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30.12.24

Recensione: "The Hunt" - Su Netflix


Divertentissimo, dissacrante, politicamente scorrettissimo e, a suo modo, molto intelligente, The Hunt è probabilmente una delle meglio cose che potete trovare su Netflix, almeno riguardo il genere.
Un gruppo di Elite rapisce 12 persone e li porta in una zona rurale.
Per far cosa?
Per cacciarli e ucciderli.
Il motivo? lo scoprirete.
Film geniale, pieno di ritmo, personaggi riusciti, situazioni paradossali, e che racconta quasi meglio di un documentario questo strano mondo di oggi in cui moltissimi si fingono pieni di valori, tolleranti, ecologisti, ambientalisti, inclusivi, moralmente eccezionali per poi essere, invece, persone terribili capaci anche di uccidere e avere controvalori molto peggiori dei (finti) valori positivi posseduti.
Non manca anche una mordace critica ai complottisti che quasi mai hanno ragione, a volte ce l'hanno e altre volte hanno talmente tanto torto da far venir voglia che il complotto, poi, esista davvero.
Tante morti (ma il film è divertente) colte citazioni (Orwell, Esopo), una miriade di situazioni e personaggi simbolo dell'ipocrisia di cui ormai il mondo social di oggi trabocca.
E una grande protagonista, deliziosa e insopportabile.
E una Hilary Swank memorabile e bellissima.
Oh, per me questo è una perla.

PRESENTI SPOILER !!

Ok, questo è una bomba (e che ci sia dietro Lindelof poteva essere già un segnale).
The Hunt è un film dissacrante, intelligente, divertentissimo, politicamente molto scorretto e che sa sorprenderti più di una volta.
Ecco, ho scritto "politicamente" perchè è abbastanza ovvio come il film, in quel senso, racconti gli Stati Uniti, i suoi diversi credi e i suoi partiti. Ma, come sapete, essendo pochissimo esperto dell'argomento non mi lancio in nessuna analisi in tal senso, preferendo quelle più "antropologiche" e sociali.

Un gruppo di elite (avvocati, imprenditori etc...) rapisce 12 persone (per motivi che vedremo) e li porta in una zona rurale.
Per far cosa?
Per divertirsi a dargli la caccia e ucciderli.
E sì, il film come schema (il luogo aperto, le armi, la caccia, le classi sociali) ricorda un sacco Hunger Games ma con una storia e un mood completamente diversi.
Per quanto mi riguarda lo dico da subito, The Hunt ha tante qualità e difetti praticamente zero, ovviamente sempre restando nel suo genere, quello dell'intrattenimento, anche se qua molto più caustico e "intelligente" del normale.
Funziona da morire l'incipit, sia nell'aereo (nel quale avvertiamo questa "misteriosa" presenza della leader) sia i primi minuti nella foresta.


Ed è bellissimo come in 3-4 minuti muoiono uno dopo l'altro i personaggi che, ci avremmo scommesso, sarebbero stati i protagonisti assoluti (quando poi vedi Emma Roberts morire per prima ti gasi, capisci subito che è un film fuori dagli schemi).
Con la ragazza divisa a metà che poi muore nella stessa buca da cui era uscita capisci subito che anche il mood sarà quello di "divertiamoci insieme", mood che in film come questo è perfetto, non come in altri in cui rovina tutta l'impalcatura.
Il punto più forte di The Hunt, però, è il suo "messaggio" o tematica principale, ovvero il mordace racconto dell'ipocrisia galoppante nel mondo moderno.
Il film ti spiazza perchè ti mostra come i cattivi (i "ricchi") siano in realtà quelli dai buoni sentimenti e dai grandi valori.
Ma lo fa in una maniera così esagerata e parossistica che capisci subito quanto quella che viene raccontata è solo una grandissima ipocrisia, quella del "io ho dei grandissimi valori" ma poi, in realtà, sono un pezzo di merda che uccide gente innocente.
Così i ricchi (bianchi) tremano solo all'idea di dire o sentire "negro" ("non dire quella parola che inizia per "n" "), sono contro l'aborto, cercano di non dire "ragazzi", con la "i", perchè parola non inclusiva, sono salutisti (magnifica la scena del vecchio che pensa di aver ingerito il veleno che loro stesso avevano messo nelle bibite ma in realtà la moglie gli parlava della quantità di zucchero), vegani, ambientalisti, criticano gli altri anche solo per l'indossare un kimono ("è appropriazione culturale!") e addirittura preferiscono morire piuttosto che essere risparmiati in quanto donne (per la "parità dei diritti").
Il film è in questo straordinario, ogni battuta o ogni azione di questa elite che uccide in nome dei valori è perfetto specchio del mondo di oggi, specie social (e il film ha grandissimi legami coi social network, anzi, le vittime vengono scelte in base a quello che hanno detto o fatto nei social) dove tutti tendono a mostrarsi belli, virtuosi, inclusivi, tolleranti e illuminati ma in realtà la maggior parte delle persone resta meschina, cattiva, non empatica e sfrutta la propria posizione di potere per schiacciare gli altri.
E il film si basa totalmente su questa ipocrisia, su questa maschera, su questo discernere cosa è vero e cosa non lo è, e lo fa anche attraverso due citazioni.
Una è quella de "La fattoria degli Animali" di Orwell (che i ricchi probabilmente - e anche qui il film è geniale nel mostrare l'analfabetismo funzionale di tanti - travisano completamente, chiamando Palla di Neve, in senso dispregiativo, la loro "vittima" più importante - la protagonista del film - dimenticando che quel personaggio è semmai simbolo positivo di quello che vorrebbero essere loro) mentre l'altro è un ampliamento de "La lepre e la tartaruga" di Esopo, favola che qui si conclude col massacro, da parte della Lepre, di tutta la famiglia della Tartaruga, Tartaruga compresa.
Chi è quindi Palla di Neve nel film, loro o lei?
E chi la Lepre e chi la Tartaruga?
Su questo il film pone l'accento, su questo scambio delle parti per cui chi vince è chi perde, chi perde è chi vince, chi è buono è il cattivo, chi è il cattivo il buono.
Ed è talmente tutto surreale e non intellegibile che si arriva ad altri due paradossi.
Il primo è che, si viene poi a scoprire, questa "caccia" FORSE in realtà nemmeno esisteva ma proprio perchè i "complottisti" (generalizzando così possiamo definire il gruppo delle vittime) fossero certi della sua esistenza allora il gruppo d'elite, che per colpa di quel sospetto aveva avuto grandi svantaggi (si era creato un caso mediatico) decide di inventarsela davvero, di farla davvero.
Insomma, i complottisti credono in un complotto così grande e, con la loro stupidità, fanno un danno così enorme che quel complotto lo facciamo diventare reale.

E Palla di Neve, lei, era veramente la donna che cercavano?
E quella fattoria in Croazia è stata acquistata per la caccia o la Swank l'aveva presa per sè?
Il film ti pone mille quesiti ma non per regalare mistero o divertirsi con lo spettatore ma proprio per raccontare la ridicolaggine del mondo che viene mostrato, quello dove ogni frase, ogni azione, ogni battaglia, ogni valore di chicchessia (specie se gridato al mondo) può essere clamorosamente smentito, "debunkato", smascherato.


 Non esistono personaggi "puliti" nel film, sono tutte persone a loro modo ridicole.
Tra le scene da ricordare tutta quella nella "finta" stazione di servizio coi due anziani (le maschere a gas, il massacro, le battute sui negri, quella sul resto delle sigarette), quelle dei clandestini e dei militari croati (che ridere quel complottista razzista che alla fine aveva ragione sul fatto che l'altro fosse veramente un finto clandestino - a rimarcare quello più volte detto, il politicamente scorretto del film e questa doppia faccia di tutti i protagonisti), il cameo del grande Macon Blair (attore feticcio di Saulnier e ottimo anche come regista), il massacro "militare" che fa lei di tutti i ricchi nella baita, il flash back nel quale scopriamo le assurde motivazioni alla base di tutta la caccia e poi l'incredibile contro finale con la Swank.
(che è molto più bella adesso che da ragazza) attrice che è stato un piacere per me ritrovarmi avanti dopo tantissimi anni.
Questo scontro è gustosissimo, coreografato alla grande, comico nelle armi usate (vedi il mixer) o in alcune dinamiche (il tuffo per salvare il milionario champagne) e lunghissimo, tanto che mi ha ricordato quelli, indimenticabili, tra Peter e il Pollo. 


