il tema principale, nessun personaggio è contento o soddisfatto della sua condizione. Non lo è la grassa signora che nessuno capisce, non lo è lo psichiatra, non lo è il signore che porta i fiori alla grassa signora, non lo è nessuno.
Tutto è freddo, anche le stesse stanze e il tempo, con quel temporale che imperversa, sembrano fare pendant con le esistenze raccontate. Non c'è mai un colore e quando c'è, probabilmente solo una volta, nella scena delle stoffe, è un colore che non si può vendere, perchè ne è stato tagliato un pezzo.
Non ci può essere colore in You, the Living.

Immagine correlata

Andersson sa che per raccontare il grottesco molte volte c'è bisogno anche del brutto.
E così il film è un campionario di persone brutte (ma non necessariamente brutte persone), inappetibili, indesiderabili, dalla carnagione chiarissima e dai tratti somatici tutt'altro che gradevoli (a parte la coppia di giovani).
Ho trovato richiami ai Monty Python, in questo umorismo nero ma brillantissimo, in questo tentativo divertito ma al tempo stesso malinconico e surreale di trovare un senso della vita.
Ma c'ho trovato qualcosa anche del miglior Fantozzi nostrano, in queste grigie esistenze, in queste vite insoddisfatte, in qualche gag che, a differenza di quelle di Ugo, tutte incentrate sul ritmo e sull'esasperazione, qua invece hanno il passo lentissimo della noia e della routine.
Noia e routine che sono perfettamente visibili in quel bar in cui nessuno fa nulla se non aspettare l'ultima ordinazione. L'ultima prima di chiudere, perchè domani comunque è un altro giorno dice il barista.

28.2.20

Recensione: "A Taxi Driver" - I Film della Quarantena - Giorno 4 di 30 -


Quarto appuntamento con i film ai tempi della Quarantena.
Stavolta sono andato al cinema (da noi per fortuna ancora aperti) anche se, in realtà, A Taxi Driver non credo sia stato distribuito (forse è stato un evento speciale solo di Perugia).
Quindi mi dispiace, non cercatelo in sala.
A Taxi Driver è un film magnifico, l'ennesimo della filmografia sudcoreana.
Giusto un paio di difetti mi bloccano dal considerarlo un piccolo capolavoro dei nostri tempi.
Il film è ambientato nel 1980, durante le proteste della popolazione  coreana contro la neo-dittatura instauratasi nel Paese, autrice di un colpo di stato.
Un giornalista tedesco e il suo autista coreano si recano nella città epicentro della rivolta.
Prima si ride, poi, piano piano, A Taxi Driver diventa un'opera struggente sulla vita, sugli ideali e sul coraggio

Uno vede in loandina la faccia sorridente di Song Kang-ho (a proposito, inutile dire per l'ennesima volta quando sia grande st'attore, tra l'altro - curiosità -  anche qui nel ruolo di un autista, come in Parasite), dicevo uno vede la faccia sorridente di Song nella locandina e si dirà che A Taxi Driver è una commedia, un film fatto per svagarsi, magari pure un mezzo trash (chè quando gli orientali vanno sul comico il trash è sempre dietro l'angolo).
E in effetti per una buona mezz'ora il mood del film è quello.
Poi però - ed è in questa gestione che sto film è perfetto - più si va avanti più la connotazione drammatica, anzi, tragica, farà capolino. 
In modo costante ed inesorabile, non con un'alternanza di generi che, invece, l'avrebbe ucciso e depotenziato.
Tanto che sono arrivato alla fine tra le lacrime.
Un pochino quello che avevamo visto con lo splendido Chien, per capirsi.

Siamo in Korea del Sud, nel 1980.
Nell'anno precedente ci sono stati ben due colpi di stato, il paese non riesce ad uscire dalla dittatura.
Viene istituita la legger marziale, viene repressa ogni richiesta o manifestazione democratica.
Il popolo inizia a insorgere.
Una città sarà epicentro di tutto questo, Gwangju.
In un tristissimo giorno della storia coreana l'esercito inizierà a sterminare tutti, i corpi che resteranno a terra saranno migliaia.
Se noi abbiamo un documento di tutto questo è grazie ad un giornalista tedesco, Jurgen Hinzpeter. 
E al tassista di Seul che riuscì a portarlo a Gwangju.


