29.6.21

Compleanno e date ufficiali raduno 2021

 Oggi è il compleanno del blog (12 anni..., e se è vero che ogni anno di blog sono 6 umani fate i conti...).
Ne approfitto per la classica comunicazione che faccio in questo periodo, ovvero la data ufficiale del raduno 2021 che sarà il 3-4-5 settembre (sempre Perugia e dintorni). Abbiamo già il film con regista del venerdì, sabato bisseremo la riuscitissima novità dell'anno scorso (ovvero andare a visitare qualche posto nuovo e pranzare lì) e ci sono già sicure 5-6 persone nuove.
Venite!
Ovviamente poi farò i post "ufficiali" tra luglio e agosto ma le date sono sicure. Per qualsiasi informazione chiedete qua nei commenti, per mail o a me in privato (giuseppe armellini su fb).
Per il resto questi ultimi 20 giorni ho visto un solo film (Mandibules di Dupieux, a suo modo delizioso) spero di parlarne...

17.6.21

Recensione: "Apan" - Passeggiate, il cinema della poesia - 17 - di Roberto Flauto - Su Netflix

 

Nuova recensione di Roberto, a suo modo "storica" perchè con questo 17imo appuntamento diventa la rubrica esterna più longeva nella storia del Buio in Sala.
Un film sconosciuto trovato su Netflix.
Le righe di presentazione, almeno per quanto mi riguarda, già mi prendono.
Vi lascio a lui

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Un film per niente memorabile, ma difficile da dimenticare.
Non accade niente. È già successo tutto.
Un uomo si risveglia sul pavimento del bagno ricoperto di sangue.
Comincia la sua giornata. Una discesa nell’abisso.

Non so perché sono qui.
Non so cos’è successo.
Ho paura, fa freddo, il mondo ha smesso di girare.
Non so di chi sia questo sangue sui miei vestiti.

È già accaduto.
Non sappiamo cosa, ma è già successo.
Un uomo si risveglia sul pavimento del bagno.
C’è sangue ovunque, ne è ricoperto. Ma non è il suo.
La mattina è appena nata. Un nuovo giorno è cominciato. Siamo a Stoccolma.
L’uomo si chiama Krister. L’espressione del suo volto, che non cambierà mai, è tanto inespressiva da essere inquietante.
Poi si sveglia, si dà una ripulita, esce di casa e se ne va in bici per la città.
Indossa sempre l’auricolare a un orecchio, parla al telefono. Frasi sconnesse, dialoghi scarni, quasi del tutto assenti. Apan è un film di silenzi, ma così carichi di urla che vibrano nelle tempie e nei polsi. Di chi era quel sangue? Perché ha dormito in bagno? Come ci si può addormentare sporchi del sangue di qualcun altro?
L’aria è immobile. Il cielo ha il colore dell’assenza.

Fa freddo, ho paura, non capisco cosa succede.
Io non sono qui. Questo non sono io.

L’assenza è uno degli elementi fondamentali della poesia.
Come il vuoto, il nulla, l’attesa, la sospensione, l’attimo in cui.
In Apan c’è tutto questo. Dunque c’è poesia?
Non lo so. Sì e no. C’è la violenza dell’assenza, questa sì.
E credo che, in fondo, ci sia qualcosa di intimamente poetico in questa storia – o meglio: nella sua narrazione, nella sua messa in scena, nel suo racconto (perché la poesia è un come e non un che cosa). C’è la tentazione del silenzio che si mischia e si confonde con la necessità dell’urlo. Ne viene fuori un’apnea esistenziale che non lascia scampo. Guardate gli occhi di Krister. Il suo volto. I suoi gesti. Il bisogno del silenzio intrecciato alla volontà della parola, che non conosce pietà.
Ma non basta presentarsi con un vestito da “poesia” per essere poetico. Così come non basta soffocare la realtà con atti di routine e normalità per cancellare le macchie di sangue.

No, questo non sono io.
Io mi chiamo Krister.
Sono una brava persona, sono un insegnante di scuola guida.
È stato solo un attimo, lo giuro.
Non è successo niente.

