27.12.18

Recensione: "Capri - Revolution"

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Il primo film di Martone che vedo va oltre ogni mia aspettativa.
Ma c'è quasi da incazzarsi ad avere davanti un film che poteva essere grandissimo e che invece per troppa carne al fuoco, per troppe spiegazioni e per il mancato coraggio di essere meno facile perde tantissima della sua potenza.
Capri, 1914.
La pastorella Lucia incontra per caso un gruppo di nudisti su una scogliera.
Capirà che il mondo in cui vive è troppo piccolo rispetto al resto.
Un film che vive di contrasti (più di 10), interessantissimo, a tratti davvero stupendo.
Ma a cui manca qualcosa per essere straordinario.
Anzi, che ha troppe cose dentro per esserlo.

 L'ennesima riprova che l'affibbiarmi la nomea di "critico cinematografico" sia un qualcosa di quantomeno azzardato (e non corretto con chi lo è davvero) lo dimostra questo mio ritrovarmi a 41 anni a vedere per la prima volta un film di Martone, regista apprezzatissimo e amato da sempre dalla critica vera.
Incontro casuale poi, visto che per il quarto anno di fila mi son ritrovato da solo a Natale, ho chiamato l'altro amico nelle mie condizioni (e sempre mio compagno di questi natali cinefili) e abbiamo formato un bel gruppetto per andare in sala.
E niente, abbiamo scelto Capri-Revolution, film al quale non avrei dato una lira e che invece mi ha sorpreso sopra qualsiasi aspettativa.
Il problema del film di Martone sta nei suoi "troppo", altrimenti a parer mio avremmo avuto davanti un possibile candidato a miglior film italiano dell'anno (ma ne ho visti pochissimi, bisogna dirlo).

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Siamo nella meravigliosa Capri, isola verde e rocciosa e con un mare blu che par finto.
E' il 1914, c'è un'aria densa di guerra che poi guerra vera diventerà.
Lucia è una pastorella, analfabeta e ribelle.

23.12.18

Recensione: "Roma" - Su Netflix

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Roma è quasi un non film.
Somiglia più ad un album di ricordi in movimento.
Ricordi personali che però, a vederli tutti, sembrano i ricordi di ognuno di noi, come se l'infanzia fosse un terreno comune da cui poi la vita ci prende e porta via, rendendoci sempre più diversi l'uno dall'altro.
Ma Roma è anche il racconto di una donna straordinaria che in questo mondo che sembra perdere ogni giorno di più dignità e umanità pare quasi piovuta dal cielo


Si parte con un piano sequenza, come Gravity.
Ma questa volta non fluttuiamo nell'Infinito, ma sempre in uno Spazio siamo.
Ed è lo Spazio dei Ricordi, se possibile ancora più grande, ancora più indefinito, ancora più immenso.
E questo è Roma, una specie di non-film che usa il cinema non come fine ma come mezzo.
Cuaron sente il bisogno di ricordar cose e lo fa con un film.
Beato lui, noi che invece quei ricordi non sappiamo come ricostruirli quasi mai, e quando li afferriamo sono più le volte che ci scivolano dalle dita che quelle in cui riusciamo a tenerceli stretti.
Io in un film del genere fatico a parlar di cinema, chè il contenuto è troppo più forte del contenitore.
E allora mi perdo.
E rivivo tutte le cose che Cuaron ha voluto rivivere.

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Le macchine troppe grandi dei nostri padri.
Il fumo delle sigarette, ipnotico e fastidioso.
Il rumore del cucchiaino che sbatte sull'uovo alla coque.
Le ninne nanne che cercavano di portarci dolcemente nel mondo dei sogni.
I panni stesi fuori.
Tutti noi sul divano insieme a vedere un solo programma in tv.
Le tisane o i thè del pomeriggio.
Le ovatte e quell'alcool che brucia.
I pavimenti e l'acqua che li pulisce.
La magia della sala, del cinema, un qualcosa che sembrava sempre troppo bello per esser vero.
I salti nelle pozzanghere sotto la pioggia, quegli hoppipolla magnifici che adesso sembrano non esistere più.
Lasciarsi scivolare sul corrimano delle scale.
Sentire i tuoi litigare da dietro la porta e piangere di dolore.
Le gigantesche feste di famiglia di Natale e Capodanno.
Giocare con i circuiti delle macchinine.

Tutto quello che ho visto in Roma ha fatto parte del mio passato.
E poi ci sono cose ancora più particolari ma, incredibilmente, ho vissuto anche quelle.
L'incendio devastante che distrugge una collina intera.
Il terremoto che ti terrorizza.
L'arrotino che arriva nel paese.
E poi nel finale, in questo film che sembra quasi raccontare Giuseppe invece che Alfonso, arriva anche quel rischio di morte per annegamento, il ricordo più terrorizzante che ho.
E quel giorno la mia tata, la mia Cleo, aveva invece le sembianze di un mio fratello, bambino come me.
Poi c'ho pensato meglio.
C'era qualcuno che diceva che la morte è una livella perchè quando avviene tutti siamo uguali, ricchi e poveri, buoni e cattivi, belli e brutti.
E vedendo Roma ho pensato che c'è un'altra livella, l'infanzia.
Perchè a prescindere da quanto bella l'hai avuta, da quanto sofferente, da quanto ricca o da quanto povera, da quanto piena d'affetto o quasi priva d'esso, tu quei panni stesi, quei pavimenti lavati, quei corrimano dove scivolare, quel fumo di sigaretta, quel divano dove esser famiglia o dove fingere di esserlo, tu tutte quelle cose là sopra l'hai provate e vissute.
E allora ho pensato che se è vero che non c'è un singolo uomo uguale ad un altro, è anche vero che alla fine saremmo tutti "più uguali" tra noi di quello che pensiamo, che l'imprinting è quello, che le cose che ci restano sono quelle, che le prime emozioni sono quelle.
Sarà poi la vita a farci diventare così diversi e, in tanti tanti tanti casi, a peggiorarci.
Roma è un tuffo dolce, sussurrato e un filo patinato in questo mondo comune, in questo mondo comune da cui poi usciamo quasi tutti divergenti.

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C'è la testa che mi vorrebbe portare al film, questo film bellissimo ma che per un'ora e mezzo mi sembrava avere un passo troppo monocorde, questo film così estetico ma anche così profondo.
Eppure la testa va sempre a quei contenuti.
E a lei, Cleo, una donna straordinaria che ha una dignità e un'umanità che più il mondo va avanti più sembra si siano perse, come se l'umanità si fosse emancipata ma questa emancipazione avesse portato quasi esclusivamente a narcisismi, arroganze e celodurismi.
Invece lei è una di quelle donne capaci di amare, voler bene e rispettare, quelle che "stanno sotto", che fanno le governanti, ma a livello affettivo sono alla pari di tutti, che non soffrono di questa loro condizione perchè non è questo che a loro interessa in vita.