All'inizio del film facciamo la conoscenza con il nostro Kim, simpatico e un pò cialtronello tassista di Seul.
Vive a casa con la figlia e ha grandissimi problemi di soldi (deve pagare 4 mesi di affitto e per farlo li chiede un prestito al... padrone di casa, scena divertentissima).
Capiamo subito che è un buono (molti clienti lo fregano) e un uomo non troppo cresciuto.
Questa esperienza lo farà maturare, gli farà scoprire le cose importanti, gli ideali e forse un pochino anche una parte di sè stesso, bellissima, che non conosceva.
C'è poi "Peter" (non è il nome reale), giornalista tedesco che, a differenza di Kim, ha due palle quadrate.

27.2.20

I Film della Quarantena - Giorno 3 di 30 - Tre film sul terrore dell'Ignoto


Ripropongo un post che avevo scritto sulla pagina fb de Il Buio in Sala e propongo 3 film molto interessanti che, a modo loro, raccontano tutti la paura che abbiamo verso il non conosciuto, verso l'ignoto, verso l'insolito.
E il terrore irrazionale che poi rischia di condizionarci la vita.
Sono 3 film molto diversi (uno sul terrore del non conosciuto, uno su quello di una calamità immanente e uno su un virus invisibile) che credo, fusi insieme, raccontino bene questi nostri giorni


"Il coronavirus è l'esempio perfetto del meccanismo che più funziona per avere terrore, ovvero l'avere davanti qualcosa che non conosciamo, ignoto, non codificato.
Questo virus fa meno morti della normale influenza ma il fatto che sia qualcosa di nuovo, di ancora non affrontabile (almeno nei casi più gravi), che abbia un nome inventato per l'occasione, lo rende un mostro.
Attenzione, non sto minimizzando il fatto (che rimane di una delicatezza impressionante e che necessita di mille precauzioni, sia individuali che istituzionali) ma solo ponendo l'attenzione su come sempre, nella vita, nei libri, nei film horror, quando affrontiamo l'insolito o il non già conosciuto proviamo terrore.
Avreste più paura se davanti a voi vedeste due uomini con una pistola o uno disarmato ma senza bocca?
Ecco, la seconda.
Da sempre il grande cinema horror o del perturbante hanno giocato con questi elementi dissonanti, con queste manifestazioni estranee.
E, attenzione, molto spesso l'horror psicologico gioca sul piccolissimo scarto, ovvero su quel piccolissimo cambiamento che ci turba.
Immaginate di avere la vostra compagna davanti a voi, state con lei da 20 anni, e questa da un giorno all'altro si mette a passare sotto il tavolo la mattina mentre beve il latte.
Una cosa da niente, ma che è fuori da quello che conoscevate di lei, quindi vi terrorizza (magari i primi due giorni ridete, il terzo impazzite).
Sono tutti piccoli esempi stupidi ma la legge è quella, tutto quello che non possiamo governare o tenere sotto controllo, tutto quello che vediamo per la prima volta e non rispetta il nostro sapere o il nostro aver già visto, tutto quello che esula dalla routine a cui siamo abituati, tutto quello che abbiamo paura di andare a conoscere ed affrontare (e questo molte volte è anche metaforico) è sempre terrorizzante.
La ragione in questi casi conta poco, i dati anche, rimane un pericolo informe che anche se mille volte meno pericoloso di pericoli che invece conosciamo benissimo ci fa mille volte più paura.
Per questo anche lo Spazio a volte ci inquieta, perchè è il luogo per eccellenza del non conosciuto."



E' il 2000.
Il sottomarino russo Kursk affonda nel mare.
Dentro ci sono più di 100 persone.
Impossibile comunicare con loro.
Il mondo sta con il fiato sospeso per giorni e giorni, non si capisce come sia possibile che quel sottomarino non venga soccorso. 
Arriveranno tardi, tutti morti.
Io ho 23 anni e ricordo che scrivo un racconto, chiamato proprio Kursk, in cui mi immaginavo gli ultimi giorni passati dall'equipaggio chiuso in quella trappola mortale. Dall'iniziale calma alla pazzia finale.
Ecco, ieri la vicenda raccontata in questo davvero bello Europa Report, ovvero la storia di sei astronauti persi nello spazio e con cui si sono persi tutti i contatti, mi ha ricordato tantissimo la vicenda del Kursk.
Cambiano solo le altezze, lo spazio profondo e il mare profondo.

Risultati immagini per europa report film

Eh, proprio di "profondità di altezza" bisogna parlare perchè la missione Europa è quella che si spingerà più lontana di tutte nella nostra storia.
Verso, appunto, Europa, nientepopodimeno che un satellite di Giove.
Si è scoperto che sotto il ghiaccio di cui è ricoperto potrebbe esserci dell'acqua.
E acqua, lo si sa, è sinonimo di possibilità di vita.
Europa Report è un mockumentary un pò sui generis.
Già una volta avevo affrontato la questione sulla differenza tra mockumentary e found footage.

