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4.6.22

La buffa storia della partita tra Passaro e Rune, quando traiettorie (quasi) impossibili della vita si incrociano

 

Sono passati meno di due mesi.
Era il 9 Aprile e nel bel challenger di SanRemo (i challenger sono tornei di tennis di un circuito minore, diciamo giocati perlopiù dai giocatori tra il numero 100 e il 200) si ritrovano in finale due giocatori che già all'epoca, ma adesso con ancor maggior clamore, non "c'entravano niente l'uno con l'altro".
Da una parte Rune, giovanotto danese all'epoca nemmeno 19enne, dall'altra "un frego de Perugia", uno sconosciuto ragazzo della mia città, Francesco Passaro.
Non si sa come i due possano essere lì, in quella partita.
Uno è un giovane molto rampante (all'epoca 90 del mondo), l'altro un perfetto signor nessuno, 500 del mondo.
La finale in quel Challenger è per Rune il minimo sindacale, è già strano che un giocatore così lanciato e forte si sia iscritto a un piccolo challenger italiano.
Passaro, invece, ha compiuto un autentico miracolo sportivo per arrivarci a quella finale.
Viene dalle qualificazioni (per capirsi non aveva la classifica nemmeno per entrare nel tabellone di quel torneo) dove ha fatto fuori, tra gli altri, un ex top ten mondiale, giocatore magnifico ma pazzo, talentuosissimo ma senza testa per il tennis, il lettone Gulbis, uno nato coi miliardi sotto il culo (suo padre è un milionario) e che quasi per divertimento è arrivato quasi al top del mondo.
Passaro arriva alla finale massacrando tutti, in semifinale addirittura 6-1 6-1 a Mager, uno che da ormai tanti anni è tra i più forti giocatori italiani (in questo momento è il numero 6 d'Italia).
Ok, Passaro ha devastato ma adesso incontra uno, Rune, che dovrebbe batterlo con la sinistra in 45 minuti.
Però accade una cosa stranissima, quasi unica nel tennis.
La settimana successiva inizia il Master 1000 di Montecarlo, uno dei tornei sulla terra più importanti di tutti.
Rune è iscritto.
Deve fare le qualificazioni (ai Master 1000 sono in tabellone i primi 60, circa, e lui in quel momento era 90).
E c'è poco da fare, le qualificazioni cominciano di sabato.
Ma Rune il sabato ha la finale a Sanremo con Passaro.
Mi accorgo di questa cosa il giorno prima e dico ai miei amici "lo so, vi sembro folle ma scommettere la vittoria del 500 del mondo contro il 90, perchè quello dopo 5 ore ha un'altra partita in un altro torneo".
Io, in ogni caso, scommetto (mai più di 5 euro).
Per andargli incontro gli organizzatori decidono di anticipare la finale di Sanremo alle 11 di mattina.
Poi, Rune, dovrà essere alle 17 a Montecarlo a giocarsi una partita ben più importante di quella finale.
Sta di fatto che sono libero e quella partita posso vederla.
Giocare a tennis sapendo che dopo 4-5 ore devi prendere una macchina o un treno per fare un'altra partita da un'altra parte è quasi impossibile.
Rune ha una sola possibilità, sparare tutto, fare in fretta.
E così fa.
Bum, bum, bum, bum e Rune fa suo il primo set 6-1.
Sapevo che sarebbe successo questo ma sapevo anche che quando spari tutto o vinci presto o perdi presto (per questo la mia scommessa, anche con gli amici).
E infatti il secondo set, con un Rune che stava solo pensando al viaggio per Montecarlo, succede l'opposto.
Il danese ha fretta, è nervoso, ma le palle entrano poco.
6-2 per Passaro.
Ormai è andata, mi dico.
E infatti il terzo decisivo set stessa cosa, Rune non può perder tempo a lottare.
Passaro si ritrova 4-2.
Alla sua prima finale.
Da numero 500 del mondo contro il numero 90 che, spoiler (ci arrivo tra poco), nei due mesi successivi dimostrerà di essere già un campione.
Ma ecco che arriva quelle cosa che ogni tennista conosce benissimo, la paura di vincere.