Una donna che disse 

"Sono incinta"

e lui rispose 

"Vado un attimo in bagno"

senza tornare mai più, come in qual capolavoro di scena di quel capolavoro di film che fu Laurence Anyways

Una che quel giorno fu uccisa nell'anima da quell'uomo.
E quello stesso uomo, per caso, la ucciderà ancora.
Anzi, ucciderà la cosa più bella che lei aveva.
E se ripenso a quella scena mi vengono ancora i brividi, era al tempo stesso un horror e un'emozione indescrivibile.
Una scena immensa, in camera fissa, con quel "dille addio" che mi ha ammazzato.
Dire addio a chi non avevi ancora avuto il tempo di dire "eccoti, ben arrivata"

Cuaron gira almeno 4,5 scene straordinarie e ci regala 40 minuti finali tra i più belli di quest'anno.
L'incendio mentre il ragazzo svedese canta, gli allenamenti di arti marziali con quello strano ma intenso insegnamento, ovvero di non pensare di fare o realizzare cose troppo difficili se già quelle apparentemente facili possono essere così complesse, un Gravity anni 70 visto al cinema, la panoramica a 360 gradi di lei che spegne le luci della casa, il gioco all'esser morti col bimbo.
Eppure niente potrà battere la sequenza al mare, tesa, struggente, straordinaria.
Una donna che non sa nuotare che parte per salvare tre bambini.
Il ritorno in spiaggia.
Quell'abbraccio collettivo che non riesco nemmeno a descrivere, forse l'immagine di più alta umanità di un anno di cinema.
E quel suo dire "non volevo che nascesse", dirlo in quel momento in cui più di ogni altro sente amore e affetto, dirlo in questo momento in cui il coraggio di dirlo può venir fuori, dirlo adesso dopo che 2 minuti prima hai pensato che altri bambini potessero morire.
Il mio uscire dall'acqua fu diverso, in una spiaggia affollatissima dove quasi nessuno si era reso conto che un bambino era praticamente morto.
E quelle 4,5 persone accanto a me che provavano a farmi respirare.
Ecco, se la scena della mia vita fosse stata cinema lo sceneggiatore avrebbe reso me protagonista.
E invece no, qui ci sono tre bambini che si sono salvati per un pelo.
Ma noi non soffriamo per loro, noi soffriamo per chi l'ha salvati.
Per una donna meravigliosa che in qualche modo è esistita.
E a cui Cuaron dedica questo suo film, questo suo album di ricordi in movimento.
Dedico anche io ogni mia singola emozione a lei.
E a chi è come lei.

19.12.18

Oltre l'Immagine, viaggio nel significato nascosto dei film ( 2 ) - Strade Perdute - (di Edoardo Romanella)


Torna l'appuntamento con Edoardo e i suoi tentativi di decriptare film complessi e di difficile interpretazione.

Restiamo sempre su Lynch ;)

Allora, dopo Eraserhead tocca a Strade Perdute, dello stesso David Lynch. Anche in questo caso scriverne la trama è inutile, qui cominciamo a fare sul serio per quanto riguarda la destrutturazione e il simbolismo (il culmine verrà toccato con INLAND EMPIRE). Ne scriverò comunque qualche accenno, poi seguirà la spiegazione, anche se in rete si trova già qualcosa, ma da quello che ho visto è tutta roba molto superficiale o incompleta.

Ricordo che questo articolo riguarda chi già abbia visto il film, perché leggerne passo per passo i significati senza averlo visto vorrebbe dire rovinarsi un gran capolavoro. Unica pecca a mio avviso, se proprio devo trovare il pelo nell’uovo, è la colonna sonora: i Ramstein e Marilyn Manson non risultano assolutamente all’altezza di Angelo Badalamenti per un film di questo tipo.
Fred Madison (Bill Pulman) è un jazzista di successo, molto capace a suonare, ma scontento della propria vita di coppia con la moglie Renee (Patricia Arquette). Un giorno al citofono sente una strana voce: “Dick Laurent è morto”. Mentre col passare del tempo la paranoia in lui cresce, comincia a sospettare che la donna lo tradisca.


Dunque, iniziamo partendo dal descrivere gli eventi nel giusto ordine temporale: Fred Madison, come già detto sopra, è un musicista jazz sposato con Renee, che però non riesce a soddisfare sessualmente. Un giorno scopre che la donna lo tradisce con il losco Dick Laurent (Robert Loggia) e con il regista di film porno Andy (che lei stessa già conosceva poichè in passato ha probabilmente girato con lui qualche film).

Così, in preda alla collera, prima uccide gli amanti, poi la moglie stessa; viene scoperto dalla polizia, arrestato, condannato a morte per mezzo della sedia elettrica, e nel bel mezzo dell’esecuzione, mentre sta per morire, semplicemente sogna, e sogna di essere qualcun altro: Pete Dayton (Balthazar Getty).
Ciò che vi ho appena descritto riguarda gli eventi “reali” per così dire, ora analizziamo il sogno.
Pete (che viene ritrovato nella cella al posto di Fred) rappresenta ciò che il jazzista vorrebbe essere: non sta per morire innanzitutto, ha un grande successo con le donne (mentre Fred è impotente), è portato per i lavori manuali (meccanico), gestisce lui la relazione con Renee (che nell’inconscio di Fred cambia nome, è Alice, sposata con Dick Laurent: si passa all’associazione di nomi e immagini), ed è lui a “fregare” la moglie a Dick Laurent (nella realtà è il contrario).


Dick Laurent (Eddie nel sogno) rappresenta invece la sua parte razionale, la parte dell’inconscio che esercita l’autocontrollo, la ragione, che regola l’istinto. Ultimamente in rete c’è la moda, per quanto riguarda Lynch, di citare Freud per decifrare i suoi film, e la ragione diventa il Super-Io, ma in pratica è la stessa cosa.
Che Eddie/Dick Laurent sia la ragione lo si può dedurre da diversi fattori: avverte Pete di stare lontano dalle donne degli altri, o si procurerà solo guai; non supera il limite di velocità quando prova la sua auto, ma solo quando deve rincorrere l’autista sconsiderato, e per educarlo sulle regole della strada lo picchia; perfino quando telefona a Pete non è lui direttamente a minacciarlo, perchè passa il telefono all’uomo misterioso con la faccia bianca (Robert Blake), che rappresenta invece il puro istinto, l’Istinto che in questo caso impersona la rabbia, la risposta a ciò che è accaduto nella vita reale. E’ lui che ha ucciso tutti.

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Quando per la prima volta Fred lo incontra alla festa organizzata da Andy, l’uomo gli dice che si conoscono già, e che ora è a casa sua: da qui capiamo che la festa è solo immaginaria, insita nella mente di Fred (probabilmente un ricordo). Il jazzista in quel momento ha già ucciso sia Dick che Andy, e ora è a casa a uccidere sua moglie.
Fred odia le telecamere, a detta sua perchè preferisce ricordare le cose a modo suo, e non come sono realmente avvenute; così i primi due filmati con la camera a mano che la polizia vede è lui stesso a farli, nei panni dell’Istinto, in stato di semi-incoscienza, mentre il terzo filmato è solo una sua proiezione mentale (solo lui lo vede).