Apan non fa davvero niente per farsi ricordare, ma fa di tutto per non farsi dimenticare.
E bastano due minuti per sentire il peso dell’inquietudine sulle spalle, sulle palpebre, sul cuore.
L’uso ripetuto della mdp a mano libera, che inquadra Krister riprendendolo leggermente sopra, da dietro la testa, aumenta e intensifica l’effetto di angoscia. Un’inquadratura e un’angolazione che sembrano quelle di un videogioco, come se quella che vedessimo fosse la “visione del giocatore”, e quello sullo schermo il nostro avatar. Guardiamo e viviamo la giornata attraverso i suoi occhi e la sua prospettiva. Una giornata che si fa sempre più surreale e tremenda. Soprattutto quando lui torna a casa.

Davvero, non è successo niente.
Deve essere stato un incubo, solo questo.
Ci sono pezzi di notte che mi tagliano il cuore.

Krister esce di casa in bicicletta. Poi recupera l’auto dal meccanico. Poi va al lavoro e dà una lezione di guida. C’è un senso di angoscia costante in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni silenzio, in ogni parola. Poi ha un attacco di panico. Poi telefona alla mamma. Poi va al negozio di bricolage. Poi ha un attacco di panico. Poi gioca a tennis. E un altro attacco di panico. E il mondo che collassa, l’universo che frana, la vita che muore.
È tutto scollegato, inquieto, inquietante, angosciante, ossessivo, pervaso da un senso di sofferenza pronto a esplodere in un milione di lame taglienti. La trama è a pezzi, proprio come il suo protagonista.
Poi Krister torna a casa.

La verità è che non è colpa mia.
Ve l’ho detto, questo non sono io.
Dovete capirmi.
Io sono come voi.

Gli eventi insensati e le azioni sconnesse, apparentemente un segno di debolezza della storia, hanno invece una profonda connessione con il gelido senso di alienazione e distacco di quest’uomo dall’espressione impassibile, che però trasuda irrequietezza, smarrimento, terrore, angoscia. Una sensazione di insanabile frattura tra lui e il mondo.
Apan è una storia morbosa, compulsiva, ai limiti del disturbante. Eppure non accade niente. È già successo. Noi siamo (con) Krister, per tutto il tempo, e respiriamo il suo tormento.
Sin dal primo fotogramma siamo proiettati in questo vortice di assurda e assillante angoscia. Una spirale caotica e oscura. E ci rendiamo conto che Apan pone al centro della sua frammentata e sincopata narrazione il senso di colpa, l’alienazione, la rabbia, l’insanabile frattura psichica di una mente alla deriva nell’abisso del proprio sé. Ci rendiamo conto di ciò in un momento preciso. Il momento in cui Krister torna a casa e apre la porta.

Voi siete come me.
Potete capirmi.
Vero che potete capirmi?
Andrà tutto bene.

Lui è fermo, la mdp lo inquadra di spalle, poi si sposta e allora vediamo tutto.
Il corpo martoriato della moglie.
La donna è riversa in una pozza di sangue raffermo, nel salotto, sul tappeto, vicino al tavolino, in mezzo ai ricordi di una vita. Ecco cos’era accaduto. Ecco di chi era quel sangue sui suoi vestiti. Ecco chi sei, Krister: un assassino.
Lo vediamo compiere gesti insensati. Prima porta in casa i sacchi comprati al negozio di bricolage. Si avvicina alla moglie ma subito se ne allontana. Vai in camera da letto e accende la tv (ecco, qui, in questo passaggio insignificante e brevissimo io ci vedo la sintesi perfetta del film, ma ci torno dopo). È agitato, frenetico, confuso, stordito, e noi con lui. Cammina. Riflette (a cosa pensa? A cosa ha pensato? Cosa vuole fare?). Va in bagno e vomita. Non sa che cosa fare. O forse lo sa benissimo. Il panico lo assale, ancora. Sta per sedersi su un tavolino per riprendere fiato, urla la sua rabbia, quando accade qualcosa che gela il sangue nelle vene.
«Papà!».
Una voce arriva dal piano di sopra.
Un bambino, suo figlio.
Krister sale le scale, si affaccia nella camera del figlio. Tentenna, esita. Non dice una parola. Poi entra. Il ragazzo è steso a letto. C’è sangue sulle coperte, sui suoi abiti. Il papà aveva tentato di uccidere anche lui, ora è chiaro. Ecco per chi erano quei due sacchi comprati al negozio. Ma il piccolo non è morto. E sembra non sapere o credere che sia stato il padre a fargli del male. Avrà passato ore di agonia atroci. Poi ha sentito la presenza del padre in casa e ha gridato con tutto il fiato che avevo in corpo «papa!».
Krister guarda suo figlio, poi lo prende ed esce di casa, lo carica in auto e corre all’ospedale.