E niente, a Passaro non entra più una palla. Ha davanti un avversario che vuole solo andare a fare la doccia e andarsene via da quel torneino e invece niente, Passaro sbaglia tutto.
Da 4-2 e servizio a 4-6.
Rune vince (e adesso visto quello che è diventato ricordarselo vincitore due mesi fa al torneo di Sanremo fa ridere), prende una macchina al volo e arriva - presumo - un'ora prima del match a Montecarlo.
E che fa?
Batte facilmente Albot, poi il giorno dopo ancora un altro giocatore e poi arriva pure al secondo turno dove perde una partita lottatissima (7-6 7-5) con Ruud, sì, il giocatore che domani sfida Nadal nella finale del Roland Garros.
Tre giorni prima Rune era lì a perdere con "un frego di Perugia" e ora era lì, al top, a sfiorare di battere il numero 8 del mondo.
Ma se ho voluto riportare qua questa minima e buffa storia è perchè quella partita "impossibile" per certi versi è stato il momento in cui sono veramente cominciate le carriere di entrambi i nostri due protagonisti.
Rune, che rischiò di perdere col numero 500 del mondo, da lì in poi esploderà.
Vince tantissimo, pure un torneo grande (Monaco), batte il numero 3 del mondo Zverev, batte al Roland Garros il numero 4 del mondo Tsitsipas e il numero 13 Shapovalov.
Lunedì sarà 28 del mondo, tra due lunedì addirittura nei 25.
Ma Passaro, molti piani più in basso, farà la stessa cosa.
Di lì in poi anche lui esplode (quando giochi alla pari del numero 90 del mondo - che sarà addirittura 28 un mese dopo - capisci che allora sei un giocatore vero) vincendo il torneo di prequalifiche al Master di Roma e facendo anche una gran figura al primo turno col 20 del mondo Garin.
Ma se ho deciso di fare questo post è perchè un'ora fa Francesco, mio concittadino, giocatore di un circolo a 5 minuti da casa mia, ha battuto e quasi preso a pallate Munar, 90 del mondo (ex 50), uno che solo 7 giorni fa portava, addirittura al terzo turno, al quinto set del Roland Garros Schwartzman.
E Passaro è arrivato così alla sua seconda finale dove incontrerà domani (molto probabilmente) nientepopodimeno che Musetti, ovvero uno dei 5 ventenni più forti del mondo e già piccola star (ma attenzione, gioca la semifinale con lo sconosciuto Gigante, un altro ventenne italiano che meriterebbe un capitolo a parte, uno forte davvero).
Ho visto la partita di Francesco e ho capito che sto ragazzo che il 9 aprile si ritrovò in quell'assurdo match forse non c'era arrivato per caso.
Dritto pazzesco, continue discese a rete, palle corte ogni 3 colpi (tanto che oggi l'ho sentito in perugino stretto lamentarsi di farne troppe), un gioco davvero vario con un servizio e un rovescio da migliorare.
Siccome è forse destino che le partite di Passaro diventino piccole e strane storie è successa anche una cosa che io non avevo mai visto in 30 anni che guardo tennis.
Sul 40 pari del 6-5 per Passaro, il tennista perugino colpisce il net con un dritto atomico.
La palla cambia completamente direzione, in senso orizzontale, di metri.
Non bastasse va sulla riga di fondo, match point per Passaro.
L'avversario spagnolo si infuria, giustamente quella traiettoria è impossibile, se la palla devia così tanto orizzontalmente vuol dire che ha preso "sotto" il nastro ed è passata attraverso.
La regia fa vedere alcuni replay e la sensazione è che invece sia tutto regolare.
E che il dritto di Passaro sia così forte da trapassare il nastro, passandogli comunque sopra.
A niente servono le proteste di Munar.
Passaro serve il match point e vince la partita.
E io mi sono ritrovato una piccola lacrima per questa coincidenza assurda.
A pochi minuti dalla fine del match mi ero detto "Giusè, ora te racconti la storia di Passaro e metti come titolo "traiettorie impossibili".
E poi 10 minuti dopo, all'ultimo punto, ecco quella reale traiettoria impossibile, mai vista prima.
Mi sono emozionato per la coincidenza.
E son venuto qua a raccontare questa piccola cosa