All’inizio del film Fred ha uno sdoppiamento di personalità: immagina di parlare con se stesso al citofono, e quando ciò avviene  ha appena ucciso Dick Laurent. “Dick Laurent è morto”, la ragione è morta, il Super-Io è morto, ora è solo istinto.


Frequenti sono anche i rimandi alla realtà: la moglie a casa di Andy, dopo che Pete dice: “L’abbiamo ucciso”, risponde: “Tu l’hai ucciso”; poi in un altro flashback gli appare fugace in una camera da letto sempre della stessa abitazione, e gli dice:” Volevi chiedermi perchè?”, riferendosi alla ragione dei suoi tradimenti; poi gli strani fulmini che ogni tanto appaiono dal nulla e i frequenti sanguinamenti al naso di Pete, segno che la sedia elettrica è in funzione.



Fred, nei panni di Pete, è completamente ignaro di ciò che è accaduto prima che i poliziotti lo hanno trovato in cella e rilasciato.

I suoi genitori però sanno tutto, ma quando chiede loro spiegazioni, dicono che non possono rispondere. Se rispondessero crollerebbe tutto il castello di carta che il nostro protagonista si è costruito, e tornerebbe alla realtà, e così alla paura, poichè nella realtà lui sta per morire.
Arriviamo finalmente alla scena finale, con Pete che torna nelle sembianze di Fred e scappa dalla polizia, ma che è anch’essa solo immaginaria: siamo ancora nel sogno, e alla sua fuga segue quella che sembra essere un’altra trasformazione, con lui che si dimena alla guida dell’auto e del fumo gli esce dalla testa prima dei titoli di coda.
Ma non lo è: in realtà rappresenta la sua fine, la sedia elettrica ha terminato il suo compito.

17.12.18

Recensione: "Calibre" - Su Netflix

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Netflix mi regala, dopo il film Di Blair, un'altra piccola perla.
Probabilmente il film più autoriale che ho visto in quella piattaforma.
Due amici a caccia, un fatto di sangue, una scelta etica da prendere.
Thriller morale che pare quasi un Cuore Rivelatore formato gigante.
Tra paure, paranoie e minacce un drammatico a forte matrice psicologica che metterà anche lo spettatore, se vorrà, davanti a terribili dubbi

presenti spoiler

Mi piacciono tantissimo i thriller morali, quelli che mettono in crisi i protagonisti, quelli dei dubbi etici, delle decisioni da prendere, dei sensi di colpa, della tensione per cose commesse.
Quelli che più del mondo che c'è fuori indagano su quello che c'è dentro di noi.
Ed è così che mi ritrovo questo Calibre (forse tra tutti i film Netflix che ho visto il più autoriale e riflessivo) e non posso non amare quello che è una specie di Cuore Rivelatore di Poe (uno dei più grandi racconti di sempre) in formato gigante.
Un omicidio (involontario perdipiù), il non riuscire a convivere con lo stesso, il terrore di essere scoperti, quei tentativi di coprire il misfatto che, al contrario, peggiorano solo le cose.
Certo, a differenza del racconto di Poe qui l'ossessione dei protagonisti non arriva al climax finale ("Strappate quelle tavole! E' là! E' il battito del suo orribile cuore!") per cui l'assassino si autoaccusa, ma l'iter che viviamo è molto simile.
Credo che questo sia un ramo della psicologia interessantissimo, ovvero quello che studia i comportamenti umani che cercano, maldestramente, di coprire qualcosa che si è commesso.
L'ossessione nel non essere scoperti è così forte e viva che molto spesso è controproducente, è proprio questa accuratezza e meticolosità nel voler celare ad infondere negli altri il dubbio.
Calibre in questo senso è perfetto, un gioco psicologico tutto basato su frasi, sguardi, lettura di reazioni.

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Siamo - mi pare - in Scozia e due amici partono per un viaggio di caccia nei boschi.
Arrivano in un paesino di poche decine d abitanti, entrano nell'unica locanda del paese e sembra di assistere ad una delle scene clou del capolavoro Un Lupo Mannaro Americano a Londra.
In realtà questi boschi nordici mi hanno richiamato anche il sempre netflixiano The Ritual.
Ma no, siamo su due strade completamente diverse.
I due sono malvisti, come tutti i forestieri che arrivano in comunità ristrettissime (e la cosa è raccontata in maniera perfetta nel film, sono situazioni che ho vissuto nel mio paese molte volte).
Vanno a caccia, succede un incidente terribile.
E lì avviene la prima di una serie di scelte morali che il film, se uno ha voglia di affrontarle, ci proporrà.
Vedete, nel nostro calduccio di casa, nella nostra vita in cui cose così gravi non accadono, è sempre facilissimo giudicare.
Chi investe qualcuno e scappa, chi uccide un altro e scappa, chi terrorizzato compie gesti orribili.
Forse vi farà paura ma l'80% delle persone che commettono queste cose fino a un minuto prima eravamo noi, erano come noi, persone convinte che in casi del genere si sarebbero comportati in modo opposto, umano, civico, etico.
E invece cari miei a volte accadono cose così scioccanti per cui noi non siamo quelli che pensavamo di essere, per cui noi non agiamo come pensavamo di agire quando l'abbiamo scritto sulla nostra bella tastierina al pc.
E quindi io quello che fanno questi due ragazzi, sia nel bosco che poi, non lo giudico.
Anzi, mi fa paura pensarci troppo perchè io il terrore che non sarei il Giuseppe che credo ce l'ho.
Voi magari no, meglio per voi.
Torniamo a Calibre.
Avviene quel tremendo fatto di sangue (doppio).
I ragazzi provano a coprirlo.
Il film può veramente cominciare.
Ed è un film tutto basato sulla psicologia, sulle paure, sui sospetti, sulle paranoie.
Il regista è bravissimo a mettere piccoli elementi di tensione, come ad esempio l'uomo nel drugstore lontano dal paese (loro volevano depistarsi)  col suo "non ci sono altri cacciatori da questa parti" (come a dire che se i corpi verranno trovati sono cazzi), il piatto di cervo al sangue che fa rigettare Vaughn (il cervo che doveva colpire, il sangue dell'omicidio), i concetti di vita e morte (Vaughn sta per diventare padre e uccide proprio un bambino), il lapsus del "dovuti" al pub, le scene all'officina.
Tutto veramente perfetto.
Convince semmai meno la sottostoria con la ragazza, sottostoria che servirà poi a trovare un pretesto per bucare le gomme.
In questo frangente, però, conosceremo bene quello che sarà l'autentico cattivo della storia, personaggio molto ben costruito e contrapposto a Logan, il saggio del paese (saggio sì ma comunque sempre ambiguo e inquietante).
Bellissime location, attori in parte, grande atmosfera per un film praticamente privo di difetti.
Certo non ha le stigmate del capolavoro, ma del resto nemmeno l'ambizione d'esser tale.
E arriveremo a un'ultima mezz'ora davvero tesa e dolorosa, costruita anch'essa alla perfezione.