Se possibile questo film è la perfetta unione dei due e, paradossalmente, è anche nessuno dei due.
Perchè in realtà vedere un luogo attraverso circuiti chiusi e telecamerine non è un falso documentario, semplicemente una tecnica, estetica o narrativa.
E' anche vero che ci sono elementi da falso documentario (la cornice alla fine lo è) e altri da found footage, ma me ne sto zitto ;)
I sei astronauti, di almeno 4 nazionalità diverse, partono.
Sanno già che passeranno anni nello spazio.
Ma la loro missione è troppo importante, costituirebbe una delle più grandi scoperte scientifiche di sempre.

26.2.20

Recensione "O que arde" (Fire will come) (Viendra le feu) - I Film della Quarantena - Giorno 2 di 30 -


Il secondo film della Quarantena è, anche stavolta, un film sottotitolato da noi, non distribuito, di cui, se vorrete, condividiamo link e sub.
Per quanto mi riguarda, dopo il Tous le dieux du ciel di ieri, un altro grande film anche se dove il primo era tutto un "aggiungere" questo qua è tutto giocato sul togliere.
Un piromane torna a casa dopo anni e anni di prigione.
Vive una solitudine cosmica, solo la vecchia madre e una nuova veterinaria lo avvicinano (o meglio, è lui che si fa avvicinare solo da loro).
Tutto procede stancamente finchè non arriverà un nuovo devastante incendio a portare una completa distruzione

DOPO LE 19 METTERO' ANCHE QUA, A FINE RECE, IL FILE


Oliver Laxe l'ho cercato in rete, non lo conoscevo.
Quando ho visto le foto mi son detto che c'era sicuramente una omonimia, mi trovavo davanti un figo pazzesco, un modello.
E invece scopro che è proprio lui.
Dovete capire che il film quando ho cercato il suo nome l'avevo appena visto e non riuscivo a capacitarmi come uno bello così potesse essere anche un autore così sensibile, intelligente, sotto le righe, "brutto" e povero nel fare i suoi film.
A volte c'è questo razzismo contro i belli che, forse per invidia, non vuoi pensare che possano essere anche molto intelligenti e profondi.
Ecco, io se fossi una donna mi lancerei su Oliver perchè uno che gira un film come O que arde ed è pure così bello deve essere una compagnia meravigliosa (poi magari è uno stronzo eh).
Questo è uno di quei film che raccontano scenari di impressionante povertà, come i bellissimi Behemoth, Sto Lyko, Japon, Corn Island ed altri (tutti questi titoli li abbiamo presentati nel gruppo volendo).

Amador è un piromane a ha scontato una lunga condanna per un incendio grandissimo che causò anche vittime.
Viene rilasciato e non ha altro posto dove andare se non la casa d'infanzia dove vive ancora la vecchia madre.
Siamo in Galizia, in una regione remota con giusto 4 case in mezzo ai boschi.
La gente si ricorda di Amador, e per questo motivo sia per lui che per loro è difficile ristabilire un contatto.
Solo una veterinaria, nuova dei luoghi, riesce ad avvinarcisi.
Poi però scoppierà un nuovo, devastante, incendio.


Il prologo del film è straordinario.
C'è questa nebbia-fumo (questi due elementi, quasi confondibili tra loro, torneranno più volte) e un bosco in cui iniziano a cadere alberi come birilli.
Sentiamo solo il rumore del legno che si spezza.
L'atmosfera è ipnotica, sembra quasi un film su Male o metaforico.
E invece poi scopriamo la verità, ci sono dei camion che stanno disboscando.
Poi, però, quei camion arriveranno davanti ad un grandissimo albero, maestoso (credo lo stesso dove poi Benedicta si riparerà).
Si fermano, le luci si spengono.
Una sequenza completamente realistica che solo con la colonna sonora e le suggestioni è diventato qualcosa di magico, da brividi.