23.3.22

Quello che può accadere in vetta - la mia sui casi Osaka e Barty

 


Nemmeno 15 minuti fa ho saputo del ritiro, a soli 25 anni, della tennista numero 1 al mondo, la Barty.
Senza nemmeno accorgermene mi sono ritrovato al pc a "dover" scrivere queste righe, ricordando anche un altro caso - diverso ma non troppo- che riguarda una recentissima numero 1 del mondo WTA, la Osaka.
A volte si pensa che raggiungere la vetta sia tutto, che rappresenti la felicità.
Non ci può essere visione più superficiale.
Ho provato a dire perchè.

E' di pochissimi minuti fa la notizia che la numero 1 del tennis mondiale, la magnifica - tennisticamente - Ashleigh Barty - ha dato addio al tennis.
A soli 25 anni.
Da numero 1 incontrastata.
La Barty non giocava a tennis, la Barty era il tennis, un pò quello che potremmo dire per Federer.
Non che per questi campioni la forma fisica e mentale non siano importanti (resteranno sempre conditio sine qua non di questo sport) ma per loro giocare a tennis è(era) qualcosa di così naturale che viene quasi automatico personificare questo magnifico sport con loro.
Federer e la Barty sono il tennis.
Ma mentre il primo a 40 anni e passa è ancora lì a provare a non salutarci per sempre (cosa che comunque avverrà quasi sicuramente dopo Wimbledon) la giovanissima australiana ha detto già basta, ad una età dove, di solito, si iniziano ad ottenere i primi risultati importanti (o almeno nel tennis femminile degli ultimi 20 anni che è sempre meno quello delle bambine prodigio degli anni 90).
Ma l'addio della Barty ci porta inevitabilmente alla memoria la crisi irreversibile della Osaka.
Perchè?
Perchè hanno una cosa in comune che sembra scema ma invece è forse il sintomo più importante su cui fare la diagnosi, ovvero essere state numero 1 del mondo.
Per chi segue poco il tennis dico subito che queste due giovanissime ragazze (una 24, l'altra 25) in condizioni normali (ovvero serenità mentale della Osaka e non addio della Barty) sarebbero state numero 1 e 2 del mondo per i prossimi 10 anni (a meno di qualche esplosione là sotto di una giovane - cosa mai scontata, vedete le difficoltà che sta avendo la Raducanu -).
Sono, per farla semplice, troppo più forti delle altre.
Troppo più potente la Osaka, troppo più tennis la Barty.
Eppure entrambe sono andate in grandissima crisi una volta raggiunta la vetta.
Sono due crisi al tempo stesso diversissime ma con qualche punto in comune.
La Osaka ha avuto il coraggio di dirlo pubblicamente, soffre di depressione.
Le veniva l'ansia e la tachicardia nel dovere fare conferenze stampa, nel dover dare risposte a domande sempre uguali, nel dover dare conto a sue sconfitte, a sue debolezze.
Una ragazza poco più che ventenne che soffre di depressione e "ansia sociale" non riusciva più a reggere tutto quel peso, davanti un'opinione pubblica e dei media che le stavano addosso 24 ore.
La Osaka iniziò a disertare conferenze stampa, a prendere multe.
Il suo era un grido d'aiuto che la miope organizzazione del tennis non capì e, invece di aiutarla, pensava solo a punirla.
Tanto che la Osaka ad un certo punto si ritirò, dopo aver vinto il primo turno, dal Roland Garros 2021 perchè non voleva che il suo "caso" fagocitasse tutto il resto, cercando al tempo stesso una sua serenità quella del torneo.
Da lì Naomi (anzi, già da prima) non riuscirà più a giocare con continuità, a reggere la pressione, a vincere.
Completamente un'altra atleta.
Tante persone fanno fatica a capire come una giovane di 22 anni, numero 1 del mondo di uno degli sport più importanti, piena di soldi e di fama possa soffrire di depressione.
Il caso della Osaka ha portato alla luce, grazie al suo coraggio, il segreto di Pulcinella, ovvero che la depressione se ne frega del successo in vita (la vita di fuori) ma ha delle dinamiche, dei percorsi e delle caratteristiche molto più profonde.
Anzi, molto spesso accade che proprio raggiungere la vetta acuisce quelle difficoltà, quei vuoti, quelle paure.
Proprio l'altro ieri ho visto Licorice Pizza e ho trovato dentro il figlio di Philip Seymour Hoffman. Ne parlerò in recensione ma come non ricordare quella scomparsa?
Attore al vertice, considerato uno dei più grandi della sua generazione.
Eppure quel mal di vivere.
Come lui decine, centinaia, di attori, imprenditori, sportivi, uomini di successo, tutti morti suicidi o scomparsi vittime della depressione.
Bisognerebbe capire che la serenità interiore (meno intensa ma più importante della felicità) molto spesso non dipende dal successo di fuori.
Certo le soddisfazioni, la stima, i risultati, gli obbiettivi raggiunti nella vita "emersa" sono importantissimi, e quasi sempre forieri di felicità e infelicità.
Specie in quelle persone che hanno la fortuna o sfortuna di vivere il proprio Io con superficialità, l'incapacità intellettuale o semplicemente la non voglia di guardarsi nel profondo.
Ma una persona depressa può essere depressa malgrado qualsiasi cosa, e ripeto qualsiasi cosa, le accada.
Certo vivere una vita piena, raggiungere risultati, avere mille persone accanto, fare mille cose sono spesso una cura eccezionale, ma resta il fatto che se tutte ste cose non ti tolgono il macigno che hai dentro non solo servono a poco ma, anzi, possono rendere quel macigno ancora più grande.