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Chi ha amato il grande Eden Lake proverà sensazione molto simili.
E alla fine l'ultima scelta morale-etica, la più difficile.
E, anche qui, Giuseppe non vi assicura di quello che avrebbe fatto perchè Giuseppe non ha mai dovuto compiere alcun gesto con un fucile puntato alla testa.
Il Paese (molto incisivo come viene mostrato, quasi un corpo unico, minaccioso e scostante) non poteva uccidere entrambi, impossibile.
E allora accetta di mandarne via uno, ma senza che prima questi non abbia pagato il suo debito di sangue.
E finisce un film dove hanno perso tutti, chi la propria vita, chi la propria serenità, chi i propri cari.
C'è un bambino da accudire, c'è un qualcosa per cui vivere ancora.
Ma la testa è altrove.
E quello sguardo in macchina finale è rivolto a noi, a noi che sappiamo, a noi che possiamo capire il suo inferno

7.5

13.12.18

Recensione: " I don't feel at home in this world anymore" - Su Netflix

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L'opera prima dell'attore di Blue Ruin è la cosa più simile a Blue Ruin che ho visto in questi anni.
Stessa struttura, stessa arbitrarietà degli eventi, stessa spirale sempre più violenta e non cercata dal protagonista.
Divertente, con dei personaggi incredibili, strampalato, un noir che piacerebbe ai Coen.
Ma anche un film sul disperato bisogno di contatti umani e sull'ingiustizia della vita, sull'inutilità dell'esser buoni

Non me ricordo quando ne parlai.
Ma io adoro quando un attore diventa regista e da regista prosegue nelle strade che ha conosciuto d'attore.
(Madò, il tempo de scrive la prima frase e me so ricordato quando ne parlai, fu per Brady Corbet)

Macon Blair è l'attore feticcio de Saulnier.

Era lui l'indimenticabile protagonista de Blue Ruin ed era sempre lui uno degli attori principali de Green Room.
Anzi, vado a memoria ma credo che fosse presente anche nell'esordio di Saulnier, Murder Party.
Il motivo di questo sodalizio, tra l'altro, col cinema ha poco a che fare visto che i due sono amici d'infanzia.
E ora Macon Blair gira la sua prima opera da regista.
E qual è il film più assimilabile a questo suo esordio?
Proprio Blue Ruin.
Ma lo è in modo nascosto, non esplicito.

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Del resto in questo stupendo film quasi tutte le cose più belle sono abbastanza nascoste.
Chè uno spettatore poco attento, non abituato a veder sotto o semplicemente disinteressato alla cosa mica le vede secondo me le grandezze di "I dont' feel at home in this world anymore".

7.12.18

Di malattie che non se ne vanno più, di voglia di poesia, di abbandoni e di quadretti appesi al muro

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Sull'onda emotiva del post aspergeriano de ieri ho pensato di "rendere post" anche un'alta cosa che un amico-lettore mi scrisse, stavolta non su chat ma come commento ad un mio post, questo qua per chi interessa (altra esperienza vita).
Trovai questo commento talmente bello, delicato, struggente e vero (e benissimo scritto) che non sono più riuscito a dimenticarlo.
In questo caso avete anche nome e cognome, Alex Cavani (ieri per ovvi motivi era meglio di no).
Questo ragazzo, musicista, scrive anche spesso di cinema altrove (e l'ha fatto anche qua nel buio).
Ma adesso non ce interessa, adesso ce interessa altro

Da ormai undici anni lavoro nel mondo della disabilità nelle scuole e nei centri di recupero, ho fondato un'associazione per insegnare musica e teatro e ad oggi contiamo più di 50 ragazzi, da mettere ogni anno sul palco di un teatro.
Un avventura, spesso un'impresa titanica.
Ma sempre, irrimediabilmente speciale.

Tra le tante esperienze che mi hanno fatto riflettere in questi anni e che mi hanno fatto giungere alla stessa conclusione che hai tratto tu (Sembra quasi che la cattiveria sia il pezzo mancante, che per essere uomini pieni di vizi, egoismi, cattiverie e sovrastrutture si necessiti di un cervello completo), ce n'è una che non potrò mai dimenticare:

un ragazzo di questo mio gruppo, poco più piccolo di me, ha questa malattia degenerativa che ogni giorno lo paralizza sempre di più; è pieno di protesi, usa le stampelle e quant'altro, non può mai stare da solo.
Come se non bastasse soffre anche di dissociazione della personalità, in breve ha personalità multiple (ed è drammatico, mica Split e Split) e la più preponderante lo fa immedesimare in un cantante lirico, mi parla sempre delle sue cene con Al Bano, con il maestro Muti, le scappatelle con le soprane russe, il porno d'antan, le domande sul sesso che si sente di rivolgere solo a me; mi chiede di dargli un sol maggiore e inizia a fare i suoi vocalizzi, la nota non la becca mai, ma non importa; mi chiama il poeta, mi dice che se fossi vissuto all'epoca di Leopardi lui non sarebbe mai finito sui libri, ma io sì.
C'è un rapporto speciale, intimo e amichevole, libero da ogni preconcetto, mi viene da definirlo con una parola anacronistica: puro.
Poi a un certo punto inizia a non venire più alle prove e agli incontri, agli spettacoli neanche si presenta e la sua famiglia rimane nel proprio silenzio, non si sono mai neanche presentati con me.
Dalla scuola vengo a sapere che ultimamente le sue condizioni si sono aggravate, non riesce a camminare se non per pochi minuti e a 16 anni vivere la depressione è asfissiante.
Mi preoccupo, ma non ho modo di sapere nulla di più.
Un mercoledì viene alle prove accompagnato dallo zio, è triste, sconsolato, parliamo a malapena; prima di andare via una richiesta: "scrivimi una poesia, tu sei l'unico poeta che conosco e l'unica persona di cui mi interessa avere un ricordo".
In dieci minuti scrivo una poesia, non la ricorda neanche ad essere sincero, so che quelle parole sono totalmente rivolte a lui e uso delle figure retoriche e delle immagini che possano piacergli; non mi impegno un granchè, volevo essere svelto, doveva andare a casa.
La legge, me la fa firmare, si commuove e mi fa dei complimenti incredibili; poi mi abbraccia, mi saluta e se ne va.
Non sapevo che sarebbe stata l'ultima volta in cui l'avrei visto, l'avrei vissuta con molta più importanza.