Basta questa scena per capire che davanti hai un autore, uno che riesce a vedere "oltre" e a comunicare cose con significanti che in mano ad altri sarebbero solo e nient'altro che quello che sono.
Ma non finisce qui, dopo aver visto Amador uscire di prigione, avremo una ripresa da dentro il bus che lo accompagna a casa.
Altra sequenza capolavoro per colonna sonora, suggestione, movimenti di macchina, con quella campagna che si apre, quel ponte, quel camion, e poi noi che torniamo dentro al bus.
Dico la verità, queste due prime scene insieme all'incredibile finale di fuoco resteranno per me i momenti più emozionanti del film.
Tutto quello che c'è in mezzo, l'intero film, è meno "lirico" e d'effetto ma semplicemente perchè così ha costruito il suo film Laxe, non per difetti.
Inizieremo a conoscere gli spazi sconfinati delle campagne galiziane (Laxe userà campi lunghi e lunghissimi di continuo).
Conosceremo Benedicta, la madre, madre alla quale Amador dà del lei e con cui scambia pochissime parole.
E conosceremo un pochino meglio (ma sempre troppo poco) Amador, un uomo dalla faccia triste, uno di quelli che ti sembrano essere al mondo solo per essere infelici.
E' davvero particolare l'empatia che si crea con questo personaggio di cui, alla fine, non conosciamo alcun aspetto positivo. Un passato da piromane, un presente da uomo scontroso e schivo.
Eppure lo spettatore prova molta umanità per lui, sarà per lo sguardo buono, sarà per la facilità con la quale riusciamo a sentire la sua assoluta solitudine.
Inizia una vita di routine, le vacche al pascolo, i poverissimi pasti, le sporadiche frasi che si scambia con la madre.
Poi conoscerà la veterinaria e nascerà quella che sarebbe potuta diventare una tenera amicizia (bellissima la sequenza con loro nel furgone che ascoltano la radio, delicatissima, con quel brano che da diegetico diventa poi colonna sonora esterna e l'immagine che va nella mucca sul rimorchio, brividi).
Poi, però, fire will come, arriverà l'incendio.

O que arde è uno di quei film che potremmo mettere nella categoria della reticenza, del non dire, del non voler dire.
Di Amador sappiamo solo che causò un incendio, nient'altro.
E un altro incendio, proprio quando lui è tornato, ci sarà.
E' impressionante come questa sceneggiatura ridotta all'osso, fatta di 2-3 elementi soltanto, riesca a diventar cinema ed emozione.
Laxe si limita a mostrare cose, senza spiegazioni, senza indizi espliciti.
Qualsiasi scena può essere importante come completamente inutile.
Perchè Amador si alza di notte? Perchè dorme in macchina?
Perchè lo vediamo spesso in scene di "fuoco" (la stufa, la sigaretta, etc..)?
Perchè quando arriveranno i pompieri vediamo che lui li incrocia in macchina venendo dal lato opposto?
Perchè più che gli altri verso di lui, sembra lui non volere riallacciare rapporti con gli altri?
Cos'è quella foto che trova il pompiere?
Scene di vita normalissima, eppure in questo film che è quasi documentario ma anche un costante ammiccamento ad atmosfere più trascendentali, Laxe ci offre queste piccole pennellate a poterci suggerire - e io penso sia così - che l'incendio finale lo abbia appiccato nuovamente Amador.


Come se il film raccontasse, in metafora, di un'esistenza spenta, senza più ambizioni, sogni, obiettivi, una specie di tristissima vita in cui prima o poi, magari solo per sentirsi vivo, per vendetta di quei luoghi o degli altri, o semplicemente per "natura", ecco, prima o poi fire will come, il fuoco sarebbe tornato, era inevitabile.
Del resto questo è un film sulla sofferenza e le metafore non mancano, come le piante di eucalipto che "fanno soffrire le altre piante perchè sono loro le prime a soffrire", come quella campana di Compostela alla quale è stata rubata l'anima, come la mucca malata.
Uomini, piante, animali e cose, tutti accomunati da sofferenza e solitudine (cosa c'è di più solitario di una campana?).
Ognuno di noi può dare la lettura che vuole, Amador colpevole, Amador innocente e, nel primo caso, provare a chiedersi i motivi.
La grandezza di questo film sta proprio in questo suo essere immediato e nudo, un manichino di un negozio su cui possiamo mettere sopra qualsiasi vestito vogliamo.
Anche, ovviamente, un vestito più "globale", un grido d'accusa contro l'uomo che sta uccidendo il suo pianeta (oltre agli incendi dolosi c'è quell'incipit sul disboscamento di cui vi avevo parlato).
Tra l'altro l'incendio che vediamo è reale (non volevo saperlo ma l'ho saputo) e adesso si spiega l'incredibile realismo della scena, bellissima, mozzafiato, al tempo stesso terribile e magnifica da vedere.
Il fuoco è arrivato, forse a causa di un uomo solo e triste che solo in quello, nel fuoco, sembra sentirsi vivo.
Il fuoco è arrivato e ha bruciato tutto, colline e case.
La mattina dopo in quel fumo/nebbia vedremo un cavallo vagare per le macerie.
Un altro simbolo di solitudine e sofferenza.
Intanto, in paese, un uomo viene pestato.
Non dice niente, non chiede scusa nè si ribella per la sua innocenza.
Si alza, si gira e va via.
Nel cielo un elicottero getterà acqua.