Se una ragazza che soffre di depressione come la Osaka arriva in vetta, se ha tutto, se tutti la vogliono, se diventa milionaria, se raggiunge sportivamente tutti i suoi sogni, e se malgrado questo sente che "dentro" non riesce comunque ad uscire dalla fossa, allora tutti quei risultati avranno quasi un effetto boomerang, dirsi "ho tutto ma sto ancora male" acuirà ancora più il suo malessere, vuoi perchè scoprirà che quelle che pensava potessero essere delle cure non lo sono state, vuoi perchè adesso non solo è una ragazza depressa ma è una ragazza depressa che deve stare tutti i giorni sotto gli occhi di tutti, vuoi perchè farà fatica a capire "ma allora di cosa ho bisogno per guarire?".
Diventare numeri 1 del mondo in queste condizioni, vedere che le luci dei riflettori non riescono comunque ad illuminare il buio dell'anima, può avere solo un effetto negativo.
Ma c'è anche un'altra motivazione per cui diventare i primi al mondo può causare effetti negativi, ed è quello successo alla Barty.
Il tennis è uno sport di motivazioni (poi, come tutti gli sport individuali, questa frase diventa ancora più forte, tu sei artefice dei tuoi successi, da solo, per questo le motivazioni sono tutto, non puoi sperare nella squadra), di obiettivi da raggiungere (per alcuni sono andare nei primi 100 del mondo, per altri nei primi 10, per pochissimi diventare numero 1, per altri ancora vincere un dato torneo).
La Barty aveva alcuni sogni.
Vincere Wimbledon.
Vincere i "suoi" Australian Open (è australiana).
Diventare numero 1 del mono (oddio, questo non so se sia stato un suo sogno dichiarato ma credo faccia parte dell'ordine delle cose).
Li ha raggiunti tutti e 3.
E se non hai la mentalità del cannibale, dei record, di far soldi, di vincere, vincere e vincere 10, 100, 1000 volte (Nadal, Djokovic etc...), allora quando raggiungi quegli obiettivi le motivazioni crollano.
Mi fa pensare al finale di OldBoy quando Woo-Jin si spara un colpo in testa dopo aver raggiunto il suo obiettivo

"E ora che altro posso desiderare?"

Niente, appunto.
La Barty è arrivata in vetta, anche con relativamente poca fatica (è numero 1 al mondo da 3 anni giocando un quarto delle altre), si è accorta che non ha più fame, che è già sazia, che in quello sport (che è solo una fase della sua vita) ha raggiunto tutto quello che voleva raggiungere.
E allora ha detto basta.


Perchè allenarsi ore e ore al giorno per giocare qualche torneo ogni tanto se le motivazioni non ci sono più?
(tra l'altro secondo me la Barty si ritira in un tennis femminile quasi privo di super campionesse, probabilmente se fosse stato più competitivo avrebbe avuto anche più stimoli, anche se questo sembra un paradoss vista la facilità con cui sarebbe stata ancora per tantissimo numero 1 del mondo).

Un'altra volta qualcuno arrivato in vetta e a cui quella vetta ha fatto male.
Ma se per la Osaka essersi trovata in vetta l'ha fatta sentire "nuda e debole" (come era già) ma sotto gli occhi di tutti per la Barty raggiungere la vetta ha significato invece il completo appagamento, il dirsi "ma ora che ho raggiunto l'Everest chi me lo fa fare di trovare le forze per scalare ancora montagne?".
Sembrano due casi completamente diversi eppure, se ci pensate, hanno un grandissimo punto in comune.
Ovvero quello che raggiungere il massimo, in entrambi i casi, non ha avuto un effetto benefico, non è stato lo stimolo per essere ancora più forti, non è stato un luogo privilegiato per guardare gli altri dall'alto in basso e godere di questo privilegio.
Ma è stato lo scoprire che i risultati non sono tutto.
Che se non stai bene dentro possono farti comunque male.
Che una volta raggiunti possono essere subito sostituiti da altri obbiettivi.
Che in un mondo sempre più competitivo quelli che guardano a chi vince e chi perde sono persone che non valgono granchè.
Perchè c'è solo un luogo dove si vince e si perde.
Ed è sotto la nostra pelle