Un giorno, pochi mesi fa, mi arriva un messaggio, da un numero che non conosco: contiene solo una foto, nient'altro. E in quella foto c'è una camera, forse da letto, completamente spoglia, se non per un particolare: c'è un piccolo quadretto, non si vede benissimo, ma è abbastanza; è la mia poesia, idealmente appesa sopra quella che un tempo doveva essere la testata di un letto.
Provo a chiamare il numero, non risponde nessuno, scrivo e non ottengo risposte.
Parlo con chi, da scuola, potrebbe darmi una spiegazione e l'unica che mi dice qualcosa è la preside, la mia preside, una donna con due palle grosse come carrarmati, una donna incredibile per fermezza e volontà.
Mi dice che lui, il ragazzo e i suoi familiari, si sono dovuti trasferire, lasciare la scuola e indebitarsi fino al collo per le cure mediche, hanno venduto qualsiasi cosa avessero in casa; la preside li ha aiutati con qualche soldo, di tasca sua, ma non è bastato. Ovviamente nessuno sapeva nulla.
Ora non sono più rintracciabili, non si sa dove vivano, il cognome non da risultati di alcun tipo e io ogni giorno penso a quel ragazzo, la mia mente non sa se sia vivo o no, il mio cuore pensa solamente a quella stanza vuota e a quel quadretto per molti senza significato, per me simbolo di un vuoto incolmabile.

Non so neanche se queste parole abbiano un senso e un ordine, le ho messe giù come un fiume in piena, ma il tuo post Giuseppe mi ha dato la possibilità di ritirare fuori questa storia e scriverne mi ha fatto stare meglio e ricordare dei bei momenti e in qualche modo esorcizzarne di brutti.
Non so se ci sia una morale in tutto questo, ma penso sempre che l'essenziale, come da sempre Il Piccolo Principe insegna a generazioni di uomini, sia da cogliere in ogni situazione, soprattutto dove non si vede o dove non si pensa che sia.

Grazie

6.12.18

Di Asperger, di sè, di contatti, di paure e di altre delicate e belle cose


Per la prima volta nella storia del blog pubblico nè un pezzo mio nè un pezzo mandato da altri.
Ora voi me direte: che altre opzioni ce sono? gli alieni?
No.
Il pezzo che leggerete è un qualcosa che mi hanno scritto in chat.
Una lettrice.
Non saprete nome (nel brano la chiamo Rebecca), età, niente.
Il fatto è che quando ho letto sta chat c'ho trovato dentro tante tante cose.
Cose che mi toccano da anni (diciamo che ho molta vicinanza con gli Asperger o casi simili e che noi fratelli Armellini, chi più chi meno, abbiamo sintomi come quelli descritti), cose di vita "normale", bisogni umani, paure, gioie, incertezze e dolori.
La fregatura poi è che non bastavano solo gli argomenti, sta ragazza ha scritto tutto anche con una passione, scrittura e voglia de raccontà davvero uniche.
Pura letteratura.
E a me me pareva na cosa brutta tenella per me una cosa così.
Gli ho chiesto se potevo mettela nel blog, ha detto sì.
Io credo che possa far bene a tanti, che possa interessare, a tratti divertire e soprattutto far pensare.
Boh, magari aprimo una rubrica de racconti de vita vostri, che ne so

Dopo la diagnosi Asperger ad inizio ottobre, ho fatto la cosa più semplice e più stupida. Ho cercato gruppi Asperger qui su fb, per imparare, capire, conoscere, confrontarmi. Ho trovato un gruppo che mi sembrava serio, vi sono entrata. Come d'uso e costume nei gruppi, mi sono presentata e ho raccontato di me. Ho ricevuto conforto virtuale al mio smarrimento. Il primo commento ricevuto è stato un bellissimo e gentile incoraggiamento, da parte di un moderatore, che si capiva essere un ragazzo giovane. Erano piovute decine di richieste di amicizia (non la sua, ma di tanti membri del gruppo) che non avevo accettato, come sempre. Non ho mai voluto avere l'amicizia su fb con persone che non conosco fisicamente o di cui ignoro l'identità. Per questo, non ho mai superato la trentina di amici, al massimo. Voglio avere l'amicizia solo con persone che conosco "dal vivo" o che non conosco ma che stimo. Nel gruppo, sentivo sempre parlare bene di questo ragazzo e vedevo i suoi "interventi", sempre per me intelligenti e misurati. Mi sembrava una persona dolce, un bravo ragazzo. Così pochi giorni dopo, avevo chiesto l'amicizia.
Mi aveva detto di essere " Aspiefriendly" , di soffrire di lieve depressione, di sentirsi molto solo, di non avere amici (come me), di avere 33 anni. Tutti colpi ben assestati (scientemente o meno) alla mia indole ingenua e accudente. Perciò messaggi dall'alba al tramonto, complimenti sul mio aspetto fisico e sulla mia "perfetta cristallinità", lodi su ogni cosa che dicevo, raccontavo, svisceravo ed elucubravo. E scuse per ogni volta che temeva di aver detto qualcosa di sbagliato (più volte ripetevo: " Non sono di cristallo!"). Voleva vedermi per parlare un po'. Ho preso il treno, ci siamo incontrati a metà strada. Abbiamo camminato e parlato per 6 ore. Prima di salutarci mi aveva sfiorato i capelli e mi aveva chiesto: " Posso accarezzarti?". Avevo risposto di no. Da 3 minuti dopo il nostro saluto, di nuovo messaggi suoi ad un ritmo forsennato, da quel momento con cuori e baci. Io guardavo il libro che mi aveva regalato. Nel giro di due giorni ed ormai erano 10 giorni che ci conoscevamo (dopo aver parlato più con lui che con chiunque in tutta la mia vita), si era dichiarato innamorato. Io, no. Era troppo giovane, troppo infantile, troppo irruento, troppo sbagliato "per me".
Ma era così dolce, così colto, così intelligente, così affettuoso. E quel " così giovane" da un difetto, è diventato un pregio. Ma non volevo. Giorni di lotta, con lui che mi apriva la mente sul suo mondo libero di ragazzo che non ha preconcetti né pregiudizi. Con la sua laurea di filosofia ad insegnarmi cos'è la vita. A me, che ero sempre stata chiusa nel mio piccolo mondo antico. E antico in tutti i sensi. Grazie, prego, mi scusi, abbi pazienza, perdonami, perdonatemi tutti se sono così diversa da voi, scusate se non so scegliere cosa comprare dal macellaio e ci metto tempo, se arrossisco, se quando mi emoziono balbetto e mi contorco le mani, se ho sempre creduto solo all'amore e poi ho smesso per sempre, se non ho mai avuto una avventura, se sono all'antica, se ragiono come una delle "Piccole donne" della Alcott (e non, Jo), se sono banale, insicura, impulsiva, se ragiono troppo, se scrivo e rimuovo, se sto con le ginocchia retroflesse e le punte dei piedi verso l'interno quando non so cosa dire, se la mia vita sociale è fatta di film sul divano col the (ho i denti persino un po' scuri, per i miei (beeeeepppp) anni di film e the), di sogni mai avverati (come tutti), di felicità avuta quando non sapevo di averla, di gesti goffi, di poesie, di cucina e meno male che cucinare non mi fa pensare anche se poi penso che non cucino mai per qualcuno, di un lavoro che mi ricorda ogni giorno che siamo qui a fare un cazzo (lavoro in Hospice, accompagno e assisto le ultime ore di vita di bambini e adulti e poi li lavo, li vesto, li trucco) eppure proprio guardando loro penso che è bello lo stesso bere i miei diecimila the guardando i film, di ricordi conservati e dimenticati e cancellati apposta, di treni presi da sola, di cinema con la sala vuota allo spettacolo delle 18, di telefonate mai fatte perché amo scrivere messaggi. Di poco e di tutto.
E lui non mi "ascoltava" stranito, non mi osservava incuriosito e perplesso, non mi derideva. Per la prima volta, potevo essere me stessa. Non ero più una aliena. Così gli ho detto: " Okay. Okay. Io non posso amarti. Non riesco più. E non potrei. Sei un ragazzo. Ma posso volerti bene. Possiamo essere amici. Possiamo persino fare sesso. Non ho mai fatto così, non so nemmeno come si fa. Ma okay. Tu mi insegni a non negarmi nulla. A vivere davvero. Okay. Non è amore, lo sai. È una terapia. Quanto costa la tua psicologa, a seduta? 50 euro? Ecco. Terapia gratis o quasi. Tu, per la tua lieve depressione. Io, per la mia solitudine Asperger. Non voglio avere intorno nessuno e se lo voglio lo scelgo tra cento. E poi quell' uno su cento però non ama gli alieni e allora ciao. Noi, no. Tu, no. Mi accetti. Io accetto te. Facciamoci compagnia. Coniamo questo termine: amici di tutto. ADT. ".
Carpe diem.
Ed eccola, la Rebecca Asperger. In tutto il suo splendore. Gli ho regalato l'abbonamento del treno per vederci, gli ho comprato un pigiama, dei libri. Mi sono ammazzata di cibo cinese perché a lui piaceva. Perché negare qualcosa ad un ragazzo di 33 anni che ti guarda e ti dice che ti adora? Ingenuità imbarazzante, la mia. Te l'ho detto. Ho fatto persino una follia, sono andata a comprare i preservativi. Mai fatto in vita mia. E mentre sentivo la faccia caldissima la cassiera aveva detto: " Buona serata!".
E poi ieri sera, dopo i miei commenti nel Guardaroba, ho fatto un giro su FB e sulle pagine che lui segue. Un giro durato 5 ore perché facendo incroci e incastri, giocando a tetris, ho scoperto che fa parte di gruppi che "amano" le milf, le tardone, le donne mature. Ci ho messo 5 ore, a scoprire tutto quello che non si vedeva. È per questo, che è pericoloso uscire dal mio piccolo mondo. È per questo. Ci torno subito. Tolgo il secondo cuscino dal letto, stava da 4 anni e mezzo nell'armadio. Butto via i preservativi. Metto in fondo al cassetto del mobile in sala, il suo libro. Magari un giorno lo leggerò. Mi preparo un the, mi macchio ancora un po' i denti. Metto "The orphanage". Non è successo niente. Ho solo vissuto, vero? Come tutti. O era "solo" un film? Se lo era, voglio che il regista sia Guadagnino.