E quell' "ops" finale quando Crystal (la nostra protagonista) rivela alla Swank di non essere la persona giusta (ma quasi sicuramente lo era, è stata solo una battuta cattiva finale per far morire l'altra facendola credere di aver scazzato tutto) è davvero tanta roba.
A proposito, la protagonista è un altro dei plus del film.
Faccia da schiaffi, stronza, cinica, al tempo stesso insopportabile e deliziosa, vero manifesto di questo film così tanto double-face in ogni aspetto.
E quel finale quando lei entra nell'aereo vestita di tutto punto (impagabile la faccia della hostess) e si sbafa insieme a lei di caviale e champagne (in questo ribaltamento di ruoli sociale riuscitissimo) è la degna conclusione di un film che, per me, nel suo genere è una piccola perla.

7.5 / 8 - -

10.10.24

Recensione: "Il Buco - Capitolo 2" - Con molte letture personali per ogni vostro dubbio, probabilmente sbagliate

 

Dopo non so quanti mesi (sì, lo so, 3) torno a scrivere un film.
Ci tenevo a parlare di questo secondo capitolo de Il Buco, film che amai moltissimo avendo avuto la fortuna di vederlo in anteprima a Torino.
Era quasi impossibile restare al livello del primo, non foss'altro perchè non c'è più l'effetto meraviglia-sorpresa della location e delle dinamiche della Fossa (due degli elementi che rendevano "grande" il capostipite).
Quindi il senso di deja vu era abbastanza scontato ma forse si è andati anche troppo oltre in quanto a ripetitività :)
E, altro difetto, Il Buco 2 è troppo caotico, confuso, di quella confusione che più che stimolare fa innervosire.
Eppure, in qualche modo, resta un esperimento riuscito, un bel film - spietato, cinico, violento e con una grande protagonista - che spiega alcuni passaggi del primo ma crea, paradossalmente, ancora più domande.
In questa recensione provo a darvi qualche risposta, le mie risposte.
Risposte, citando Guzzanti, probabilmente sbagliate.

Non so che futuro avrà questo blog visto che ormai da mesi, mesi e mesi l'ho quasi abbandonato.
In realtà non c'è nessuna motivazione in particolare di questa pausa nè alcuna voglia di chiuderlo.
Probabilmente è solo "stanchezza" mentale, e dopo 15 anni ci sta :)
Comunque sono ottimista e ogni volta mi dico "dai che riprendo", per poi non farlo.
Quindi boh, i problemi della vita sono altri, vediamo che succede e intanto dopo 3 mesi scriviamo un nuovo film (nel frattempo ne ho accumulati tipo 25 visti e non recensiti, mannaggia).

E' che io a Il Buco son legato.
Visto in anteprima al TFF di Torino, folgorò quasi tutti.
Ma nessuno di noi si sarebbe aspettato che quel piccolo film - visto di straforo - poco più di un anno dopo potesse finire su Netflix e divenire - con merito - un successo planetario.
Successo planetario talmente grande che - credo - sia alla base della scelta di voler fare questo sequel (coff coff coff).
Era necessario?
Boh, non credo, pochissimi sequel sono necessari (a meno che ovviamente non ci troviamo davanti ad una saga concepita come tale o a film tratti da una serie di libri).
Però, ecco, secondo me come idea ci stava anche se ora andiamo a vedere, però, cosa ne è venuto fuori :)



Cominciamo col dire che era quasi impossibile che il secondo capitolo stesse ai livelli del primo.
E questo non tanto per la bellezza del primo (opinabile, ovviamente) ma perchè un merito quasi "oggettivo" di quel film era il catapultarci in un immaginario originalissimo, nuovo, strano, affascinante e perturbante.
Ecco, anche i detrattori del Buco 1 sicuramente non potranno non riconoscerne il fascino dell'ambientazione e del concept.
Ci troviamo quindi in una location identica (e quando dico identica intendo identica), con dinamiche già viste, con passaggi narrativi già visti.
Insomma, potevano anche fare i salti mortali nella sceneggiatura del 2 ma comunque avrebbero perso in partenza, qualsiasi cosa avessero scritto avrebbe avuto il sapore del già visto.
Ecco, fossi stato in loro io avrei inserito cose fuori dalla Fossa, tipo qualche flash back dei protagonisti, del perchè arrivano al colloquio per entrare, o magari la storia di un cuoco del mega ristorante in cui si cucina tutto, o quella di uno dei Creatori, o qualsiasi cosa avesse potuto farci uscire di lì.
Se ci pensate in due film così completamente dentro La Fossa sarebbe stato paradossalmente il mondo di "fuori" a creare shock e destabilizzare.
Insomma, per me ambientarlo tutto dentro al Buco mi ha dato una sensazione non solo di già visto (riferendomi al primo) ma anche di ripetitivo (riferendomi alle dinamiche, alle azioni).
Quindi, la domanda da porci è una, "hanno fatto qualcosa gli sceneggiatori per darci qualcosa di diverso"?
Mmm, sì, ma troppo poco.
Due secondo me le cose più interessanti.
La prima è regalarci un film che per 45 minuti ci dà la sicurezza di essere un sequel (chi di voi non ne era sicuro? chi di voi quando parlano del Messia non ha pensato che si riferissero al personaggio principale del primo? ) per poi, con l'apparizione "sorprendente" di Trimagasi (il "vecchio" del primo) farci capire che tutto quello che stavamo vedendo era un "prima".
Un prequel insomma.
Ecco, sta cosa mi è piaciuta moltissimo.
E, se ci pensate, cambia anche la lettura del film.
Perchè questo nuovo elemento della Legge secondo la quale ognuno doveva mangiare solo il proprio piatto fino a quel punto eravamo sicuri fosse stata maturata dai carcerati (aka, l'Umanità in senso lato) dopo mesi e mesi (anni?) di creazione della Fossa (o comunque dopo le vicende del primo), e invece no, e invece questo tentativo di creare un metodo che potesse salvare tutti era un qualcosa di tentato all'inizio e che poi fallirà miseramente (già in questo Capitolo 2 e, ovviamente, nell'intero primo capitolo).
Non abbiamo assistito quindi ad un'Umanità che ha provato a migliorarsi e salvarsi (fosse stato un sequel sì) ma, al contrario, al manifestarsi di una barbarie sempre più selvaggia.
Ovviamente anche questo nuovo film ha molte letture sociali o sociopolitiche.
E' interessante soprattutto il concetto per cui non per forza il creare e far seguire una Legge equa (e sì, quella di "ognuno il proprio piatto" lo è al massimo) corrisponda al mettere dalla parte dei buoni chi la segue, dei cattivi chi non la segue.
Anzi, nel film alla fine saranno proprio gli Unti (ovvero i carcerati che hanno avuto la fortuna di "vivere" il Messia) e i Lealisti (quelli che li seguono ed applicano la Legge) a rivelarsi come i mostri (o i villain) di questo microcosmo.
E' interessante, dicevo, perchè dimostra come le leggi vanno applicate sì, ma se non si ha l'elasticità di capire le trasgressioni nei momenti del bisogno (mi vengono in mente quei poveretti che rubano il pane nei supermercati) o comunque tali leggi le si fanno rispettare attraverso il Terrore, le punizioni e le torture, nessuna Legge, de facto, è più importante, visto che viene surclassata dalla disumanità.
E vedere quei lealisti che amputano teste e braccia, che mutilano, che uccidono, che seviziano, è senz'altro uno degli elementi più forti del film ma anche uno dei più interessanti perchè, appunto, generano discorsi etici non banali.
Del resto viene proprio detto "il Terrore è il Messaggio", citando, mutatis mutandis, "La Panna Cotta è il Messaggio" del capostipite.
Ora, prima di andare a dare qualche interpretazione ai punti più oscuri del film due cose al volo.
Il Buco 2 è un passo (e mezzo) indietro al capostipite.
Intendiamoci, non aveva chances (vedi discorso introduttivo) ma ha anche difetti congeniti.
E' un film molto confuso, di quella confusione che non ha il fascino della complessità (cosa che adoro) ma la frustrazione e incazzatura di quando vedi cose spiegate male, narrate male, non chiare.
Una nottata a pensarci mi ha portato, credo, a capirlo tutto ma la sensazione che il film fosse caotico rimane, e quello che si vive durante il film è sempre la cosa più importante.
Anche tutte queste persone che si dividono tra Unti, Lealisti e Barbari (cambiando anche spesso le parti manco fossero politici italiani) è sicuramente un metodo in sceneggiatura di creare un gioco delle parti che, però, mica riesce tanto.
Chè a volte lo spettatore manco capisce il dato personaggio da che parte sta, quelli che arrivano da sopra da che parte stanno, quelli che si troveranno sotto lo stesso.