7.7.21

Su Luis Enrique, sul dolore e sull'esser uomini



In questo periodo della mia vita in cui si sta piano piano, in maniera lenta, costante ma positivamente inesorabile, tornando ad essere un uomo con la U maiuscola ecco che una semplice intervista può diventare emblematica.
Ieri notte vedo a fine partita l'intervista a Luis Enrique.
La Spagna nel gioco ci ha dominati, ha giocato una partita meravigliosa, ha messo in mostra il talento accecante di Pedri, quello di Dani Olmo, un'organizzazione di squadra incredibile e, rispetto a vecchie Spagne, anche una verticalità molto superiore.
Veramente, sono rimasto conquistato da questa squadra.
Non abbiamo rubato la partita ma, a gioco, ci sono stati superiori, e di due spanne.
A fine partita intervistiamo (nel senso noi italiani) Luis Enrique, e io ero già lì pronto a vedere un uomo arrabbiato, scosso, o almeno deluso e con poca voglia di parlare.
Ha perso ai rigori da 20 minuti, e perdere ai rigori ti uccide, specie quando hai dominato nel gioco.
E sento quest'uomo che dice di essere contento, che non ha rimpianti, che ha visto una grande Italia e una grande Spagna, che ha assistito ad una partita di calcio di livello altissimo, che è orgoglioso di sè e dei suoi ragazzi e che augura tutto il meglio all'Italia, ovvero di vincere l'Europeo.
Tutto detto con una serenità e una "verità" nel suo volto che, davvero, quasi mi commuovevo.
Poi si torna nello studio e il presentatore ci ricorda quello che è successo a Luis Enrique due anni fa.
Ovvero perdere per un male terribile e incurabile quella cosa splendida che tiene in braccio nella foto qua sopra.
Probabilmente il dolore più grande che un essere umano possa vivere.
Appena mi hanno ricordato questa cosa (che avevo colpevolmente dimenticato tanto da insultare 3-4 volte - ovviamente per scherzo - Luis Enrique durante la partita) il mio piccolo cervello ha fatto 1 + 1 e ha associato l'intervista disarmante di 2 minuti prima a questa cosa che è successa all'allenatore spagnolo.
Per farla breve Luis Enrique 3 anni fa avrebbe rilasciato la stessa identica intervista?
No.
Certo se una persona è sportiva è sportiva e sicuramente si sarebbe comportato da signore anche 3 anni fa.
Ma, e ne sono certo, la serenità che ho visto in questa ultima intervista, quel sentirgli dire tutte quelle frasi di sconcertante sportività sono figlie di quello che quest'uomo è diventato in questi ultimi due anni.
Perchè si cambia, sempre, e quando ci va bene si migliora.
Ora, senza girarci intorno, il tema da affrontare è il dolore.
Ci sono dei dolori talmente grandi che io li ho sempre associati ad un pozzo.
Questo per 3 motivi.
Il primo è l'oscurità che più scendi il pozzo più ti avvolge.
Il secondo è lo spazio strettissimo di quel luogo, un luogo così stretto che ti impedisce di muoverti, di vedere la luce, di avere spazi più grandi per respirare.
Il terzo è l'inesorabilità del percorso che un pozzo ha, ovvero quello di renderti impossibile girarti e risalire ma dover quasi per forza arrivare fino al fondo.
Eppure in questa metafora di quei dolori così grandi e perfetti per cui ti manca l'aria e ti sembra che finchè non arrivi in fondo non hai modo di risalire (come nel caso di Luis Enrique ma anche in casi meno definitivi, meno gravi ma ugualmente totalizzanti come sono capitati ad ognuno di noi), eppure dicevo avviene sempre - o quasi sempre - una cosa strana.
Ovvero che arrivati in fondo, là dove il pozzo è più scuro, succede un miracolo.
E quel miracolo è che c'è dell'acqua, acqua che si presume stagnante ma che in questi casi, per una sorta di magia che ha a che fare con l'essere umano (no, non calatevi in un pozzo reale per vedere se è vero, in quelli reali non succede) non solo è limpidissima ma risplende.
Quando arriviamo in fondo al pozzo del dolore troviamo una luce e dell'acqua e in quell'acqua vediamo riflessi noi stessi.
Ci vediamo quindi riflessi, vediamo le ferite del dolore passato, ripensiamo al percorso, alla discesa, che ci ha portato lì e inevitabilmente (a meno che certi dolori non ci uccidano del tutto) guardandoci in quell'acqua avviene una cosa stupenda, ovvero lo scoprire di volere bene a quel viso là, il volere bene a quell'essere umano che ha così sofferto.
In quell'oscurità, quando non è più possibile andare più giù, "noi vediamo noi" e decidiamo che adesso che abbiamo i piedi per terra meritiamo di risalire.
Una volta risaliti quasi sempre usciamo persone migliori.
Luis Enrique ha raggiunto il fondo più fondo che un uomo possa raggiungere, è arrivato quasi al centro della Terra, e se è riuscito ad uscirne (anche se una parte di sè resterà sempre laggiù) allora sentire una intervista come quella che abbiamo sentito è veramente niente.
Attenzione, nessuno sta facendo un elogio del dolore, chè non c'è niente di più bello nella vita che la gioia, la felicità, l'amore e la realizzazione.
E nessuno sta nemmeno facendo un discorso sull'utilità del dolore inteso come conditio sine qua non, perchè con una profonda analisi di noi stessi si possono raggiungere certe vette di consapevolezza anche senza passare per forza dal dolore.
Quello che si vuol dire è che se un dolore c'è stato, se ormai è un dato di fatto, l'occasione per renderlo utile è troppo grande.
Non cogliere quell'occasione sarebbe un aggiungere un errore ad un dolore, sarebbe non sfruttare un'opportunità che nessuno si augura ma che  - se ormai c'è stata - in qualche modo deve migliorarci, deve farci riflettere.
Luis Enrique ha avuto un qualcosa di talmente irrimediabile e "perfetto" che per poterne cogliere insegnamenti o crescita personale bisogna avere un'anima eletta (e anche tante persone vicino).
Quasi tutti noi invece affrontiamo dolori sì fortissimi ma che non hanno niente di irrimediabile, anzi, a volte sono dolori che possono somigliare a trampolini.
L'intervista di ieri di quel grandissimo uomo che è diventato (o magari è sempre stato) Luis Enrique non è una lezione di sport, quella è solo la superficie.
L'intervista di ieri è una lucida, meravigliosa ed emblematica esaltazione dei valori.
Era più sereno lui che diceva quelle frasi apparentemente senza senso (almeno nel mondo del calcio) di noi che, da vincenti, eravamo lì ad ascoltarlo, noi che forse quel grado di consapevolezza che lui ha non possiamo averlo.
Che, forse, non potremmo nemmeno averlo mai.
Ma che dobbiamo lottare per raggiungerlo, sempre.