4.12.18

Oltre l'Immagine, viaggio nel significato nascosto dei film ( 1 ) - Eraserhead - (di Edoardo Romanella)

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Apriamo questa nuova rubrica con l'amico (anche bi-radunista) Edoardo Romanella.
Edoardo si divertirà a decriptare i significati nascosti di film o altri tipi di opere audiovisive di difficile comprensione.
Ovviamente, come in questo primo caso, ci saranno anche opere su cui sono stati scritti interi saggi e di cui i cinefili sanno tutto, quindi i pensieri di Edoardo, a loro, magari servono a poco.
Ma magari c'è anche gente che certi film non li ha visti o comunque ama leggere possibili interpretazioni.
Dopo una breve sua presentazione, Eraserhead

Salve a tutti, sono Edoardo Romanella, e con Giuseppe abbiamo deciso di aprire questa particolare rubrica, volta a far luce sui significati nascosti dei film, delle serie Tv, dei cartoni animati e di quant’altro sia apparso sul grande o piccolo schermo. Premetto che non ho la verità rivelata, e che quindi tutto ciò che leggerete sarà unicamente frutto di mie interpretazioni. E che vi piacciano o no, tali rimangono. Buona lettura. 


Prima di iniziare a parlare del film dovrei fare qualche accenno alla trama, ma scriverne qualcosa è pressoché inutile, perché di fatto questa è un’opera totalmente destrutturata, non lineare e onirica dall’inizio alla fine.
Quindi, chi già avesse visto la pellicola sa di cosa parlo, per quanto riguarda gli altri scriverò solo un accenno: una coppia di fidanzati, Henry (Jack Nance) e Mary, ha un bambino, che però nasce deforme, con un aspetto più simile a quello di un girino che di un uomo. Come contorno alla vicenda ci vengono presentati degli strani personaggi: un macchinista parzialmente ustionato dalle scintille dei macchinari, una donna dalle guance deformate, i bizzarri genitori di Mary, un pollo sanguinante, ecc…

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David Lynch, il fuoriclasse del surrealismo, dopo una serie di cortometraggi esordisce al cinema con questo capolavoro (1977), e con un unico scopo: disorientare e angosciare lo spettatore. Per questo primo lungometraggio il profeta (in realtà non fu proprio il profeta, come vedremo) cinematografico dei sogni concepisce una fotografia in bianco e nero, che contribuisce a incrementarne l’aura di angoscia. Qui si respira la disperazione del protagonista, la depressione, di cui Lynch è uno dei principali esponenti (chi ha già visto i suoi quadri sa di cosa parlo).
Dall’inizio alla fine ci racconta un sogno, siamo nella mente di Henry: la sua ragazza è rimasta incinta, di una gravidanza non programmata, e la nascita del bambino lo ha segnato irrimediabilmente. Henry vede la sua vita stravolta, così come i suoi sogni e i suoi progetti, e in un sogno si manifesta il suo stato d’animo: la rabbia, l’angoscia, la paura.  
Questa è la spiegazione, ogni elemento del film riguarda ciò: dalla donna con le guance deformate che calpesta embrioni, al pollo sanguinante, al figlio deforme, alla sua stessa testa che a un certo punto si stacca dal corpo e viene presa per farci della gomma per matite (da qui il titolo, Eraser-Head = Testa-Cancellatrice). Tutti elementi volti a far trasparire il desiderio di far tornare la sua vita com’era prima. E poi c’è il pianto del bambino, quel pianto ossessivo e lancinante che tormenta lo spettatore, e gli avvelena l’esistenza.