Andrà tutto bene.
Non è successo niente.
Voi non capite. Voi non capite.
Cosa avrei dovuto fare?

La corsa in ospedale. Istanti e istantanee di una giornata che non è nient’altro che una discesa libera nell’abisso di un’anima di un uomo che ha ucciso a coltellate la moglie e che ha tentato di uccidere suo figlio. È davvero inquietante e tremendo vedere il volto di Krister sempre con la stessa espressione, che mantiene anche nei momenti in cui la tempesta emotiva raggiunge vette insostenibili.

10.6.21

Recensione: "Valley of the gods"

 

Questo film è in questi giorni nei cinema.
Forse è il più bel film che vedrete quest'anno in sala.
O forse il peggiore.
Lo scoprirete con l'ennesima non recensione:

"Rocco, al cinema c'è un film che dev'esse bellissimo. Se chiama Valley of the gods, c'ha una trama assurda ed è de un regista polacco, Majowski, Majewski, Maseski, cazzo ne so, mai sentito, ma è polacco voglio dì, il film è per forza bello, pensa a Zulawski, Polanski, Kieslowski o anche a Corpus Christi de un mese fa, i polacchi fan sempre film belli Rò. Cioè, a parte quando abbiamo preso quella sola con Cold War de quel Pawlikowski, Per il resto se i film son polacchi è na garanzia dai, cioè, è come quando le olive so greche o come se giocamo a ping pong da Tommaso e ad un certo punto arriva al locale un cinese e vole sfidacce. Pò esse anche senza braccia ma de sicuro è fortissimo a ping pong, io non ce giocherei mai contro, te lo dico, manco se giocasse con la racchetta in bocca tipo Stephen Hawking"
"Ok, spetta che controllo sul sito del Postmodernissimo"
"Ok"
"Sì, ho visto, lo voglio vedè assolutamente, te faccio sapè se posso domani"
"Vai, perfetto."

Ieri, interno notte, camera mia

messaggio su Messenger

"Ok per domani ce la fo, ci andiamo"
"Benissimo, poi decidiamo se andamo co na macchina o due"

Oggi.
Interno giorno, sempre casa mia
, entro a scatola chiusa su Letterboxd per vedè la media de sto film. M'aspetto almeno 4.
Media 2.5, insomma, fa veramente schifo.
La prospettiva de vedè una boiata al posto de un presunto capolavoro fa capolino, le medie non servono a niente ma, insomma, 2.5 è 2.5.
Che fo, lo dico a Rocco?
Non verrebbe sicuro, lui al cinema ce va solo per vedè solo i film belli, o almeno con quella speranza.
Allora decido de non diglielo.
Però me viene in mente de creà una "prova" sul fatto che io sapevo già che faceva schifo.
Allora commento in un post a caso qui nel blog.





Perugia, Via del Carmine, esterno notte, ore 21, all'uscita dal film.

"Rò, te devo dì na cosa, io lo sapevo che faceva schifo"
"In che senso lo sapevi?"
"Oggi a pranzo so andato a vedè la media e c'aveva 2.5, una merda"
"E perchè non me l'hai detto testa de cazzo?"
"In realtà in qualche modo te l'ho detto, ho fatto un commento sul blog, se te leggessi tutti i commenti lo avresti scoperto"
"In che senso?"
"Prendi il cel, te faccio vedè"
Lui prende il cel e vede questo

Sì, lo so che è la seconda volta che la metto ma stavolta sono sicuro la immaginate letta da lui