alla piccola Xana Martinez

18.6.20

5 sport completamente assurdi che non avete mai visto


Come molti di voi sapranno sono malato di sport.
Ultimamente, per puro caso, ho cominciato a vedere su You Tube video degli sport più impensabili.
La cosa che mi ha sconcertato non è tanto che esistessero sport così, ma che abbiano dietro federazioni, milioni di appassionati e spettatori.
Iniziamo a vederne qualcuno.
Ah, ci sono sport anche molto più assurdi (che, so, la lotta delle dita dei piedi o le corse su cavalli finti) ma sono quasi sempre tradizioni popolari. Io ho scelto sport impensabili ma che sono tutt'altro che folkloristici, anzi, ci girano soldi e federazioni dietro.

MI RACCOMANDO VEDETE I FILMATI PER CAPIRE

MARBLE RACE


Voi non ci crederete ma ci sono i campionati mondiali di corsa di bilie. E nemmeno su spiaggia come facevamo noi ma su decine e decine di percorsi creati artificialmente.
Nel filmato potete vedere percorsi con spirali, altri di "chi arriva più lontano", altri con acqua.
Con vere e proprie squadre di bilie, telecronaca e tutto il resto.
Quando l'ho visto la prima volta pensavo che fosse tutto in formato grandissimo, solo poi ho capito che si tratta invece delle mini bilie che conosciamo.
Fantastico



TEQBALL


Vi piace il ping pong?
Vi piace il calcio?
Vi piace la pallavolo?
Ecco, immaginate di unirli tutti e 3 insieme.
Un tavolo simile al ping pong, solo con forma più curva, i giocatori che devono usare elementi tipici del calcio (piedi, testa, petto) ma che si passano la palla tra loro massimo 3 volte come nella pallavolo.
Ecco che viene fori il Teqball.
Non c'avete capito un cazzo?
Allora vedeteve la finale dei mondiali



SLOT CAR RACING


Vi ricordate i percorsi con le macchinine elettriche che avevamo negli anni 80?
Ecco, c'è uno sport.
Ma la cosa allucinante non è tanto che esista lo sport quanto LA VELOCITA' con cui vanno le macchinine.
Quando aprirete il video penserete a uno scherzo o esservi fatti di qualche acido.
Beh, vedete il percorso qua sopra? lo fanno in 2 secondi?
Non ci credete? guardate il video e attenti all'epilessia



DISC GOLF


Meraviglioso.
Quando ho cominciato a vederlo all'inizio ridevo per la ridicolaggine, poi mi ha incuriosito, poi dopo 5 minuti ero completamente rapito.
Il disc golf ha le regole del golf in tutto e per tutto se non fosse che al posto di mazza e pallina si lancia un disco tipo frisbee e al posto della buca ci sono delle specie di sacchi dell'immondizia con una rete di ferro per fermare il disco.
Luoghi bellissimi, uno sport che è connubio con la natura, traiettorie impossibili, colpi straordinari.
Sta diventando il mio sport.
Ecco a voi una compilation di colpi.



CHESS BOXING


Di solito i pugili vengono visti sempre come omaccioni con la terza elementare, uomini che hanno visto come il prendere a pugni gli altri l'unica strada per uscire da situazioni di arretratezza culturale o ambientale.
E invece no, e invece non solo, sorpresa!, possono esse intelligenti ma c'è uno sport sempre più famoso e praticato che vede i pugili giocare a scacchi tra una ripresa e l'altra.
Si alternano le due discipline e vinci o se fai scacco matto negli scacchi o per KO nella boxe.
Maremma maiala