Mi è piaciuta moltissimo lei, la protagonista, bellissima, espressiva, perfettamente capace di restituire la complessità del personaggio.
Mi è piaciuto, come detto, questo split del passaggio da sequel a prequel.
Mi sono piaciuti altri attori e/o personaggi.
Mi è piaciuta la violenza.
Mi è piaciuta, ovviamente, la location, specie questa ormai iconica tavola imbandita, metafora di tutte le risorse che l'umanità ha per sopravvivere, troppo spesso mal distribuite, distrutte o non rispettate.

2.4.24

Recensione: "Spaceman" - Su Netflix

 

Un film straordinario che purtroppo (perchè in sala tantissimi lo avrebbero consacrato come uno dei film dell'anno) e per fortuna (perchè almeno lo si può vedere sempre) è uscito solo su Netflix.
Jakub va in missione spaziale per analizzare una misteriosa Nube Viola che da anni è visibile dalla Terra.
Un viaggio di un anno, completamente solo.
Finchè nella navicella non entra un "invasore".
Film esistenziale, di quelli che non smetterei mai di vedere.
Un'opera che racconta in un modo originale e commovente di come a volte l'unica salvezza sia guardare dentro sè stessi.
Riscoprendo quello che siamo, quello che ci fa stare bene, i sentimenti che proviamo.
E che ci fa capire che a volte per riconquistare l'Amore bisogna tornare al Principio.
Principio che non è un luogo dietro di te ma, al contrario - in un sorprendente paradosso - un luogo da raggiungere.
Davanti a noi.



 Con me, Spaceman, vince facile.
Questi sono i film che cerco e amo di più, quelli che nascondono l'esistenzialismo sotto un vestito di genere.
Film che i bugiardini ti vendono come fantascienza, o come horror, o come commedia o con qualsiasi altra etichetta possibile ma che hanno invece a cuore qualcos'altro, qualcosa di più grande che un'appartenenza a un genere.
Sono film che raccontano noi, le nostre vite, le nostre mancanze, i nostri dolori, i nostri amori, le nostre aspirazioni, le nostre solitudini.
Sono i film più belli.
E per me poi che non amo la fantascienza tout court, quella degli effetti speciali, quella delle navicelle che volano e sparano, quella degli attacchi alieni, quella fracassona e spettacolare, ecco, ringrazio sempre film come Spaceman per dare la possibilità anche a me così lontano da questo genere di poterlo amare.
Film come Signs, come District 9, come Non Lasciarmi, come Her, come Mr Nobody, come Another Earth, come Ex Machina e tanti altri che sono sì film di fantascienza ma anche, e principalmente, opere su di noi esseri umani.
O Moon, lo splendido debutto di Duncan Jones, che, tra tutti questi qua, è forse il film che somiglia di più a Spaceman.
( Kubrick e capolavori del passato, al solito, non li nomino nemmeno)
Anche se in realtà il film che più me lo ha ricordato con la fantascienza niente c'entra, ma ne parleremo poi.



Jakub Prochazka, cecoslovacco, viene mandato nello spazio ad analizzare una bellissima e suggestiva "nube viola" che da anni è visibile dalla Terra.
Non si capisce bene cosa sia, tutto il mondo sta aspettando una risposta.
Jakub (un grande Adam Sandler) parte così per questa missione della durata di un anno, completamente solo.
E, attenzione, l'assoluta solitudine (una bambina in una videochiamata iniziale glielo dice "E' vero che sei l'uomo più solo del mondo?") è uno dei temi principali del film.
Perchè sarà proprio quella solitudine, così assoluta, "atavica" (lui è nello spazio) ed egoista ad essere il motore di tutto il cambiamento emotivo, psicologico e spirituale dell'uomo.
Jakub in più non riesce a dormire, questo viaggio così stressante, questa lontananza dalla Terra, la mancanza di notizie dalla sua compagna incinta a alcuni nodi "interni" che deve risolvere lo portano a questa condizione fisica e metafisica di grandissimo disagio.
Fino a che nella navicella non entra un ragno alieno gigante.

Un invasore?
Un compagno?
Una visione dovuta all'insonnia?
Una parte di sè fino a quel momento celata, come una coscienza che finalmente riesce a venir fuori?

Spaceman non ci darà una risposta certa, e per questo lo ringraziamo.
Quello che è sicuro è che questo meraviglioso ragno porterà Jakub e - sinedocchianamente -  molti di noi, a capire l'importanza degli altri, quella dei sentimenti, quella dell'Amore, fino a riportarlo(ci) all'essenza di tutte le cose.
L'atmosfera è magnifica.
Queste vicende di solitudini mi affascinano sempre da morire perchè psicologicamente densissime e cariche di significato.
La solitudine è una condizione a volte vitale (perchè c'è sempre bisogno di tempo per sè, tempo quasi mai perso) e spesso devastante, specie quando vissuta male o non voluta.
In questo caso ci troviamo davanti ad una solitudine "ibrida", perchè tremendamente voluta dal protagonista (Jakub è un egoista malato del suo lavoro e dei suoi risultati) ma, più il tempo passa, più vissuta dallo stesso in modo disastroso.
Una condizione dove quindi la presenza del ragno Hanus - a prescindere che sia una creatura reale o la reificazione della propria coscienza - trova il suo habitat perfetto, perchè non c'è miglior habitat per un uomo che ha "bisogno" di capire le cose quello di ritrovarsi completamente solo.
Non è un caso che è proprio con l'arrivo del ragno che Jakub cominci ad avere flash back della sua relazione, relazione che - lo capiremo meglio dopo - è arrivata al capolinea perchè la magnifica Lenka (una sempre grande Carey Mulligan) non riesce più a stare con un uomo che ama follemente ma che non riesce a restituirle nulla, perso e innamorato com'è solo di se stesso.
Insomma, un rapporto tremendamente sbilanciato.
"Io ho amputato tante parti di me stessa per te Jakub, tu cosa hai amputato?"


E questo sarà quindi Spaceman, ovvero il viaggio spaziale di un uomo verso una Nube Viola che diventa anche il viaggio interiore alla scoperta di sè, dei propri sentimenti e delle proprie priorità ("Io sono un esploratore, come te" gli dice Hanus, come a dire che anche indagare se stessi è un'esplorazione).
Insomma, uno scienziato che deve indagare la Scienza più difficile, quella dell'amore.
E ho trovato incredibile la coincidenza (o è un rimando?) allo straordinario pezzo dei Coldplay "The Scientist" che, praticamente, è l'esatta trama di questo film, ovvero la necessità di lasciar perdere cose futili sulle quali eravamo ossessionati per tornare invece indietro, alla genesi dell'Amore che stiamo perdendo ("I'm going back to the start")

I was just guessing at numbers and figures
Pulling your puzzles apart
Questions of science, science and progress
Do not speak as loud as my heart
Tell me you love me, come back and haunt me
Oh and I rush to the start
Running in circles, chasing our tails
Coming back as we are

(Stavo solo calcolando cifre e numeri
Mettendo i tuoi problemi da parte
Problemi di scienza, scienza e progresso
Non parlano forte come il mio cuore

Dimmi che mi ami, torna e ossessionami
E io corro verso l'inizio
Correndo in cerchio, rincorrendo le nostre code
Tornando indietro a quello che siamo)


Vi giuro, è incredibile come il pezzo e il film coincidano.
E che il brano si chiami proprio "Lo Scienziato" mette i brividi.
(il video è tutto girato a ritroso, ad evidenziare questo bisogno di tornare prima dell'incidente, prima che le cose si siano rotte)


Perchè questa è la magia del film e il suo straordinario e commovente insegnamento, ovvero quello di un viaggio che sembra "in avanti" ma in realtà è un viaggio a ritroso.
La Nube Viola nasconde - lo dice Hanus stesso - "Il Principio", la genesi delle cose.
Quindi è come se Jakub più che "tornare" al principio lo "raggiunga", come se il suo passato coincida con il suo futuro, sia una cosa davanti a sè.
E, se ci pensate, la metafora diventa ancora più emozionante perchè quel tornare al passato, quel riscoprire quanto si amava quella persona è veramente coincidente con un futuro, con un potersi riamare come quelli di un tempo.