25.2.20

I Film Della Quarantena - Giorno 1 di 30 - "Tous le Dieux du ciel" - Guardaroba


Cominciamo questa nuova iniziativa, questa specie di Decamerone di film, questo provare a darvi ogni giorno uno spunto cinematografico interessante.
Come vi dicevo ieri in queste 30 proposte ci saranno film che vedrò al cinema, altri su Netflix, altri su Prime, altri ancora su file (del Guardaroba off course), altri ancora saranno film che ho visto anni fa e vi ripropongo (perchè vederne uno al giorno è per me impossibile).
Cominciamo con un film del Guardaroba, "nostro" (troverete il link nel gruppo fb o telegram). E anche domani ne avremo un altro sottotitolato da noi.


E cominciamo col botto.
Tous le dieux du ciel lo vidi al ToHorror dello scorso anno.
Ne restammo tutti abbastanza sconvolti, sia per il valore dell'opera che per il coraggio e la delicatezza della stessa.
Da circa 20 giorni avevamo in mano il file, lo abbiamo finalmente finito di tradurre oggi e ho pensato che non ci potesse essere miglior titolo per cominciare questa nuova avventura.
Opera scomoda, controversa, coraggiosa, che racconta il rapporto tra un uomo e la sua sorella gravemente handicappata.
C'è tutto per fuggir via, ma se "crederete" al film e al bisogno che c'è dietro di esser stato girato vi troverete davanti a qualcosa di molto profondo, toccante, reale. In una cornice che si fa anche metaforicamente fantascientifica un film sull'Attesa di qualcosa che arrivi dal cielo (come Melancholia e Take Shelter), un film sull'Attesa di qualcosa che possa salvarci, un film sull'amore sbagliato, sulla dipendenza, sui legami nati nel dolore.
Difficilmente lo dimenticherete.

Ma ecco, per chi volesse, la recensione dell'epoca

presenti spoiler

LO RIPETO, IL FILM SARA' PRESENTE NEI NOSTRI CANALI TELEGRAM E FACEBOOK

PER QUESTA VOLTA METTO IN FONDO ALLA RECENSIONE IL LINK MA QUANDO TRA UNA SETTIMANA SCADRA' LO TROVERETE SOLO SUL GUARDAROBA

Non so se sarà il più bel film del concorso (forse sì) ma di sicuro Tous le Dieux du ciel sarà il più coraggioso e controverso.
Siamo in un cinema "estremo", al limite dell'etico e del non etico (la sorella handicappata è realmente in quella maniera), un cinema che ha bisogno di un patto con lo spettatore, quello per cui o si crede al regista, al suo bisogno interiore di raccontare una storia così fastidiosa e dolorosa (e io gli credo), oppure no.
Non a caso lo stesso regista Quarxx - presente in sala - ha detto di sperare che il suo film lo si ami o lo si odi. Dopo averlo visto capisco benissimo perchè l'abbia detto.
Quello che è certo è che questo è un film che non può lasciare indifferenti.

Siamo in Francia, in una non meglio precisata comunità rurale. 
Un posto di cieli e grano (e in tal senso ci saranno almeno un paio di god view - mai tecnica poteva come qui avere nome più pertinente - davvero pazzesche).
Lo spettatore vive un prologo che lo lascia atterrito.
Due fratelli giocano con una pistola. La caricano, cercano il modo per premere il grilletto.
Tutto è naturale, talmente naturale che la tensione è pazzesca.
E sì, tragedia ci sarà, anche se non "definitiva".
Forse, sarebbe stato meglio lo fosse.