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Detto ciò, con questo straordinario esordio il regista riesce molto bene nel suo intento di disorientare e turbare, e anche se il tutto verrà perfezionato in Velluto Blu, Strade Perdute, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE, ciò non toglie nulla a Eraserhead, che rimane una pietra miliare del genere.
Come detto sopra, Lynch non è il fondatore di questo modo di fare cinema. Il surrealismo, il simbolismo, la destrutturazione, i sogni, erano stati già messi in scena da un altro fuoriclasse della macchina da presa: Luis Bunuel (la scena del pollo sanguinante è un omaggio neanche troppo velato a L’Angelo Sterminatore).
Eppure, nonostante la bravura di Bunuel, Lynch ha fatto di più, molto di più. Le sue immagini sono più forti, la tecnica si spinge all’estremo, in uno stile personalissimo, e una intensità tale da fare di lui indiscutibilmente uno dei più grandi registi nella storia del cinema, a mio avviso il migliore per quanto riguarda il cosiddetto genere weird.

3.12.18

Recensioni "High Life" - "The Guilty - Il Colpevole" - "Pity" - Torino Film Festival 2018

Ho visto 14 film al Tff.
Ero riuscito, ad oggi, a scriverne solo sette.
Su 4 ho rinunciato, troppo tempo passato, non sarei riuscito a infilare 3 righe messe in fila.
Però ci tenevo a salutare questa bellissima esperienza recensendo gli ultimi 3 film, probabilmente pure i più belli che ho visto.

presenti spoiler

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HIGH LIFE

La fantascienza intimista è una delle mie materie preferite di quella magnifica scuola che è il cinema.
Buffo come adori questo (sotto)genere con la stessa forza con cui evito la fantascienza tout court.
Questi anni di film che attraverso lo sci-fi cercano di raccontare l'uomo, il senso della vita e quello dell'esistenza ce ne sono stati tanti.
Così tanti che iniziano spesso a somigliarsi l'un l'altro.
Tanto che un filmone come High Life perde un pochino di potenza dopo che uno ha visto tanta roba simile.
Però sticazzi, fatene quanti volete e io li vedrò.
High Life è un film ambiziosissimo (uno dei più ambiziosi visti questi anni nello sci-fi) che trasla nella cornice fantascientifica concetti primordiali e assoluti come quello della maternità (vita) e del senso dell'esistenza.
Ambientazione alla Moon, richiami di The Martian (vedi l'orto), pennellate di Wall-E (con quelle immagini malinconiche della Terra e di quello che eravamo) e, come detto, un sottotesto autoriale fortissimo. Non scomoderei Kubrick ma il tentativo (nelle intenzioni) è simile.
Grande incipit in cui vediamo un astronauta (grandissimo Pattinson) vivere in un'astronave con la sola compagnia di una neonata. I gesti di Monte (il personaggio) sono quelli di un padre. Solo poi (il film è quasi tutto flash back) capiremo se è veramente figlia sua.
Prima di tuffarci sul flashback vediamo Monte liberarsi di 5,6 corpi, corpi ibernati che in una scena davvero forte vengono gettati letteralmente fuori, nello spazio.
Tutti morti.

Andiamo indietro nel tempo, comincia il film.
Scopriamo che quell'equipaggio è formato da tutti galeotti che hanno commutato la loro condanna a vita (o a morte) in un viaggio spaziale di cui non è assicurato il ritorno.
Un viaggio alla scoperta dei buchi neri, lo spazio ignoto per eccellenza.
Film sui misteri quindi, su quello della vita, su quello dell'universo.
A bordo c'è infatti una dottoressa, a sua volta omicida (una splendida Binoche), ossessionata dal voler far nascere la vita all'interno della nave spaziale.
Dopo tanti tentativi falliti alla fine riuscirà nel suo intento.
Film ipnotico, di gran classe, suggestionante, scarno e complesso High Life ha semmai il difetto di affrontare tanti temi senza dare loro una perfetta coesione.
Lo spettatore è un pochino confuso, non capisce quale sia l'obiettivo ultimo (se ce n'è uno) del film e rischia di perdersi in più sottotrame.
Ma il film è affascinante, stimola la vista e la mente, ha grandi interpreti e due personaggi, quello di Monte e quello della dottoressa, davvero notevoli.
Tante scene che rimangono impresse, su tutte l'autofecondazione della Binoche, una specie di rito tribale con provette e sperma. Scena al limite del sostenibile e del ridicolo ma per me straordinaria.
Ma i sopracitati corpi gettati nello spazio, la bimba che muove i suoi primi passi, la bellissima e inquietante sequenza della Goth che entra con la navicella nel buco nero, l'arrivo nella base spaziale gemella, il film è pieno di momenti altissimi.
Tutto è permeato da un'atmosfera di angoscia, di speranza perduta, di tensioni e, soprattutto, è fortissima la componente sessuale che, in questo universo grande e sconosciuto, risulta davvero incisiva per questa sensazione che proviamo di Origine, un cortocircuito di origini anzi, quella della vita umana e quella della vita dell'Universo.
E poi lei crescerà e il rapporto tra i due (vero capolavoro del film) sarà sempre bello e forte.
Fino ad un finale che mi ha ricordato Synecdoche New York e Biutiful.

Qual'è il titolo dello spettacolo?
Cosa c'è oltre il bosco?

Cosa si nasconde in quel buco nero?

7.5/8

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THE GUILTY - IL COLPEVOLE

Il mio film del festival.
Per quanto mi riguarda un'opera perfetta, di sicuro il miglior thriller del 2018.
Il fatto è che dentro questo film c'è quasi tutto quello che amo.
Intanto una sceneggiatura sontuosa, intoccabile.
Poi il coraggio di girare il film tutto in un'unica location.
Poi, se non bastasse, affidare tutto a sole conversazioni telefoniche (solo Locke e Buried, a memoria, hanno fatto lo stesso).
Poi ha un attore devastante per bravura.
Poi è teso, tesissimo, più di qualsiasi thriller in cui vengono mostrate cose.
E, ciliegina sulla torta, è un film dall'umanità impressionante, tanto da doverlo classificare, come fu già con Locke, in quelli che io amo definire thriller "etici", ovvero film dove la componente della tensione va di pari passo con quella dei comportamenti umani, del tentativo di essere Uomini (penso anche al sottovalutato A Most Violent Year).