1.2.20

Non è più un paese per matti


Madonna quanto t'ho voluto bene Luciano.
Presidenze pazzo, contraddittorio, con quell'aria bonaria ma anche sottilmente viscida, che quando ti vedevo non so se era più forte la voglia di abbracciarti o scapparmene via.
Un anno ho avuto l'abbonamento in tribuna e t'ho visto più volte, là con la tua panza e la tua bionda compagna, sempre pronto ad esultare come nessuno o incazzarti come una biscia, in quel tuo bipolarismo vulcanico che è diventato leggenda.
Sei stato un uomo molto discutibile, talmente discutibile che te ne sei fuggito dall'Italia per non avere problemi, e per goderti la tua vita da ricco a Santo Domingo.
Eppure devo a te a tuo figlio tutte le più grandi emozioni che il calcio nella mia città mi ha regalato.
Ed è incredibile che te ne sei andato ora, adesso che dopo più di 15 anni è tornato Serse, il tuo Serse.
Ma quante cose mi legano a te, quante.
Io a Foggia a vedere lo spareggio per andare in serie B.
Un viaggio lunghissimo, una vittoria bellissima.
E poi dopo scoprire che te avevi venduto un cavallo a un arbitro e la promozione non vale più.
Io a Roma col mio amico Christian, vestiti con la maglietta di Nakata prima ancora che iniziasse il campionato.
La gente che vedeva sti due giovani con la maglietta del Perugia di un giapponese, tutti a prenderci in giro.
E i giapponesi, invece, che si avvicinavano, che erano stupefatti, che ci facevano foto.
Poi Nakata alla prima giornata ne fa due alla Juve e nessuno ci prende più in giro, tutti lo amano.
Te, con i tuoi acquisti esotici senza senso, te che compri un cinese che dimostra 50 anni e non si regge in piedi, te che compri gli iraniani perchè a Perugia sei amico di quelli che vendono i tappeti persiani, te che compri un coreano ma poi sto coreano ci butta fuori dai mondiali e allora te decidi di venderlo, te che compri insieme a tuo figlio giocatori dall'Eccellenza, dalla serie C2, dalla serie C1, e sti semiprofessionisti formano un Perugia che arriverà ottavo in campionato.
E avremo Grosso e Materazzi, nati praticamente qua - arrivati in serie A grazie a voi - che non solo alzeranno la Coppa del Mondo ma saranno i due giocatori più importanti di quella squadra.
Te che per la prima volta porterai una allenatrice donna, la Morace, ad allenare professionisti uomini.
Te che addirittura proverai a portare una calciatrice donna a Perugia, la Prinz mi pare, ma le regole non te lo permetteranno.
Te che mi hai regalato Marco Negri, il mio più grande idolo di sempre, come uomo e come calciatore, e solo la nascita di Ginevra mi ha portato a cambiare le mie password sostituendo quelle con la sua data di nascita.
Te che litigavi con tutti, urlavi come un pazzo, ci facevi sganasciare dal ridere.
Tutto quello che te e Riccardo avete fatto rimarrà unico in Italia.
VI ridevano dietro tutti, ci ridevano dietro tutti, e invece eravamo grandi, grandissimi, pur con tutte le cazzate che facevamo.
Sei riuscito ad ingaggiare anche il figlio di Gheddafi, un non-calciatore che aveva solo un sogno, giocare contro la Juve.
E solo contro la Juve giocherà.
Ho scoperto della tua morte adesso, chissà quante altre cose potrei scrivere, chissà quanti ricordi mi verrebbero ancora in mente.
Ma in questo sono come te Luciano, vulcanico ed istintivo, e ti ho scritto in 5 minuti.
In questo mondo non esiste più un Gaucci, forse nemmeno potrebbe esistere.
I folli, i matti, quelli non corretti politicamente, quelli che si comportano male ma fanno cose uniche, non hanno più asilo in un mondo dove uscire dal seminato equivale a considerarti dagli altri quasi un mostro.
Il mondo di oggi ha bisogno di essere rassicurante e corretto.
Non ti saresti trovato bene qua, hai fatto bene a fuggire, anche se l'hai fatto da testa di cazzo.
Grazie di tutto


3.5.16

Ho visto volare i maiali - La mia sul miracolo Leicester


"Il New York Times, definendo il possibile titolo al Leicester come "possibilmente il più grande exploit sportivo di tutti i tempi", cita qualche dato per dare un'idea dell'impresa a lettori con scarsa familiarità del pallone e magari della lontana Inghilterra. I Miracle Mets che vinsero il campionato di baseball americano nel 1969, compiendo per l'appunto quello che apparve "un miracolo", erano dati all'inizio del torneo 100 a 1. Buster Douglas veniva dato 42 a 1 quando tolse a Mike Tyson il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Ma per le quotazioni più azzardate i bookmaker accettano scommesse anche su eventi non sportivi. L'ipotesi che Simon Cowell, un noto presentatore televisivo inglese, possa diventare il prossimo primo ministro britannico viene data 500 a1. Quella che Hugh Hefner, il fondatore di Playboy, riveli di essere vergine, 1000 a 1. Quella che Elvis Presley venga ritrovato vivo, 4000 a 1. Solo i "maiali che volano" vengono dati 5000 a 1 - è questo l'equivalente di ciò che il Leicester ha quasi realizzato. L'impossibile che diventa realtà."