Anni e anni dopo Simon vive in un casolare semi-abbandonato dove accudisce sua sorella Estelle, gravemente handicappata sia fisicamente che mentalmente.
Le legge racconti la sera, la lava, le parla, fa tutto il possibile.
La tremenda cicatrice sul volto di Estelle può far subito collegare la vicenda al prologo ma, tranquilli, il legame ci verrà esplicitato a metà film per chi ancora non l'avesse colto.
Simon è semidepresso, in fabbrica se ne sono accorti e vogliono farlo smettere di lavorare, e in più lotta con gli assistenti sociali per non farsi "portar via" la sorella.
In realtà in lui è presente, però, una latente euforia perchè è convinto che dai cieli stia arrivando qualcuno o qualcosa che farà finire tutto questo dolore.
Ne nasce un film sull'Attesa come lo furono i meravigliosi Melancholia e Take Shelter.
Come fu per Justine nel film di Trier anche Simon aspetta qualcosa dal cielo in un modo "sereno", febbrile e salvifico.
Ma se nel film del maestro danese non era difficile capire la metafora qua è molto più arduo.
Simon, e lo capiremo sempre di più mentre il film avanza, non ama realmente la sorella, semplicemente pensa di fare il meglio per lei per contrastare il suo tremendo senso di colpa. E' un amore malato, una specie di dipendenza da quel corpo inerme che personifica il suo imperdonabile errore. Probabilmente Simon è al limite della follia e solo il "Cielo" potrà salvarlo. Quegli alieni diventano una specie di Dio (vedi il titolo) cui affidarsi, l'ultima speranza per salvare due esistenze che con la Vita e la felicità non c'entrano più niente.
Non c'è più nessuna cosa nella Terra e nel cuore di Simon per avere un briciolo di speranza, l'unica soluzione è credere che ci sarà qualcosa di sovrumano a risolvere tutto.
Ne nasce un film che sta al confine tra una dimensione reale e dolorosa e una fantascientifica e inquietante.
E, in tutto questo, il regista riesce anche nel miracolo di regalare sequenze comiche, altre surreali (il polpo), personaggi secondari strepitosi e momenti quasi lirici.
Mi riferisco specialmente alla scena in cui Estelle piange, a quella in cui si sente sott'acqua (mentre il fratello la sta strozzando) e a tutte quelle riguardo l'impossibile amicizia tra la giovane bambina ribelle ed Estelle. Praticamente un'amicizia tra coetanei visto che la vita di Estelle finì a 8 anni.
Momenti di incredibile grazia e sensibilità quelli che le vedono coinvolte ma anche aspetto funzionale alla trama visto che è proprio grazie a quella splendida bimba che capiremo che Estelle, in realtà, non è mai stata paralizzata, semplicemente ha raggiunto quella condizione di semi-paralisi per colpa dell'amore morboso e del senso di possesso del fratello, bisognoso di avere quel corpo fermo lì, tutto per lui, per potersi raccontare di essere un uomo migliore di quello che è.
Tous le Dieux du ciel è un film bellissimo da vedere, con una fotografia superba e dei movimenti di macchina di grandissima classe. Il suo punto di forza però è questa sua "morbosità", questo suo far sentire lo spettatore sporco (penso alla scena di sesso) ma al tempo stesso, nemmeno troppo latente, c'è una umanità, una grazia e una sensibilità rare che rendono il film molto emozionante.
Anche molte scene tra Simon e la sorella (vedi quella della vasca) riescono in questo intento, e se pensiamo alla negatività del personaggio di Simon questo rende merito a una sceneggiatura davvero notevole, capace di porci dubbi e non darci mai sensazioni chiare.
Non tutto è perfetto, ci sono sottostorie evitabili (la fabbrica e lo psichiatra potevano anche prendere meno spazio), c'è una parte centrale con ritmo un pò bloccato e c'è sempre quella sensazione di stare assistendo a un film "sbagliato", che non doveva esser girato o che noi non dovevamo vedere.


Tra l'altro quando a fine film il regista ha detto da dove ha preso ispirazione, quel senso di "dolore" e inumanità provato per tutto il film, se possibile, si è ancora più acuito.
Ci saranno molte scene violente (il foglietto nella mano, l'omicidio dell'assistente sociale) e la bellissima sequenza in visore notturno per arrivare a un finale sorprendente che, forse, ci darà la chiave per capire meglio il film.
C'è un'altra tragedia. Ma anche stavolta niente sarà definitivo.
I ruoli sono ora ribaltati. Simon è l'handicappato, Estelle ha ritrovato una parziale indipendenza e autonomia che, a posteriori, rendono ancora più criminali i 20 anni che il fratello le ha fatto passare a letto.
Simon si sveglia. 
Estelle è da sola con lui e in una scena davvero "horror" (anche quando usa il linguaggio dei segni è veramente inquietante) cerca di ucciderlo.
E' una reazione normale, di vendetta, una reazione che addirittura le stesse suore avevano preventivato ("sarà Estelle a decidere la sua fine").
Il tentativo va a vuoto, e poi accade l'impensabile.
Estelle, adesso, accarezza il fratello, dorme con lui, lo bacia, lo accudisce.
Il ribaltamento dei ruoli è davvero da pelle d'oca e, credo, una genialata di sceneggiatura.
Ma tutto quello che stiamo vedendo non è un semplice colpo di scena o il voler chiudere un cerchio attraverso il ribaltamento.
No, quello che stiamo vedendo è probabilmente quello di cui parla il film, ovvero il racconto di un amore malato, di una dipendenza, di un bisogno fisico dell'altro, di un'impossibilità di esistere se non in due, loro due insieme.
E' un insegnamento coraggioso, fastidioso, difficile da comprendere ma che fa parte dell'animo umano e questo film l'ha saputo raccontare con una forza impressionante.
E forse quella stanza finale, quell'Universo, non è altro che questo, una stanza dove vive un sentimento sovrumano, non razionale, che trascende le nostre coscienze.
Estelle e Simon saranno sempre legati e anche se il loro legame è fatto di tremendo dolore e tanto odio quello è il loro mondo.
Il loro Universo