23.11.23

Buio in Sala Crime, 4 documentari di True Crime da vedere su Netflix - "Amanda Knox" - "Kai, l'autostoppista con l'accetta" - "Il caso Isabella Nardoni" - "Missing : Il caso Lucie Blackman"

 

In un paio di giorni (due settimane fa...) ho visto 4 documentari di True Crime su Netflix.
Parlo di "docufilm" (anche se bisognerebbe specificare bene cosa sia un docufilm), non di miniserie, miniserie che vorrei cominciare a vedere tra un pò di tempo.
Come faccio con i film "normali" avrei voluto prendere qualche appunto durante la visione e recensirli nel miglior modo possibile.
Poi, però, mi sono accorto che questi documentari sono realizzati un pò tutti alla stessa maniera (ovvero benissimo, farli meglio di così è difficile) e che provare un'analisi "cinematografica" fosse quasi inutile, o che comunque ne bastava una per tutti.
Quindi faccio questo post semplicemente per segnalarvi questi bei doc e, in qualche modo, presentarveli.
Quattro storie affascinanti e interessantissime.
Una conosciuta da tutti, quella di Meredith (io poi sono di Perugia...), quella assurda di un giovane autostoppista che armato di accetta salva una donna da un'aggressione (e in 3 mesi passerà da eroe nazionale a ricercato per un altro omicidio), quella terribile di una bimba lanciata da un palazzo in Brasile (storia da noi sconosciuta, laggiù - invece - è forse una delle più famose di sempre) e quella di una giovane ragazza inglese scomparsa a Tokyo.
Alla fine i bei documentari di true crime questo devono avere, ovvero una storia "bella", particolare, non banale, tragica ma affascinante, ed essere raccontati come ogni grande documentario dovrebbe essere raccontato, con più materiali d'archivio reali possibili.
Questi 4, chi più chi meno, hanno tutto questo

OVVIAMENTE PRESENTI SPOILER



E' il 2007 (tra l'altro l'anno più assurdo della mia vita) e qui a Perugia viene uccisa barbaramente una ragazza inglese di 22 anni, Meredith Kercher.
Fu uno shock qui in città, città da sempre conosciuta per i giovani e per le Università, soprattutto quella per gli stranieri, una delle prime 3 in Italia.
Mai avremmo pensato però che questo caso, per tutti i suoi sviluppi, sarebbe diventato una delle vicende di true crime più importanti, controverse e famose della storia italiana.
Quando mi sono approcciato ad "Amanda Knox" avevo paura che fosse un documentario "in sua difesa" o addirittura realizzato dalle persone intorno ad essa. 
Ricordavo un libro, ricordavo interviste, ero sicuro che si fossero autoprodotti anche un documentario ad hoc.
Fortunatamente no, "Amanda Knox" su Netflix è una ricostruzione molto bella, oggettiva, intellettualmente super partes (anche se diventa, giocoforza, leggermente di parte avendo interviste solo di Amanda e Raffaele e non di Rudy, cosa assolutamente normale visto che i primi due sono liberi e il terzo no), davvero interessante anche per chi, come me, su questa vicenda ha visto tutto e di più.
Questo grazie a quello che dovrebbe essere il segreto di tutti i migliori documentari crime (che siano film di un'ora e mezzo, miniserie tv o anche video di 20 minuti sul tubo), ovvero recuperare il maggior numero di materiale d'archivio possibile.
E' davvero difficile infatti realizzare documentari crime di alto livello con solo ricostruzioni di fiction (anche se abbiamo delle eccezioni, come l'incredibile "L'impostore") mentre, quasi sempre, se vediamo immagini reali, volti reali e reali vicende difficilmente avremo qualcosa di non qualitativo o che non ti tiene incollato.
"Amanda Knox" ha veramente dentro un sacco di materiale, specialmente i video dei carabinieri e dei RIS dentro l'appartamento di via Pergola (ogni volta che passo in quella via impossibile non guardare a destra la villetta), che sono riportati in maniera quasi completa, cosa rarissima (molto forti).
Inutile dire che la "star" (o antistar) del Doc è Amanda, ragazza da sempre magnetica, ambigua, sfuggente.
E molto furba.
Il fatto che il documentario la intervisti per tutto il tempo e ripercorra tutta la sua vita pre e post Meredith per quanto mi riguarda non rende questo lavoro agiografico o assolutorio visto che non viene tralasciato nulla delle indagini, dei processi, dell'accusa e dei dubbi giganteschi che la coppia Sollecito - Knox ha sempre sollevato (alcuni loro comportamenti gridavano - e gridano - colpevolezza, da sempre).
Tantissimi scorci della mia meravigliosa Perugia, ricostruzioni degli avvocati di ambo le parti, immagini e interviste della famiglia di Meredith, un largo spazio ad un famoso giornalista inglese (abbastanza insopportabile e narciso), video dei sopralluoghi, il vergognoso arresto di Lumumba, spiegazioni delle prove con grafiche accattivanti e tanto altro.
Forse uno spazio troppo esiguo per la questione della "messinscena" sul luogo del delitto e soprattutto su Guede, ma questa scelta combacia perfettamente con quello che è successo realmente, ovvero come la vicenda di Rudy sia sempre stata messa in secondo piano rispetto a tutte quelle della Knox, Knox che, per estetica, comportamenti e ambiguità è sempre stata colei che ha attirato tutte le attenzioni.
Una ragazza che qui non amiamo (siamo colpevolisti, lo ammetto), che sin dal primo giorno si comportava in un modo in cui un innocente non si sarebbe mai comportato e che, soprattutto, aveva un suo DNA nel manico del coltello probabilmente usato per l'omicidio (trovato a casa di Sollecito).
Una che dopo nemmeno una settimana che si erano conosciuti parlava di quella con Sollecito come una grande storia d'amore (forse solo perchè le serviva qualcuno per difendersi, giovane e sperduta com'era) ma che a 20 anni appena compiuti aveva invece già avuto una vita che disinibita è dir poco.
A sentirla nel doc sembra una donna adesso molto matura, molto forte, molto sicura della sua innocenza.
Io mi auguro, e le auguro, che sia veramente come dice e, se è così, che possa essere felice.
E, lo ammetto, la telefonata che fa in italiano presumibilmente a Sollecito dopo la scoperta dell'assoluzione (altro documento questo inedito in questo documentario) mi ha inaspettatamente emozionato, forse una delle prime volte in cui ho percepito Amanda come sincera.
Momento cult (un pò divertentissimo e un pò cringe) quello in cui il "nostro" avvocato Biscotti, in risposta agli statunitensi che l'attaccavano, dice: "Qui nel 1308 abbiamo aperto la prima facoltà di Giurisprudenza d'Europa. In America nello stesso tempo forse disegnavano bisonti nelle caverne"
In definitiva per alcuni aspetti un documentario abbastanza definitivo (ripeto, solo per alcuni aspetti, come quello della perfetta cronologia degli eventi) e che ha il merito di darci una quantità di materiale originale eccezionale.
Resterà sempre di noi l'immagine di una ragazza che gira per Perugia, i suoi capelli neri, quel suo voltarsi, quel meraviglioso viso che aveva Meredith.


Ecco, questa probabilmente dei 4 è la vicenda più assurda, stramba e originale.
Seppur, ovviamente, tragica anch'essa.
C'è un incidente per strada e l'uomo che l'ha provocato scende alla macchina impazzito.
Dice di essere Gesù, vuole uccidere tutti i neri e altre farneticazioni simili.
Mentre sta per strozzare una donna di colore arriva un ragazzo giovanissimo (che, incredibilmente, aveva proprio fatto autostop con quell'uomo) che, a colpi di ACCETTA libera la donna e mette fuori gioco l'uomo (senza ucciderlo però).
Arriva un giornalista del luogo che intervista il ragazzo, un'intervista che passerà alla storia degli Usa.
Il giovane racconta con naturalezza quello che è successo, manda messaggi di pace e amore al mondo, e mima le accettate che ha dato all'uomo.
Quel gesto e quegli "smash! smash! smash!" diventeranno virali, meme su meme, parodie, di tutto.
Tutti vogliono trovare Kai, l'autostoppista eroe con l'accetta, tutta l'America lo vuole, tutte le ragazze lo cercano.