"No, ma te rendi conto che te non sei normale?"
"Lo so"
"La cosa assurda è che io credevo fosse un capolavoro"
"Lo so"
"E invece fa schifo"
"Lo so"
"Io non so come farai a facce na recensione"
"Infatti farò una non recensione, è l'unica Rò"
"E che ce scrivi?"
"Boh, ce scriverò che è uno dei film coi peggio dialoghi che ho mai sentito in vita mia, che ogni frase che dicono sembra tipo detta da Dio in persona ma non ne azzeccano una, che rendono gli Indiani d'America talmente ridicoli che io te lo giuro se fossi un Indiano d'America me taglierei i capelli e diventerei americano normale, che dentro ce mette cose bellissime e interessantissime come sto contrasto tra sti Navajo e sto grande magnate che glie sfrutta la terra, e anche quel concetto bello di verità e finzione, realtà e scrittura artistica, ma non c'è una, dico una, scena veramente azzeccata, saranno 30 sequenze messe a caso legate non se sa come tra loro, e il Navajo che butta una busta de sabbia su un bancomat, e quel telegiornale ridicolo commentato da quell'altro indiano che dopo ogni frase canta, così, per forza, come mettesse un punto, o madonna la scena con Hartnett che scavalca na parete co le PENTOLE de casa sua legate alla caviglia, tipo rito di iniziazione venuto male, oppure quando cammina come un tonto all'indietro, oppure l'indiano che fa sesso con la roccia, oppure la partita a tennis DENTRO la villa con questi che tirano la pallina bassa se l'inquadratura è bassa e tirano altissimo se l'inquadratura va sul soffitto, o quel bimbo nato sulle rocce col cordone ombelicale lungo 4 metri, o te che durante il film me dici "evidentemente c'è qualche usanza Navajo che noi non conoscemo" e io te rispondo "spero", perchè sarebbe l'unico alibi per salvà il film, oppure quella limousine lunga 3 km che sembra un serpente, oppure dio cristo la scena della CATAPULTA gigante, forse la più non sense degli ultimi anni cinematografici, che mettono na macchina su sta catapulta e poi la buttano di sotto, oppure il bambino che tipo La Spada nella Roccia non possono alzallo, oppure la STAMPANTE in macchina e tutta l'assurda scena dopo del controllo della "polizia", o quei 10 minuti che sembrano girati da Fellini o da Sorrentino, o meglio dal loro cugino incapace, con quei dialoghi che fanno sanguinà le orecchie, oppure madonna quando Malkovich SENZA MOTIVO prende la bottiglia d'acqua e se la preme in testa per 20 secondi, o le scene delle gabbie, forse le uniche metaforicamente salvabili ma che poi diventano ridicole anche loro o quel rito finale EGIZIO (te dimme che cazzo c'entrano gli egizi) , oppure Rò, spetta, che altro c'era? Rò? Rò? ma do cazzo sei andato, stavamo a dialogà e sei fuggito? Oddio, è vero, ho parlato sempre io, mortacci mia. Ròòòòòò??????"

"Eccome, non ce la facevo più sia de ascoltatte che de ripensà a sto scempio. Però ora tutte le cose che hai detto le scrivi a casa eh"

"Boh, vabbeh"

"Cioè, è talmente assurdo sto film che ce manca solo che alla fine c'è un bambino Navajo che diventa Godzilla e distrugge tutti i grattacieli de Los Angeles"

"Rò, c'era, finiva davero così"

"Oddio, ma davero? non l'ho sognato?"

"No, giuro"

"Ascolta, magnamo che è meglio"

"Sì, magnamo via"




5.6.21

Recensione: "The Father" - Passeggiate, il cinema della poesia - 16 - di Roberto Flauto

 

Ho visto questo film a Napoli con Roberto (grande amico ed eccezionale cicerone di questa meravigliosa città).
Io appena tornato in albergo volevo scriverne la recensione ma poi, senza nemmeno saperlo, ho acceso il pc e scritto di getto tutta un'altra cosa, certo qualcosa che col film c'entra molto ma che del film dice veramente niente.
Allora, visto che comunque Roberto qui nel blog ha una rubrica, gli ho chiesto se la recensione "vera" voleva farla lui.
Ha accettato.
Ovviamente manco la sua è tanto normale, nel suo stile.
Ma bellissima.
Vi lascio a lui
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Il mio ritorno al cinema.
Con Giuseppe, amico prezioso.