LINK


24.2.20

I film della Quarantena, 30 film in 30 giorni consigliati da Il Buio in Sala


Alcuni di noi ne sono terrorizzati, altri ci scherzano su, altri ancora - come me - cercano di essere calmi e vedere i numeri e le cose per quello che sono.
Ma anche io ne ho paura e, forse per esorcizzare, ci scherzo un pò su.
Sta di fatto che, morti a parte, paure a parte, futuro a parte, il Coronavirus sta avendo un impatto devastante sulle nostre vite tanto che, ad oggi 24 febbraio 2020, già 7 regioni italiane sono isolate o semi-isolate, feste pubbliche proibite, sport fermo, locali chiusi, cinema chiusi e milioni di italiani a casa.
Qualsiasi cosa sarà di noi questi dati resteranno, una situazione che mai avrei pensato di vivere nel 2020.
Solo nei film, ecco, solo lì l'avevo vista.
E allora proprio di film vogliamo parlare.
Visto che tantissimi italiani staranno a casa e avranno tanto tempo di far cose ho pensato di creare una "instant rubrica", ovvero una serie di 30 film presentati in 30 giorni.
Insomma, una specie di appuntamento giornaliero con il buio in sala dove parlarvi ogni giorno di un film diverso.
I film saranno di tutti i tipi, film nuovi che vedo al cinema (ne ho in programma due i prossimi 3 giorni), film su Netflix, film non distribuiti su file, film sottotitolati da noi questo mese, film del Guardaroba (in tutti e 3 questi casi i file saranno a disposizione), film che avevo già visto e recensito e vi ripropongo.
Insomma, un viaggio guidato nel mondo del cinema, un passo alla volta, senza soluzione di continuità.
In realtà moltissimi blog fanno già questo, parlano di un film al giorno, ma come sapete ne Il Buio in Sala la cadenza è di un film a settimana.
Ecco, voglio costringermi a vederne molti di più o, nel caso non dovessi farcela, a dare comunque un consiglio giornaliero, sempre.
Per i nuovi film scriverò ovviamente nuove recensioni (forse, vista la cadenza, più brevi), per i film presi dall'archivio magari farò un mix tra pensieri nuovi ed estratti di recensioni.
Ogni volta segnalerò la fonte del film (cinema, netflix, file del guardaroba etc...) cosicchè ognuno di voi può sapere dove vederlo.
Attenzione, non saranno film sui virus, anche se 3-4 credo ce li infilerò, ma un mix scompaginato di cose.
L'unica differenza è che questa volta tutto sarà metodico e senza pause, per darvi ogni giorno uno spunto diverso.
Avevo anche pensato di fare direttamente una lista ma ho preferito invece l'idea del post giornaliero, perchè questo mi costringerà a veder cose e magari, ai lettori fedeli, piacerà vedere ogni giorno che film verrà presentato

Quindi mascherina in viso e amuchina sul comodino oggi o domani cominciamo



21.2.20

Recensione: "The Grey" - Passeggiate, il cinema della poesia - 1 - di Roberto Flauto


Diamo il benvenuto ad una nuova rubrica di voi lettori.
Roberto scrive davvero molto molto bene, tanto che, dopo che lessi la sua recensione di Still Life, gli chiesi se voleva scrivere qualcosa per qua.
Ne nasce questo Passeggiate, che lui descrive così:

"Passeggiate: il cinema della poesia. Perché ogni film è un mondo possibile, vivo, affamato, che chiede costantemente di essere vissuto, consumato, divorato. Perché la poesia, o meglio ciò che è poetico, è la dimensione in cui l'umano si definisce e dispiega il proprio potenziale. Perché una poesia che si fa film è il più incredibile degli universi. Un luogo sconvolgente e stupendo, in cui amo passeggiare"

--------------------------------

The Grey è una profonda e articolata metafora.
Un aereo precipita in mezzo al nulla.
Sopravvivono in pochi. Intorno a loro, solo neve incessante e lupi famelici.
Inizia una lotta per la sopravvivenza, per il ritorno a casa, che sono in realtà la narrazione di un dissidio interiore, di un tormento esistenziale..
Perché The Grey è il racconto trasfigurato della paura della morte.
Dell’assenza di significato, del buio inarrestabile, del silenzio di dio.