Kai è un senzatetto, ha un passato tremendo e, dentro di sè, delle parti super oscure.
E presto passerà da eroe USA a ricercato, ma per altri motivi.
Documentario davvero straordinario per l'assurdità delle cose che accadono, per l'incredibile magnetismo e carisma di Kai, per la curiosità che mette allo spettatore sapere come la storia andrà avanti.
Viene raccontato un mondo senza scrupoli, pieno di avvoltoi che cercano di sfruttare la popolarità di Kai senza minimamente rendersi conto delle condizioni psicologiche del ragazzo (che sembra vivere in un mondo tutto suo, a tratti dolcissimo, a tratti che mette i brividi per come può scattare all'improvviso).
Un reality tutto su di lui (dai produttori di quello delle Kardashian), interviste nei più noti talk show, su Kai si avventano tutti, vista l'incredibile storia che rappresenta (l'essere homeless, il mandare messaggi d'amore mentre quasi uccide uomini, il non essere rintracciabile).
Poi, però, succede un gravissimo fatto di sangue e, ben presto, si scopre che l'assassino è proprio Kai.
Un omicidio brutale, violentissimo, che forse ha matrici ben solide (Kai è stato davvero stuprato da quell'uomo?) o forse no.
Ed ecco che il ragazzo eroe adesso diventa un mostro, ed ecco che tutte le sue stranezze che prima venivano viste con simpatia adesso sono lette come inquietanti.
Per un'ora e 20 avremo quasi soltanto filmati originali, scopriremo una storia famosissima negli USA ma quasi sconosciuta da noi, ci divertiremo, resteremo affascinati da Kai e schifati dai media, ci commuoveremo per il passato del ragazzo e, al tempo stesso, avremo in qualche modo sempre "paura" di lui.
Davvero notevole




Senza dubbio il documentario che fa più male.
Voglio dire, quando una vicenda racconta di una bambina di 5 anni buttata dal sesto piano di un palazzo ci sono davvero poche cose che possono colpire di più.
La vicenda di Isabella Nardoni è, ovviamente, famosissima in Brasile (forse ho detto "ovviamente" in modo troppo scontato visto che da noi un paio di storie identiche sono passate quasi del tutto inosservate), così famosa che questo documentario, più che la vicenda in sè, racconta tutto quello che è successo intorno.
Un popolo intero che si solleva, che va per strada, che manifesta, o le interviste televisive dei protagonisti (quelle per scagionarsi dei due assassini ma anche quelle, un pò da primadonna, del magistrato), o la lotta di "classe" che è scaturita (il padre dell'accusato è molto ricco e ha sempre fatto vivere suo figlio sotto la sua protezione), sono moltissimi gli aspetti che hanno fatto diventare il caso della povera Isabella un qualcosa di gigantesco, "nazionale" e terribilmente mediatico.
Direi che in Italia questo caso possiamo paragonarlo per alcuni aspetti a quello della Franzoni, e non solo per il circo che ne è venuto fuori, non solo perchè è morto un bambino, ma anche perchè siamo davanti ad uno di quei casi che, anche senza prove schiaccianti, qualsiasi persona di buon senso si troverà a dire "non può NON essere stata lei" (o loro, in questo caso).
Come i famosi 8 minuti a casa della Franzoni (chi mai in un tempo così breve avrebbe dovuto entrare in una casa, uccidere un bambino senza alcun motivo, e poi andar via?) anche qua gli assassini li abbiamo già, per pura logica.
Un padre che torna a casa con la nuova compagna, con la figlia - Isabella - del precedente matrimonio e i due nuovi figli acquisiti, lo stesso padre che senza alcun motivo dice di essere salito in casa con la sola Isabella per metterla a letto e poi tornare in garage (sei piani sotto) a prendere gli altri, una bambina che cade dal sesto piano (anzi, viene gettata visto che c'è una rete di protezione che è stata tagliata) proprio mentre, in due minuti, il padre sta tornando in garage.
Insomma, come nel caso della Franzoni, l'unico scenario alternativo possibile è quello di un pazzo che in 5 minuti entra in un appartamento, uccide una bambina strozzandolo e buttandolo dalla finestra e poi esce.
Capite da soli che, anche nella stringatezza di questo breve riassunto, si capisce quanto questo sia uno di quei casi che  - se è vero che per la legge deve essere dimostrato - per la logica solo in un modo può essere andata.
Umanamente ci sono momenti molto forti, specie tutti quelli che riguardano Isabella e la giovanissima madre (lasciata sola dal presunto assassino dopo appena un anno) o i ricordi delle cugine e dei nonni.
Questa ragazza-madre così buona, così ancora legata al vecchio compagno, così contenta che Isabella "vivesse" anche l'altra famiglia.
E poi, piano piano, una verità (l'unica possibile) che viene fuori.
Ed è una verità sempre più terribile, con la scoperta che Isabella, prima di esser stata gettata, fu strozzata (anzi, probabilmente è stata gettata per quel motivo, per coprire quell'omicidio).
E se è vero che nelle ricostruzioni dell'accusa ci sono parti per niente convincenti ed "errori", se è vero che questo probabilmente è stato un processo quasi inutile, visto che un intero paese ormai gridava odio ai presunti assassini, è anche vero che lo spettatore non può NON provare disgusto ed odio ogni volta che vede quel volto da pesce lesso del padre e quello - fintamente commosso - della nuova compagna.
Forse come struttura questo documentario non riesce ad andare in climax, anzi, la seconda parte pare abbastanza prevedibile e scontata, e anche leggermente ripetitiva.
Ma la vicenda raccontata è incredibile ed incredibili i comportamenti di alcuni dei protagonisti.
Proverete commozione, dolore, rabbia, curiosità, disgusto.
Un padre inumano e una matrigna, almeno lei, che ha sicuramente come parzialissima scusante una forte depressione, dei disturbi mentali, un buco senza fondo in testa (ragazza bellissima ma senza alcuna amicizia, una casa tenuta in modo disastroso, l'assoluta solitudine).
Quello che è strano, e il documentario lo ricorda, è che siamo davanti un rarissimo caso di due condannati che, negli anni, hanno continuato a professarsi innocenti (e questo è normale) senza però (questo rarissimo) accusarsi mai l'uno con l'altra.
Non si sa sia dovuto al fatto che siano veramente innocenti (direi impossibile, ma si sa mai), se per una specie di patto d'amore fatto o perchè qualcuno dei due è riuscito completamente a manipolare l'altro.
Intanto Ana Carolina (la madre di Isabella) è riuscita a rifarsi una vita, avere altri figli, appoggiare una coltre di felicità sull'apertura di quel pozzo di dolore senza fondo. 



Una giovane ragazza inglese pazza del Giappone.
Il sogno realizzato di trasferircisi per lavorare, conoscere meglio quella cultura e fare un'esperienza di vita.
Poi, d'un tratto, quella ragazza scompare.
In una delle città più popolose e "dense" di tutto il pianeta.
Il padre arriva in Giappone e, in modo commovente, lotta con tutte le sue forze per ritrovarla.
Una storia tristissima e torbida che, purtroppo, ha la fine che tutti si erano ormai aspettati.
Ecco, forse questo tra i 4 documentari è quello più "investigativo", nel senso quello che racconta di più le varie indagini per trovare un colpevole.
Questo è senz'altro un suo punto di forza perchè, a differenza degli altri 3 documentari, non sappiamo già chi è l'assassino (o il presunto assassino).
A tutto questo unite il sempre affascinante mondo giapponese ed il gioco è fatto.
Suo punto di forza (come nel caso della Nardoni) è quello umano, è l'empatia che lo spettatore instaura sia con Lucie (immaginarsi che fine potrebbe aver fatto una ventenne sperduta in un altro stato, in una città così gigantesca e alienante, è davvero forte) sia col suo meraviglioso padre che, non solo con commozione e dolore, ma anche con rabbia, forza, dedizione e coraggio farà di tutto per "smuovere" tutta Tokyo per ritrovare Lucie.
Il documentario - mi ripeto - è realizzato benissimo, con una grandissima quantità di interviste sia d'archivio, al momento dei fatti, che di adesso, a bocce ferme.
E' molto interessante l'unione di questi due mondi, anche investigativi, tra gli inglesi e i giapponesi.
Come è interessante il contrasto tra luoghi squallidi e altri ricchissimi, in un documentario in cui c'è sempre la sensazione che il marcio sia dietro uomini con montagne di soldi.
E, come in un film, c'è la voglia (e la speranza) di scoprire come è andata a finire, di trovare l'assassino (perchè la speranza che Lucie sia viva è veramente nulla. In ogni caso ne approfitto per consigliare di guardare documentari di vicende che non si conoscono senza andarsi prima ad informare, li vivrete in tutt'altra maniera. Solo poi, dopo, è bello informarsi).
Alla fine possiamo dire che questo documentario ha le stimmate di un thriller.
Poi, attraverso un paio di finezze investigative, arriveremo a scoprire tutto e si aprirà a noi un mondo orribile di una persona orribile, un serial killer, un violentatore, un perverso, uno proprio di quegli uomini che incarnano completamente il Male assoluto.
La parte più emozionante, però, sarà quella finale, molto tragica, vero, ma umanamente la più bella.
Il ritrovamento di Lucie in quella sporca e squallida caverna vicino al mare, il dolore del padre, la straordinaria empatia dei giapponesi che non solo costruiranno - in quell'impervio spazio - un altare per la ragazza, ma andranno anche a trovare la famiglia in Inghilterra.
Davvero bello.