La finestra è in realtà uno specchio.
Lui osserva sé stesso nel mondo.
L’albero si agita con insostenibile leggerezza.
Le sue foglie, le sue voglie, i suoi desideri, i suoi bisogni, i suoi ricordi, i ricorsi, i rimorsi, i morsi della fame di abbracci, di mani sulle guance, di riconoscere e di essere riconosciuto, di sentirsi a casa nell’universo, di sentire l’universo espandersi, di essere parte del cosmo che giace sulle labbra di una figlia che bacia suo padre tra le lacrime, perché le ha chiesto “e tu chi sei?”.
Lui osserva quell’albero e si riconosce. Si appropria di quel riflesso. Di quei rami, di quelle foglie accarezzate dal vento. Ma il vento della sua vita è ormai tempesta. Quel fragile e delicato castello di carte che è l’identità si trova immerso in una bufera che conduce all’inevitabile oblio.
Raffiche su raffiche di entropia.
Disordine su disordine.
Oscurità dentro oscurità
Ma a fare più male sono i piccoli sprazzi di luce.
La speranza è sempre il male più atroce per un condannato a morte.
La promessa dell’alba è la sofferenza più grande per un condannato a notte.
E lui si trova in una notte senza fine, senza inizio, senza niente.
Uno stordente buio, nel quale però ancora palpita il cuore di uomo capace di sognare l’aurora.

L’identità umana è narrazione.
Siamo storie, in ogni senso.
E tutto il mondo è palcoscenico, come dice Jacques in uno dei monologhi shakespeariani più suggestivi. Siamo attori che recitano mille parti, entriamo e usciamo continuamente di scena. Interpretiamo ruoli, indossiamo maschere (il solo modo possibile per esprimere la propria autenticità, per essere sé stessi nel modo più vero).

«L’ultima scena infine, a chiuder questa strana storia,
piena di eventi, è la seconda infanzia.
Il mero oblio.
Senza denti, senza occhi e senza gusto.
Senza niente».

L’Alzheimer è il tramonto dell’io, l’eclissi totale del sé, la morte dell’identità, perché l’identità dell’individuo si definisce nei rapporti con gli altri. Se lui fosse vissuto in mondo senza persone non sarebbe stato malato, perché non avrebbe avuto nessuno a cui raccontare sé stesso. Ma ora invece c’è sua figlia che gli tiene la mano, è appena tornata da Parigi, e piange mentre pensa che suo padre dimenticherà questo gesto, il suo volto, il colore dei suoi occhi o di quella volta che da bambina le aveva insegnato come cucinare il pollo.
È nelle relazioni con gli altri che ognuno di noi edifica sé stesso. Nessun uomo è un’isola, come diceva John Donne. Ma adesso lui è un atollo, e di tanto in tanto il mare lo sommerge completamente. Smarrito, solo, privato anche della sua stessa presenza. «Sarei anche più solo senza la mia solitudine» recita un verso di Emily Dickinson. Ora lui ne è privo. Un naufrago alla deriva nell’oceano sconfinato di una storia che non gli appartiene più.

E poi arrivano quegli istanti di realtà, di luce, di apparente lucidità, che fanno più male dell’avanzare inesorabile dell’estinzione. Perché mi ricordo che non ricordo e so di sapere ma non so cosa, dimentico di dimenticare che non riesco a ricordare. Fa male. A me, a mia figlia, ai miei cari. A quell’uomo, vecchio e stanco, che vedo riflesso alla finestra che affaccia sul giardino. Lo riconosco: è un albero. E sta perdendo le foglie. Ho paura. Sono terrorizzato, non capisco cosa succede. Ieri avevo dodici anni, giocavo nel vento. E mi ricordo di mia figlia, di quell’incidente, perché mi brucia il cuore? Chi sono questi estranei al mio fianco? Voi forse non lo sapete, ma io sono un grande ballerino. Come faccio a sapere che ore sono senza il mio orologio? A Parigi parlano solo francese. E i corridoi della casa, i corridoi della mente, un lento sparire, un intrecciarsi di trame sempre più intenso, irreversibile, come un fiore che sboccia dentro un temporale, che appassisce in primavera, come questi occhi che mi guardano e mi vogliono bene, ma non so a chi appartengono. Io non sono qui.