Dello smarrimento umano di fronte all’inesorabile scorrere del tempo.



La verità è che siamo umani. Siamo esseri razionali, creativi, pensanti, ci nutriamo di alfabeti, arte, casa, oceano, amore, speranza, vita: cioè di poesia. Siamo esseri irrazionali, distruttivi, sognanti, ci nutriamo di sogni, follia, fantasmi, violenza, altrove, tempo, morte: cioè di poesia. In principio, dunque, era la canna di fucile in bocca. Tutto intorno, il frastuono del silenzio. Istanti distanti, smarriti nel tempo, che è un cristallo di neve, in cui tutto è fermo, immobile, possibile, infinito. Siamo immersi nell’attimo sospeso, quel periodo che va dalla fine del sogno all’inizio delle labbra. Come Orfeo che sta per voltarsi. L’istante in cui sorge la poesia. L’istante esatto in cui tutto è grigio: non c’è niente di definito, o di definitivo. Tutto è possibilità, la metamorfosi come unica via. Siamo umani, e dunque conteniamo moltitudini, foglie d’erba, polmoni pieni di ninfee, desideri sporchi di sangue. Basta una piccola pressione del dito: il grilletto si aziona e la mia testa esploderà. È tutto finito, presto finirà tutto. Sì, qui nel bianco, alla fine del mondo. «Non so perché ho fatto la metà delle cose che ho fatto». Orfeo sta per voltarsi. Ma eccolo che arriva, inaspettato e puntuale: il mio nemico che mi salva. L’ululato stordisce ogni cosa, penetra nei ricordi, sbrana l’esistenza. John Ottway è perso dentro di sé.

The Grey. Il grigio, il colore dell’uomo. Il colore dell’esistenza, della natura, del reale, delle lettere d’amore, dei baci all’alba, dei graffi sulla schiena, della morte, del dolore. Di tutto ciò che pulsa, che vive, che vuole vivere. Il grigio, quindi, è il colore della complessità, di ciò che contiene in sé il germe della propria estinzione, di ciò che ingloba l’altro da sé per potersi definire. Come il giorno che si fa notte che si fa giorno che si fa notte che si fa neve nei ricordi. Il grigio, nel senso che io intendo, non è, semplicemente, “un po’ bianco e un po’ nero”, ma al contrario: è cento per cento bianco, è cento per cento nero. Esattamente come l’uomo è cento per cento poesia e cento per cento prosa. Il bianco (la neve, l’alba, i capelli di tua figlia che ti solleticano il viso): il nero (il buio, la fine, i lupi che ti dilaniano la carne). Il bianco è luce, ma troppa luce acceca: abbiamo bisogno di buio in pieno giorno. Il nero è oscurità, ma troppa oscurità annienta: abbiamo bisogno di luce in piena notte. La somma delle dimensioni che ci attraversano, quindi, è sempre la stessa: il grigio. Siamo umani, e dunque conteniamo solitudini, sovrumani silenzi, deliri inaccessibili, paure sporche di infanzia. Questo è il senso che io attribuisco al titolo di questo splendido film. Magari esiste solo nella mia testa, ma va bene anche così. Del resto, ogni film, ogni libro, ogni fumetto, ogni musica: tutto ciò che amo, non ho dubbi, è stato creata solo per me.



Dunque, il film. È bellissimo. Liam Neeson è bestiale, è il caso di dirlo, come spesso gli capita, d'altronde. Le musiche di Marc Streitenfeld sono perfette: rarefatte, sospese, oniriche. The Grey è sostanzialmente il racconto metaforico della paura della morte, del vuoto, del senso e dell’assurdità della vita, dell’abitare certi istanti, dell’indossare certe esistenze. È il racconto del buio e della luce che ci portiamo dentro, in quanto umani, e del fascio di significati che si irradia dal nostro abitare: questo mondo, questa vita, questi battiti. È il racconto della guerra incessante che siamo. Il dissidio eterno e l’infinito confondersi tra Natura e Umano. I primi fotogrammi mettono subito le cose in chiaro: una montagna immersa nel gelo, alberi, silenzio, cioè una natura quasi “primitiva”, isolata, inaccessibile; e subito dopo le immagini di una fabbrica, i tubi di scarico, il fumo, l’acciaio, ovvero ciò che nell’immaginario collettivo è l’esatto opposto della natura. Ma la verità è un’altra: la natura, in natura, non esiste.