11.8.23

Recensione: "Il Prodigio" - Su Netflix


 Questi due mesi e mezzo che non ho recensito film nel blog (a parte Animali Selvatici) credo di averne visti comunque una quindicina, più o meno belli (nessun capolavoro ma la media è più che discreta).
Voglio provare a riportarli tutti qua, alternando tra alcuni di cui parlerò ampiamente (perchè li ricordo meglio o perchè magari li ho rivisti) ad altri che metterò invece in post "collettivi" di 3/4 film.
Comincio con uno dei più belli, Il Prodigio, un film di Netflix molto poco netflixiano.
Ambientato nella seconda metà dell'800 in un piccolissimo paesino irlandese racconta la storia di un presunto "prodigio" (come titolo),
Una bambina di 11 anni non mangia da 4 mesi, ma sta benissimo.
La famiglia e la comunità credono sia un miracolo, qualcosa a che fare con la Fede, ma per fugare ogni dubbio viene chiamata da Londra un'infermiera (una grande Florence Pugh) che deve "visitare" la bambina per capire se c'è una spiegazione razionale e scientifica.
Ne nasce quindi un film sull'eterno conflitto tra Fede e Scienza, sì, ma anche su tanti altri temi, come il castigo, le ferite incancellabili, la maternità, il desiderio di essere amati ed amare.
Davvero un bel titolo che non si fa mancare nemmeno una piccola ma emozionante e suggestiva cornice metacinematografica

Diretto da un regista cileno di cui si non avevo mai visto nulla ma comunque abbastanza "famoso" (Sebastian Lelio, di cui si dice molto bene di "Gloria" e de "Una donna fantastica") "Il Prodigio" è uno di quei film Netflix poco netflixiani, quelli che cerchiamo di continuo senza trovarne quasi mai.
Ambientato nella seconda metà del 1800 racconta la storia di un'infermiera (la grande Florence Pugh) mandata in uno sperduto villaggetto irlandese dove sta avvenendo una cosa misteriosissima (il Prodigio del titolo), ovvero il completo digiuno di cibo di una 11enne.
Digiuno di mesi e mesi che, però, sembra non arrecare il minimo danno fisico alla bambina.
La famiglia crede che sia una cosa "divina" e per questo la comunità chiama l'infermiera, per avere anche un parere scientifico che possa o sconfessare o confermare l'eventuale prodigio inspiegabile.


Il film, quindi, sarà tra le altre cose una di quelle opere che raccontano dell'eterna lotta tra Scienza e Fede (non a caso la bambina viene seguita per 8 ore alternate tra Elizabeth - l'infermiera -  e una suora), argomento che mi affascina sempre molto.
L'incipit è straordinario, uno dei più belli di questi ultimi tempi.
Siamo dentro a un teatro di posa, in un vero e proprio set cinematografico.
Una voce fuori campo ci invita a "credere alle storie" e l'inquadratura ci porta lentamente dentro una baracca costruita come set.
La ripresa arriva lentamente sul volto della Pugh e, magicamente, ci troviamo così dentro al "vero" film.
Un metacinema davvero eccezionale.
Da subito il film ci conquisterà con le sue location, quell'alberghetto verde scrostato che sembra quello di Spider di Cronenberg, i campi infiniti dove i nostri protagonisti camminano più volte, la casa isolata nella brughiera e il suo interno, con questi due piani - il sopra e il sotto -  che diventeranno quasi due luoghi completamente separati (sotto c'è la famiglia, le chiacchiere, le credenze, i segreti, il paese, sopra la nuda e intima verità della bambina).
Il Prodigio è un film bello, molto bello, fotografato splendidamente, recitato splendidamente e capace di mantenere il suo mistero in maniera molto trattenuta, senza mai prendere connotati da thriller.
E' la storia, alla fine, di una donna che (ri)cerca una figlia e di una figlia che avrebbe bisogno di una nuova madre (ormai i film sulla maternità  non si contano più).
Religione, Fede, colpa ed espiazione, delitti e castighi, vecchi fantasmi, segreti inconfessabili, ferite mai rimarginate, tutto si mixa in una sceneggiatura apparentemente "semplice" ma granitica (è tratto da un romanzo del resto) nella quale tutte queste tematiche vengono fuori senza che nessuna venga mai urlata.
Le luci sono bellissime (come spesso accade in film che raccontano epoche di buio e candele), le inquadrature perfette (molto geometriche, da quadri, con la Pugh inquadrata decine di volte in assoluta frontalità) e, specie nel finale, non mancano anche molte scene emozionanti, come il "risveglio" di Anna ad una nuova vita - bellissimo e simbolico -, come l'incendio in cui vengono bruciati i passati di entrambe (personificati dalla Bibbia e dalle scarpette della bimba morta prestissimo), come Nan che vede dalla finestra l'arrivo di Elizabeth o quella cena finale in cui Nan (Anna) per la prima volta (nel film) tocca cibo.
A proposito di cibo ho amato moltissimo una cosa forse non evidentissima ad una visione superficiale, ovvero l'incredibile numero di volte che vediamo Elizabeth mangiare (5 o 6). Sono tutte scene "minime", di raccordo, ma è davvero suggestivo questo confronto, opposto al digiuno di Anna.


Nell'ultima mezz'ora il film si svelerà, regalandoci "dolci" (nel senso di leggermente prevedibili) colpi di scena, che in fin dei conti lo spiegano tutto (come sopravviveva Anna, perchè l'hanno costretta a quel supplizio, l'incesto del passato).
Ed è davvero potente questo concetto di "nuova vita" (attraverso anche un nuovo nome) che, se volete, può essere declinato in mille modi.
Come se ogni vita perduta, vessata, rubata, imposta, ad un certo punto possa essere cancellata, con un click, per ricominciarne un'altra.
Parliamo di una vera e propria "morte" per rinascere diversi da prima (ovviamente questo è possibile solo nel caso che la nuova vita sia opposta alla precedente, piena d'amore, affetto, considerazione, libertà).
Ecco, se c'è un difetto nel film forse è proprio non aver premuto ancora di più su uno dei suoi più grandi pregi, ovvero quella cornice metacinematografica che lo apre e lo chiude.
Sarebbe stato perfetto o semplicemente così (ovvero con il metacinema solo in apertura o chiusura) oppure inserendo all'interno dell'opera molti altri momenti di questo tipo.
Si fa fatica a capire infatti perchè, a parte incipit ed epilogo, avremo solo un altro intervento "esterno" durante il film.
In ogni caso epilogo bellissimo, esattamente speculare all'incipit.
E quel "dentro-fuori" l'ho trovato davvero straordinario perchè carico di almeno tre significati.
Il "dentro fuori" dell'illusione ottica dell'uccellino in gabbia, quello - per analogia - di Anna e della sua situazione di "prigionia" e quello del finale, questo uscire ed entrare nella finzione cinematografica.
30 secondi finali bellissimi, degna conclusione di questo titolo

8

31.3.23

Recensione: "Quando Dio imparò a scrivere" - Su Netflix


Il quarto film di Paulo (dopo i primi bellissimi due - El Cuerpo e Contrattempo - e la mezza delusione del terzo - Durante la tormenta -) è l'ennesimo (4 su 4) thriller-giallo a orologeria dove tutti i pezzi si devono incastrare e dove - ormai da lui ce lo aspettiamo sempre - ci sarà un gran colpo di scena finale.
Il film è bello, forse molto bello (ma troppo lungo), affascinante, stimolante e ambiguo (come è ambigua la sua protagonista, Alice, una detective che si finge malata per indagare dell'omicidio avvenuto in un manicomio. Ma se fosse invece veramente malata?).
La sensazione, però, è che a differenza dei 3 precedenti film stavolta l'architettura sia talmente grande e complessa che qualcosa non torna o se torna, è solo perchè Paulo furbescamente usa tantissimi trucchi.
Resta un film piacevolissimo da vedere, che ti porta a parlarci ore con gli amici ma che - e questo è un difetto - ti sembra più volte un tantinello forzato per risultare credibile.
In ogni caso provo, come sempre, a dare la mia - lunga - spiegazione al film.