Lui è Anthony. Un albero, una finestra, un bambino impaurito che chiama la mamma, un uomo alla fine dei suoi giorni, un riflesso di quello che una volta era stato. Lui, uomo alla deriva nel maelstrom della demenza, è l’unico personaggio di cui non dubitiamo mai. Di tutti gli altri non siamo mai certi. Noi assumiamo la sua prospettiva. I volti si confondono. Il mondo crolla pezzo dopo pezzo, il cosmo in corrosione ingloba ogni secondo che passa (e che non passa mai). Perché il tempo accelera e si cristallizza, l’eternità si fa istante e l’attimo dura per sempre.

Lo spettacolo della vita continua, è ancora in corso, ma sul suo palcoscenico è già calato il sipario. E il retroscena, per un crudele gioco del destino, arriva sulla scena. L’Alzheimer comporta anche questo. La dissoluzione del sé e la frammentazione della memoria si accompagnano spesso al disfacimento delle dinamiche sociali, delle regole non scritte, delle tacite convenzioni, ovvero il collante sociale. E anche se non viene mai lasciato solo, il malato viene lasciato solo anche da sé stesso. Fantasmi di carne.

Provo a ricordare ogni cosa, ma tutto sfuma, scivola via, tutto è opaco, in frantumi, e i frammenti si intrecciano in una danza che non riesco a capire.
Identità. Memoria. Corpo. Tempo.
Chi sono? Che ci faccio qui? Dov’è il mio orologio?
Sento le foglie che cadono una dopo l’altra.
Ma sono in gran forma, ve l’ho detto che sono un grande ballerino?
Come lo spazio bianco tra le vignette, gli sprazzi di luce sono istanti che separano tasselli di quel mosaico impazzito che è la vita. Tutto ciò che vorrei è dimenticare di aver dimenticato. E finalmente vivere come la libellula o la rugiada: senza alcuna identità.

Lo specchio è in realtà una finestra.
E io osservo lo sconosciuto che compie i miei stessi gesti.
Chi sono questi sconosciuti che mi stanno accanto?
Lei dice di essere mia figlia, ma io so che non è lei.
Ma taccio. Il suo palmo sfiora il dorso della mia mano.
Chiudo gli occhi, forse sorrido, qualche lacrime mi riga le guance.
Raccontatemi la mia vita. Ditemi chi sono, prima ancora di dirmi chi siete.
Fallo tu, bambina mia. Chiunque tu sia, sei l’amore.
Voglio che sia tu a condurmi in questo altrove.
Mani nelle mani.
Domani nel domani.
Amore.
Mio.

3.6.21

Recensione: "The Father - Nulla è come sembra"

 

No, non è una recensione.
Scusate.