Siamo nella sede operativa del 112 ( o 911) danese.
Quella delle emergenze insomma.
Asger è un operatore integerrimo. C'è però la sensazione che questo potrebbe essere il suo ultimo giorno di lavoro visto che l'indomani è atteso in tribunale, non sappiamo per cosa.
Dopo alcune chiamate di preparazione Asger riceve quella di una donna. Non può parlare, c'è un uomo violento lì con lei.
Asger la tranquillizza. Di lì in poi succederà di tutto, in quella che è una sceneggiatura magistrale dove anche i colpi di scena arrivano senza esser furbi ma, al contrario, sono quasi colpi di scena "emotivi", di lenta empatia.
In questo perfetto script lo spettatore sa poi che le due vicende (la chiamata della donna, la storia del tribunale) dovranno convergere nel finale.
E sì, lo faranno, in modo quasi commovente. E quel titolo acquisirà un profondo significato.
Unità di luogo quindi, ma anche unità di tempo.
Anzi, The Guilty va anche "oltre" l'unità di tempo (24 ore) svolgendosi tutto in tempo reale (un "piano sequenza montato" per capirsi).
Tutto il film è sulle spalle del fantastico Jakob Cedergren (non a caso ha vinto miglior attore a questo festival), attore capace di regalare emozioni a non finire senza mai andare una singola volta sopra le righe. Anzi, il suo personaggio appare quasi freddo, incapace di emozionarsi (del resto in quel lavoro è obbligo) ma al tempo stesso viene fuori tantissimo tutta la sua umanità, tutto il suo dolore, tutto il suo terrore, tutta la sua voglia di riscattarsi come uomo.
La vicenda va avanti, si fa sempre più tesa, la telefonata con la piccola Mathilde mi ha messo a dura prova.
Piano piano la situazione si fa sempre più tragica, terribilmente tragica.
Fino ad arrivare al colpo di scena (io intuito zero, molti sì) che fa correre un brivido freddo lungo la schiena ma rende tutto ancora più doloroso.
Quel delirio sui "serpenti in pancia" invece di farti odiare la donna rendono ogni personaggio ancora più empatizzante, sia la stessa donna sia Asger, uomo che stava facendo di tutto per salvarla e si trova invece adesso con una situazione completamente ribaltata.
E il film è terribile nel descrivere l'incredibile sforzo di questo uomo per salvare tutti e tutto che, invece, si rende conto di aver commento solo danni irreparabili (far vedere il fratellino a Mathilde, non permettere che Iben venisse portata in clinica).
No, non è giusto, pensa lo spettatore.
Ma l'emozione è troppo forte e quel titolo, The Guilty, il colpevole, fa finalmente capolino in tutta la sua terribile bellezza.
Asger che pochi giorni prima aveva ucciso un uomo.
Asger che adesso per redimersi e salvare vite umane ha commesso errori madornali.
Sempre più colpevole.
E poi la telefonata struggente in cui si parla di pesci ed acquari.
E poi un ponte.
E poi una linea che cade.
Asger finisce nell'inferno più cupo possibile, è come se avesse ucciso di nuovo, adesso che invece aveva fatto di tutto per dimostrarsi uomo.

"E' con noi"
gli dice una voce

E scende l'ultima lacrima.
Perchè è giusto così cazzo

8.5/9


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PITY

Cristo, il cinema greco non sbaglia mai.
Quando ho saputo che a scrivere Pity c'era in mezzo lo storico sceneggiatore di Lanthimos ero già a posto, sapevo di trovarmi davanti al 100% ad un film geniale, probabilmente glaciale e che mi aprisse la mente.
E così è stato.
Dico la verità, senza il - per me - grandissimo finale Pity sarebbe stato "solo" un bel film, probabilmente una/due spanne sotto i greci più belli.
Ma il finale, oltre a portare i presupposti a limiti inimmaginabili, lo "completa", in una sceneggiatura in cui tutti gli elementi alla fine (appunto) convergono.
Pity (compassione) è la storia di un uomo che ha la fissa di voler essere compatito.
Sua moglie è in coma ma lui sembra non soffrire per niente della cosa.
A lui interessa soltanto che gli altri gli porgano le loro condoglianze, lo facciano sentire importante, gli mostrino il loro dolore e il loro affetto.
Anzi, quasi a mò di Pirandello, l'uomo diventa un acuto osservatore e quasi "saggista" della tristezza e della pietà, di cui codifica comportamenti, atteggiamenti, effetti (vedi capelli bianchi) e mimica facciale.
Il suo diventa uno studio sulla compassione che ha sè stesso e chi gli sta intorno come personaggi principali.
A me ad un certo punto è venuta in mente la scena della Grande Bellezza in cui Servillo spiega come fingersi tristi al funerale (anche se qualche dubbio che quelle lacrime fossero vere ce l'avrò sempre).
Pity diventa un film capace di trasformarsi più volte. All'inizio è un surreale drammatico molto compassato, poi diventa un film dall'irresistibile humour nero (la scena delle urla con registratore acceso è uno dei momenti comici dell'anno per me) poi alla fine si tramuterà in una tragedia senza pari.
Ho adorato questo trasformismo (che in altri film del festival avevo mal sopportato) perchè è tutto giocato sulle sfumature, non c'è mai un cambio di rotta netto e pacchiano.
Ci sono tanti elementi geniali come lui che rompe il pianoforte per non permettere al figlio di suonare musiche allegre ("potrai suonarle solo se la mamma di risveglia"), come quell'assurdo caso di omicidio di un suo assistito (lui è un avvocato) dove c'è una biciclettina vicino al corpo (dettaglio che verrà usato in modo meraviglioso nel finale), come i siparietti con la vicina e le sue torte (il non ricevere più torte lo fa decadere dal suo ruolo di essere umano da compatire), come la surreale canzone che ha preparato per la moglie in coma, come la sequenza della mammografia (devi aver qualcosa per forza, non può essere che stai bene, io ho bisogno di essere compatito!), o la scena dei lacrimogeni.
Scena assurda sì, ma importantissima per questa sottotematica del film, ovvero quella dell'incapacità di saper piangere (che vedemmo, con risultati grandiosi, in Synecdoche New York).
Perchè se è vero che l'uomo vuole essere compatito è anche vero che al tempo stesso lui compie esercizi su sè stesso per essere anch'egli in grado di compatire o, quantomeno, dimostrar tristezza per le cose.
Verso il finale l'uomo compie un gesto simbolico, ovvero togliere il quadro di quel mare placido e calmo (la serenità) per sostituirlo con uno di mare in tempesta (il dolore, il tormento).
Ma ormai nessuno ha più voglia di dimostrarli vicinanza, nemmeno quando finge di aver perso il cane.
E il film era già buono così.
Ma il finale è qualcosa di sontuoso, perchè unisce tutti i punti.
C'è un solo modo per essere ancora compatito, sterminare tutta la famiglia.
L'uomo ricorda l'omicidio del padre del suo assistito, ricorda l'affetto che la gente riversava sui figli del morto.
E allora ricostruisce lo stesso omicidio. E la sua mente è talmente fuori di sè che mette vicino al corpo la stessa biciclettina di quell'omicidio (se già in un omicidio era elemento senza alcun senso, ridicolo e quasi grottesco figuriamoci in due).
Poi continua il suo sterminio, e ancora biciclette.
Come se tutto l'universo di quell'uomo fosse lo stesso piccolo universo che lo spettatore aveva scoperto con il film, la compassione, un omicidio, una bicicletta.
L'uomo ha solo quegli elementi per raggiungere il suo scopo. Anche se niente ha senso di quello che sta facendo.
E alla fine, in uno script perfetto, abbiamo anche i capelli bianchi.
E abbiamo anche, finalmente, le lacrime, probabilmente vere.
Lacrime che fanno da colonna sonora ad un mare placido e sereno

7.5 / 8