Oriol Paulo è ormai considerato uno dei maestri del thriller moderno.
Più che altro è uno che, a differenza di altri registi (anche migliori di lui), non ha mai tradito il suo genere.
Paulo (il cognome è questo) fa sempre e solo thriller/gialli con mega colpo di scena (e tutti con un omicidio di mezzo), è un vero e proprio specialista.
Non ricordo altri registi che, o prima o dopo, non siano mai usciti da questi binari.
Se i suoi primi due, "El Cuerpo" e "Contrattempo", erano davvero notevolissimi e se il terzo, "Durante la tormenta", un piccolo passo falso, ecco che con "Quando Dio imparò a scrivere" (brutto e "sbagliato" titolo italiano) io mi ritrovo nella fastidiosissima sensazione di non saper dare un giudizio netto.
Bello come i primi due?
Delusione come il terzo?
Il fatto è che questo film ha un'architettura così grande che al tempo stesso ti sembra geniale se tutto torna (perchè i pezzi son tanti, molti di più dei 3 film precedenti) o traballantissimo se, al contrario, tutto non torna.
Anche se in realtà la sensazione è che ci troviamo davanti ad una via di mezzo per cui tutto torna sì (proverò a dare la mia "soluzione più tardi) ma che per far ciò Paulo usi tante e troppe furberie, tante situazioni, frasi e personaggi che tu li leggi in un modo ma poi lui ti dirà "dovevi leggerli in un altro".
E, a proposito di fastidio, finisci il film con la voglia di rivederlo, ma non quella voglia che hai quando hai visto un film ostico e bellissimo e vuoi rivederlo per capirlo meglio o, nel caso l'hai già capito, per "riviverlo" con altri occhi (ad esempio lo stesso Contrattempo ma anche film ben più importanti e con altri tipi di difficoltà, vedi tanti Lynch).
No, ti viene voglia di rivederlo perchè la prima visione è stata così confusa e con così tanti dubbi che ti senti non possa bastare.
E questo è un difetto.
Tutto questo preambolo in realtà non rende merito a un film bello, forse molto bello, e che consiglierei a qualsiasi amante del genere, questo voglio ribadirlo.



Siamo alla fine degli anni 70.
La detective Alice (nome che mi dà sempre un brividino) viene accompagnata da un uomo in una grande clinica per malattie mentali (un manicomio) dove poco tempo prima è morto un ragazzo, il figlio dell'uomo che l'ha accompagnata.
Suicidio o, come pensa Alice, omicidio?
Alice, per essere il più possibile "dentro" l'istituto, accetta di farsi ricoverare come finta paranoica.
Ma se fosse davvero malata?

C'è da dire che il film è troppo lungo, due ore e mezza (peccato perchè fosse stato mezz'ora in meno l'avrei rivisto volentieri). 
E' vero che, come dicevo, ha un'architettura così complessa e con talmente tanti incastri che di tempo per erigerli ne serviva parecchio ma, ecco, la sensazione che se fosse stato più asciutto ne avrebbe giovato è forte.
L'ambientazione (come sempre nei film nei manicomi) è super suggestiva (buffissimo che due giorni dopo ho visto Adoration di Du Weltz, anch'esso - anche se solo nel primo tempo- ambientato in un manicomio con un bosco a fianco), e la regia di Paulo sempre moderna e accattivante.
Forse però, al di là della sceneggiatura che, come in tutti i film di questo regista è l'architrave più importante, è il materiale umano, più ancora di location e regia, l'aspetto più "debordante".
Questo perchè QDIAS (scusate l'acronimo) è un film corale, con almeno 15 personaggi con parti più o meno grandi.
Sono distinguibili in 3 macrocategorie, ovvero i personaggi che riguardano Alice (lei, il marito e l'uomo che l'ha accompagnata), i medici e i pazienti (e, come se non bastasse, ci sarebbero anche 3/4 elementi della polizia).
E' indubbio che il gruppo più interessante sia quello dei pazienti.
Ecco, tra i malati le facce son davvero perfette e la caratterizzazione veramente marcata.
Forse così marcata che - come avviene spessissimo in film ambientati in manicomi - il confine tra il trovarsi davanti un personaggio riuscito o una macchietta è davvero labilissimo.
Il Gigante, il Nano, i due gemelli inquietanti (con quegli occhi così distanti tra loro), la loro "sorella", l'uomo idrofobo ma anche tanti altri personaggi minori come la donna albina (che a me ha emozionato) creano un fascinoso, ma anche esagerato, Circo Barnum per lo spettatore.
In realtà Paulo è bravo a rendere tutti abbastanza credibili e a non farci pensare che quel tale personaggio sia solo strumentale (anche nel caso lo fosse veramente).
Interessanti anche i medici, su tutti l'ambiguo direttore Alvar, il vero e proprio personaggio chiave secondo me.
Indubbio però che buona parte del peso sia retto dalla sempre bravissima Barbara Lennie, attrice che ho sempre adorato (Magical Girl, Il Regno, Contrattempo) e che qui, pur bella, si mostra leggermente sfiorita per interpretare un personaggio equivoco, misterioso, a cui lo spettatore non riesce mai a dare un giudizio definitivo.

10.11.22

Pillole di Buio in Sala: Riflessioni su "L'angelo dei muri", "Doppia Pelle", "Christian", "Apollo 10 e mezzo", "Quicksand", "The Old People", "The Supernatural", "Ultrasound" e "Soft Air"

Questo è stato sicuramente l'anno con meno post e recensioni.
Faccio sempre più fatica a scrivere, anche se non c'è nessun motivo negativo, anzi, nessun motivo in generale.
Ho visto abbastanza cose questi mesi delle quali non ho poi tenuto traccia nel blog.
E allora provo a recuperarle nella memoria (si va da visioni di 8 mesi fa ad altre di 10 giorni, con inevitabili ripercussioni nella memoria).
In questo abbastanza inedito post per il Buio in Sala parlo quindi di tante cose diverse, con minirecensioni o "medie" recensioni.
Abbiamo un film italiano bellissimo, un Dupieux sempre geniale ma forse non ai livelli dei suoi capolavori, una serie italiana straordinaria e l'ultimo film di quel regista unico che è Linklater, regista che non fa solo film ma veri e propri progetti.
E poi una bella miniserie svedese su una strage scolastica, un dimenticabile film horror tedesco (o austriaco?) su una casa di riposo dove i vecchi diventano spietati assassini (e con una retorica insopportabile), un tremendo film italiano e uno ancora più brutto, ma così brutto, così brutto che più de due righe non posso dagliele.
E poi un gran bel film "alla Guardaroba" su ipnosi, tecnologia futuristica e manipolazione.
E poi basta



Bellissimo, forse in tutta questa carrellata il titolo del quale più mi dispiace non averne scritto.
Siamo a Trieste.
Un vecchio uomo che vive in una grande e vecchia casa (vera protagonista del film) scopre che verrà sfrattato.
Ma quella casa è tutta la sua vita (e nel finale capiremo perché) e lui non vuole andarsene. Decide quindi di murarsi in un piccolo stanzino, nessuno se ne accorgerà.
Film italiano di quel Bianchini di cui provai a vedere "Radice quadrata di 3" (abbandonando dopo 10 minuti senza averne capito una parola) e del quale amai invece molto "Across the river", horror di pura atmosfera, quasi muto e con un solo protagonista assoluto.
L'Angelo dei muri è senz'altro il suo film più sentito, maturo, complesso, e anche quello che scavalca di più il genere puro.
Pellicola dalla grandissima anima che in un finale davvero struggente rivela una storia di profondissimo dolore, certo prevedibile da uno spettatore attento e scafato (noi avevamo previsto il colpo di scena a metà film) ma che non perde minimamente d'emozione.
Prima abbiamo un film girato in maniera straordinaria (ricordo dei movimenti di macchina di un'eleganza incredibile, e un piano sequenza iniziale tra i corridoi della casa che è qualcosa di bellissimo), con un attore principale indimenticabile e con una storia al tempo stesso minuscola ma anche gigantesca, esistenziale e, in qualche modo, "nuova".
Il film è perfetto nel miscelare un lato drammatico impressionante con delle venature ghost mai pacchiane, quasi sussurrate.
Più temporalità iniziano a mescolarsi tra loro, qualcosa di terribile successo nel passato entra nel presente. Bianchini è perfetto in questo bilanciamento e il film riesce ad essere per tutta la sua durata un mirabile ibrido tra cose diverse.
Come "Across the river" anche questo è un film di silenzi (il protagonista non parla mai se ricordo bene) e dalla grandissima atmosfera, anche se rispetto a quella inquietante e misteriosa ne prevale una maledettamente malinconica.
Proverete una rara empatia per quest'uomo, cercherete insieme a lui di ricordare e, nel finale, il vostro cuore sarà spezzato.
Bianchini forse esagera (nello stesso finale) in retorica e spiegazioni varie ma il suo film e i suoi personaggi erano così belli e credibili che l'emozione, anche se ci viene quasi imposta, resta intatta.
Film di volti, di atmosfera, di regia, di emozioni, di dolore.
E di senso di colpa.
E di vuoto pneumatico.
E di voglia di riabbracciarsi