Mi ricordo quando mio fratello, da piccolissimi, mi buttò giù per le scale, tanto che ancora ho un labbro inferiore un pò più grande del normale.
Mi ricordo di quando uscivamo alle 3 per giocare a pallone e tornavamo alle 9 di sera.
Mi ricordo di quando andai in cantina a piangere dopo aver assistito ad una lite furiosa dei miei.
Mi ricordo di alcune umiliazioni che ho subito a scuola e di alcune umiliazioni che ho dato a qualcuno a scuola.
Mi ricordo che l'11 settembre mentre cadeva la prima Torre Gemella stavo facendo lezione di tennis, ricordo che non mi fecero smettere, che ancora quello che stava accadendo al mondo non era chiaro.
Mi ricordo alla rinfusa un goal bellissimo che feci in campionato e il portiere avversario che mi corre incontro e, incredibile, mi dà la mano.
Mi ricordo quando abbiamo vinto tornei di calcetto noi 4 fratelli in squadra tutti insieme.
Mi ricordo tutti i cani che ho avuto e quasi tutti i gatti che ho avuto, mi ricordo di quando Beniamino mi è morto in braccio mentre, disperato, lo stavo portando a salvarsi.
Mi ricordo tutti i miei amici, quelli che sembravano gli amici del cuore in ogni periodo della mia vita ma che poi, inevitabilmente, sono scomparsi, e tutti quelli che invece ci sono da sempre, e tutti quelli nuovi avuti questi anni.
Mi ricordo il mio matrimonio, mi ricordo tanti anni passati con una grandissima serenità.
Mi ricordo poi una storia impossibile e distruttiva, un'altra che non ho voluto vivere e un'altra ancora, l'ultima, con Ali, talmente bella, forte ed intensa che forse ci ha trovato ad un certo punto impreparati, travolgendoci.
Mi ricordo quando è nata Ginevra, il momento più incredibile, bello, stordente, annichilente e assoluto della mia vita, con quel corpicino grigio di placenta e quel viso che era il mio.
Mi ricordo quasi ogni cosa ho vissuto da quel giorno con lei.
Mi ricordo tantissimi piatti che ho mangiato in vita mia, da quelli di questi giorni a Napoli ad altri persi in decenni scorsi.
Mi ricordo tutte le volte che ho fatto piangere qualcuno ma poche di quando hanno fatto piangere me. Perchè sono le prime quelle che voglio ricordare, sono le prime che mi devono far crescere.
Mi ricordo le tre volte che ho rischiato di morire, due per eventi esterni e una perchè volevo farlo.
Mi ricordo una quantità di piccole gioie e piccoli dolori che potrei scriverne libri.
Mi ricordo l'esame di maturità con io che dico "umanitario" al posto di "umanesimo", con il presidente di giuria che mi sfotte e mi dice che è meglio smetta di studiare.
Sbagliava.
Mi ricordo tante risate con amici, mi ricordo il sesso, mi ricordo i numeri di telefono di tanti, mi ricordo i visi di quasi tutti, mi ricordo quasi tutti i film che ho visto, tanto amo viverli.
Mi ricordo di quando ruppi il ginocchio e mi vidi 14 ore di Olimpiadi al giorno fermo a letto, di quando mi lesionai la caviglia a Torino in un modo tanto ridicolo che è meglio non dirlo, di tutti gli strappi e stiramenti avuti a tennis per la mia mania di non scaldarmi.
Mi ricordo tutte le volte che ho camminato a due metri da terra per quanto ero innamorato e di tutte le volte che per il motivo opposto mi sono sentito morire.
Mi ricordo tante volte di quando sono riuscito a far ridere le persone, una cosa bellissima.
Mi ricordo pochissime vittorie a tennis (che son state la maggior parte) ma quasi tutte le sconfitte, perchè tutte le mie migliori partite sono state sconfitte con giocatori più forti di me.
Mi ricordo i lavori che ho fatto, da quelli bellissimi a quelli che hanno rischiato di uccidermi psicologicamente.
Ovviamente i secondi son più importanti.
Mi ricordo quasi tutte le città che ho visitato, in Italia o all'estero.
Mi ricordo le poche volte che mi sono sentito veramente realizzato nella vita.
Mi ricordo i miei nonni, come potrei dimenticarli.
Mi ricordo continuamente quanto più la vita mi mette alla prova più credo di amarla, più penso che da domani sarà tutto bellissimo.

Mi ricordo tantissime altre cose.
E per questo non voglio un giorno dimenticarmi come si mette un maglione, dove si ripone una forchetta, dove ho messo l'orologio.
E per questo non voglio dimenticarmi un giorno il nome dei miei cari.
Non voglio dimenticare chi sono e chi ero.
Non voglio perdere ricordi come fossero foglie portate via dal vento

Recensione: "Sulla Infinitezza"

 

Avete mai visto un film di Roy Andersson? Ecco, se avete visto almeno uno della Trilogia sull'Essere un Essere Umano e l'avete amato allora andate al cinema a vedere anche questo.
Perchè sì, alla fine questi 4 film del regista svedese sono un unico grande e lungo film.
Le solite inquadrature ferme, nessun movimento di macchina, le sue composizioni di messinscena che sono veri e propri quadri, i suoi colori pastello tenui e smorti, i suoi personaggi malinconici, inermi ed osservatori, la sua ironia.
Ma in questo ultimo capitolo, forse, c'è una chiave di lettura diversa (oltre che 3-4 aspetti del tutto nuovi), ovvero il racconto dell'esistenza di ognuno di noi, da bambino alla morte.
Intervallata da sequenze della Storia tout court.
Cinema non per tutti, lo capisco, ma questo regista resta uno dei più unici del pianeta, forse addirittura il più riconoscibile (l'unico di cui basta un'inquadratura e dici che è lui).
E forse la visione ironica e spietata del mondo di Andersson non è così radicale.
Magari basta che fuori nevichi.
"Non è comunque fantastico?"