8



Il solito soggetto incredibile e geniale di Dupieux.
Un uomo è ossessionato dagli abiti in pelle, specialmente dalla sua giacca. E' convinto che tutto il mondo la trovi bellissima, che tutti parlino di "lei".
E' talmente ossessionato che decide che quella deve essere l'unica giacca al mondo.
Le altre persone devono quindi o buttarle o essere uccise.
Film a tratti straordinario e comicissimo Doppia Pelle non riesce però, a mio parere, a raggiungere i livelli dei veri capolavori di Dupieux (Realitè, Wrong, Wrong Cops).
La sensazione è che il soggetto faccia fatica a reggere la durata del film anche se grazie al suo talento Dupieux riesce sempre a intrattenerti.
Come al solito ci saranno moltissimi discorsi metacinematografici (nei suoi film quasi sempre Dupieux parla di Arte e Industria cinematografica) con questo personaggio che si finge regista senza, probabilmente, non solo non aver mai girato una scena ma nemmeno aver visto un  solofilm.
I momenti migliori sono senz'altro quelli surreali in cui la giacca è protagonista (il tipo di humour che adoro) e alcuni degli efferati ed irresistibili omicidi.
C'è anche una piccola vena malinconica, il protagonista del film è un uomo solo e triste a cui niente è rimasto se non questa sua ossessione.
Dupieux, come al solito, fa ridere con soggetti e sceneggiature talmente sceme che solo un'accurata lettura permette di capire che se sono così sceme è perchè, in realtà, non lo sono per niente.

7




No, ho cambiato idea, sta serie è troppo troppo bella per scriverne poco. Ma ormai avevo caricato la locandina e la lascio qua, in attesa (spero!) de rivedella e parlarne al meglio.
Il voto però intanto lo metto

9


Linklater è un mezzo genio, senz'altro uno degli autori più originali e, per certi versi, "estremi" del cinema moderno, almeno di quello emerso e alla portata di tutti.
I suoi film, più che semplici film, sono quasi sempre progetti quasi unici nel suo genere.
Partendo da quei due gioielli in rotoscope di Waking Life e A Scanner Darkly, continuando con la trilogia "Before" (in cui il regista ha raccontato - con 3 film a distanza 10 anni l'uno dall'altro - 3 singoli giorni di una sola coppia, tra l'altro interpretata dagli stessi due attori ovviamente nel frattempo invecchiati anch'essi del medesimo intervallo) e finendo con quel film assurdo che è Boyhood, altro progetto sul Tempo ancora più estremo dei Before (la vita di un bambino che diventa adolescente tutto realizzato usando stessi attori cresciuti nel tempo, con pochi minuti di ripresa fatti ogni anno. 
Ecco che adesso, nel suo ultimo film, si torna all'animazione (direi a tecnica mista vista la quantità finita di disegni diversi ma, come i due precedenti rotoscope, usando spesso attori anche reali) con un film molto piccolo, quasi documentaristico, ma che è in tutto e per tutto il solito Linklater, ovvero un autore malinconico, legatissimo all'adolescenza, al tempo e al ricordo, con spesso anche derive filosofiche ed esistenzialistiche.
Apollo 10 1/2 è la storia, ambientata nel 1969, di un bambino di 10 anni  (Linklater è del 1960, quindi è evidente quanto il film sia quasi del tutto autobiografico) che si troverà a vivere un'esperienza incredibile, pazzesca, unica, storica, ma che nessuno potrà mai conoscere, ovvero l'essere andato sullo spazio (anzi, sulla Luna) prima dell'Apollo 11, in un esperimento segreto di prova tenuto nascosto a tutti (da qui il titolo).
Una specie di ucronia quindi, anche se assolutamente sui generis (visto che per tutta l'umanità l'unica Storia conosciuta sarà quella ufficiale).
Bisogna dire che uno spettatore non informato (come eravamo noi) può rimanere spiazzato nel ritrovarsi davanti un film che, alla fine, per tre quarti della sua durata è "solo" un documentario animato sulla fine degli anni 60.
Linklater racconta quegli anni in maniera incredibile, sia a livello macroscopico (politica, sociale, grandi avvenimenti) che intimo e personale.
I flipper, i vecchi telefoni, le partite a ping pong, le grandi mangiate di famiglia in cui si prepara tutti assieme, i programmi televisivi e la stessa televisione come momento comune, i giochi semplici dei bambini, i gelati, il troppo cloro delle piscine, le cadute e le fratture, i film horror noleggiati, gli scherzi telefonici, i petardi, il drive in e mille altre cose si mischiano all'allunaggio, al Vietnam, a Nixon e alla Storia.
Sarà che ero l'unico ultraquarantenne della combriccola ma rivedere tutte queste cose mi ha profondamente colpito avendole vissute veramente tutte (che tempi meravigliosi).
Ma il punto forte del film è senz'altro in questa incredibile (anche nel senso di non credibile) trovata, quella del bimbo mandato per primo sulla Luna.
E c'è poco da fare, le scene di lui che arriva, che scende, che la vede per primo, sono eccezionali.
Anche se il momento più bello, malinconicamente geniale del film, è quando poi ci sarà il vero allunaggio e lui se ne sta lì annoiato sul divano, insieme alla famiglia. Quella famiglia - e tutto il mondo con loro - che sta assistendo a qualcosa di mai vissuto prima, ad uno dei momenti storici più importanti di sempre. E lui, lì, che (in un montaggio alternato davvero emozionante) rivive il suo viaggio, le sue emozioni, lui, un bambino annoiato in un divano che in realtà è stato lassù prima di tutti.
Sono minuti bellissimi ed emozionanti in un film che, per il suo taglio quasi solo documentaristico, potrebbe annoiare i più.
Ma resta un'opera personale, intima.
E qualcosa che fa sognare

7.5


Piccola miniserie svedese (durata complessiva 4 ore e mezza mi pare) su un argomento al quale non riesco mai a resistere, le stragi scolastiche.
Siamo a Stoccolma e nella scuola di un quartiere molto ricco c'è stata una strage.
Una delle sopravvissute, Maja, è in realtà la principale sospettata. 
Lei stessa sa di essere in qualche modo responsabile ma solo durante la prigionia ed il processo riuscirà a ricordare tutto.
La serie è molto bella nella costruzione, intersecando le due temporalità principali (l'oggi del post strage, della detenzione e del processo e lo ieri dei mesi precedenti il massacro) con dei flash della strage stessa che, velocissimi, compaiono a Maja e anche a noi spettatori.
Ho amato questo "nostro" non sapere, questo ricevere poco a poco sempre più informazioni, informazioni che, ad esempio, la polizia aveva già.
Ne nasce quindi una serie molto interessante a livello psicologico perchè raccogliendo pezzi del puzzle del passato riusciamo sempre di più a formare l'immagine di Maja e di tutto quello che le è successo.
L'attrice è formidabile, riesce ad essere 3-4 Maja una diversa dall'altra (la brava ragazza, la femme fatale, l'essere umano empatico, quello freddissimo) restituendoci un personaggio di altissimo livello, davvero complesso.
Quicksand ("sabbie mobili" la traduzione, perchè è questo che succede alla la protagonista, il ritrovarsi in una situazione - sia pre strage che dopo -  nella quale ogni mossa che si fa porterà solo a maggiore dolore o esiti negativi) è quindi una serie dalla grande connotazione psicologica, una di quelle che si prendono il tempo di analizzare le cose, delineare personaggi, fornire elementi, senza mai dare risposte.
Quanto Maja sia realmente responsabile, quanto succube del ragazzo, quanto davvero ragazza immatura, è un qualcosa difficile da capire. E la serie fornisce allo spettatore tutti gli elementi per riflettere.
Certo il finale fa storcere un pò il naso e pare un filo inverosimile (ma non sono esperto di giurisprudenza) ma la serie funziona.
Il personaggio di lui è forse ancora più complesso.
Insopportabile, tossico, violento, pazzo, razzista, narciso, pericoloso.
Tutto vero ma la serie è perfetta nel mostrare il disamore avuto da sto ragazzo in tutta la sua vita.