Quarto film che vedo del mio amatissimo Roy Andersson.
Non faccio nessuna forzatura nel dire che, in realtà, la Trilogia sull'Essere un Essere Umano (You, The Living, Canzoni dal secondo piano, Il Piccione) e quest'ultimo Sulla Infinitezza non sono altro che un unico lunghissimo film, talmente uguale a sè stesso da confondere le scene di uno con quelle dell'altro, semplicemente una parte 1, 2, 3 e 4 di un unico progetto.
Forse, se vogliamo, questo potrebbe essere il difetto dei film di Andersson, ovvero questo ritrovarsi davanti sempre la stessa cosa (credo che nessun regista abbia mai girato 4 film così simili tra loro nella storia).




Ma, scusate il paradosso, questo è anche il merito di Andersson, ovvero la sua riconoscibilità, il suo aver creato questo tipo di cinema quasi unico e l'incredibile perseveranza di portare avanti un progetto praticamente durato 20 anni precisi.
Non so, ma sia per il titolo che per le tematiche de Sulla Infinitezza ho la sensazione che questo sia il suo ultimo film, o meglio il suo ultimo film girato in questa maniera.
Quale maniera?
I suoi campi fermi (veri e propri quadri), le sue statiche inquadrature una più bella dell'altra, i suoi personaggi stanchi, assurdi, malinconici ed emaciati, i suoi straordinari colori pastello (ad un certo punto nella bellissima sequenza del treno e della donna che aspetta se guardate bene il trolley della ragazza vedrete che è a scacchi di diversi colori, ecco, quella è praticamente la tavolozza di colori che usa Andersson nei suoi film).
Non so se l'ho mai detto prima (credo di no) ma mi sono accorto l'altro ieri che in qualche perverso modo possiamo unire il tipo di cinema di Roy Andersson (con due s) a quello di Wes Anderson.
Entrambi usano colori pastello, anche se lo svedese tutti su toni tenui e smorti del bianco, del grigio e del marroncino, mentre l'americano i più vivi possibili.
Ed entrambi costruiscono le proprie scene principalmente con inquadrature ferme.
Ma mentre Wes è un maniaco della centralità e delle proporzioni perfette i "quadri" di Andersson sono formati sempre da disarmonie, da rapporti degli spazi non perfetti, da linee sghembe, da tantissime diagonali e da strade in curva (Wes userebbe sempre dei rettilinei).
Io preferisco quest'ultime 100 volte.
E, chi mi conosce lo sa, è incredibile che in quel tripudio di colori e di personaggi esagerati dei film di Wes io trovi meno "vita" che nei malinconici zombie di Andersson che vivono quei luoghi tristi ed anonimi.
In ogni caso la caratteristica dominante dei film di Andersson è quella per cui in ogni singola scena c'è qualcuno che osserva. Sempre. O una singola persona, o più persone, o tante persone osservano qualcosa (di solito altre persone).
Questo suo modo di raccontare l'umanità come spettatrice inerme delle cose è grandiosa.
Quasi mai nessuno interviene, l'osservazione è sempre assoluta (ed insistente, nessuno toglie mai lo sguardo) ed inerme.
Tanto che nella scena del mercato del pesce, quando due osservatori intervengono per sedare la litigata ci troviamo d'avanti ad un atto vitale quasi unico nei film dello svedese.
Come quasi unico è l'unico movimento di macchina, la lentissima panoramica (talmente lenta che siamo ai confini della camera ferma) sulla città bombardata, magnifica.
Una scena apocalittica, in tutti i sensi, sia per quello che mostra sia per quello che rappresenta nel cinema di Andersson.




O come unica (sempre riferendomi a tutti e 4 i film) è la scena (bellissima) delle 3 ragazze che cominciano a ballare davanti ai marinai. Credo sia l'unica scena in 7 ore di film (4 film) veramente vitale, bella, non malinconica che io abbia visto in Andersson.
E non è un caso che venga dal mondo adolescenziale, quello dove ancora è possibile essere felici, ballare, provare emozioni nuove (a tal proposito infatti c'è anche la scena del ragazzo che si ferma davanti alla vetrina della ragazza - "ho visto un ragazzo che non aveva ancora mai conosciuto l'amore" - dirà la splendida, ancorchè volutamente didascalica, voce fuori campo - .