Io di sport ne ho visto tanto.
E per tanti anni.
Ho visto imprese impossibili compiersi.
O per fortuna, o per merito, o per allineamento di mille pianeti, o per disperazione, o per fame, o per talento, o per determinazione, o per gesti sovrumani.
Ho visto centinaia di Davide lanciare centinaia di pietre nell'occhio di centinaia di Golia.
E ho visto questi Golia cadere fragorosamente a terra.
C'ho lasciato la voce e c'ho finito le lacrime a volte con queste imprese.
Nel calcio, nell'atletica, nel ciclismo, nel basket, nel nuoto, nello sci.
O in piccolissimi sport olimpici.
Questi mesi in cui più passava il tempo più il sogno Leicester sembrava prendere contorni reali mi convincevo, senza alcun dubbio, che quella che si stava compiendo fosse la più grande impresa sportiva di sempre.
O quantomeno la più grande che io in questi 30 anni di amore folle per lo sport avessi mai visto.
Ma non trovavo un' "oggettività" per dirlo. E già mi immaginavo quelli che odiano il calcio tirarmi fuori 100 altre grandi imprese, dirmi che questa non è niente in confronto.
Poi leggo il pezzo che ho messo sopra.
E finalmente trovo l'oggettività di questa cosa, così "viva" e meravigliosa, nei freddi numeri degli spietati bookmakers.
5000 a 1
Come i maiali che volano.
5000 a 1
Per capirsi è molto più probabile che io, senza manco saper scrivere, vinca il Pulitzer.
Non parliamo di qualcosa di improbabile, ma di impossibile.
Vedete, questa è la più grande impresa-sorpresa di sempre perchè è un'impresa "lunga".
Di altre legate alle circostanze, circoscritte in un dato momento, fragorose e incredibili,  ce ne sono state forse centinaia più grandi, belle ed emozionanti.
Ma una cosa è sferrare il pugno giusto al momento giusto, azzeccare lo sprint della vita contro avversari molto più forti di te, trovare la celeberrima giornata di grazia, quella in cui sembra che le divinità stiano là a giocare con te.
Ma non puoi, letteralmente non puoi, portare avanti un'impresa impossibile per 8 mesi.
Otto mesi in cui quasi come una formula matematica tu dovevi, mese dopo mese, distaccarti sempre di più da quegli squadroni lì. Per forza, come una legge fisica.
Perchè quegli squadroni lì hanno giocatori molto più forti dei tuoi, con molto più talento, con molta più esperienza.
Manchester United, Manchester City, Chelsea, Liverpool, Arsenal, adesso c'è anche quel giovane Tottenham che fa paura.
Se il Carpi avesse vinto il nostro campionato sarebbe stata una cosa più piccola. Da noi c'è solo la Juve, tutte le altre sono grandi squadre internazionalmente nulle o ombre di grandi squadre, giusto dei marchi (le milanesi).
Sei destinato a retrocedere. Non hai un solo campione in squadra, uno che sia uno.
E non hai nemmeno grandi giocatori, o ex grandi, o talenti cristallini, niente.
Niente.
I Bookmakers ti danno quasi spacciato, l'anno prima ti sei salvato per un pelo del resto.
Al tuo timone c'è un 64enne che non ha mai vinto manco un campionato, uno che per questo fu anche deriso dallo specialOne.
E vabbeh, ci si può salvare, giochiamo.
Sarebbe inutile ora stare qui a parlare della cavalcata del Leicester.
Anche perchè questa non è tanto un'impresa sportiva, chè questi giocatori rimangono molto più deboli degli altri. Questa è un'impresa umana, non tecnica.
13,14 normali giocatori, quasi tutti sulla trentina, praticamente nessuno con un buon passato alle spalle

C'è Kasper Schmeichel che finalmente, a 29 anni, potrà sentir annunciare il proprio nome e cognome non per forza uniti a quel: "Ah, ma è il figlio di....?"

Ci sono i due centrali Huth e Morgan, uno spilungone, biondo e tedesco, l'altro un armadio a 4 ante giamaicano che viene dal nulla. Il primo ex promessa del Chelsea nemmeno mai arrivato così vicino all'idea di poter sbocciare, l'altro uno che manco aveva mai visto la Premier League praticamente.

C'è Fuchs a sinistra, un altro trentenne. Austriaco, lui sì dal piede educato, ma uno dei tanti mestieranti di cui quasi nessuno avrebbe avuto ricordo.

A centrocampo a sinistra si sono alternati Albrighton, ex grande promessa mai mantenuta del calcio inglese e l'onomatopeico Schlupp, con quel cognome che sembra il rumore che fa quando parte in velocità, il tappo che esce dalla bottiglia.

In mezzo un calciatore dal cognome albionicamente ossimorico, Drinkwater, chè bere l'acqua in quelle latitudini è raro magari non come trovare maiali che volano, no, ma che tentano di farlo sì. Il suo campionato è stato impressionante, lui, il vero regista nascosto di una troupe che non amava tempi morti e riprese statiche, ma improvvisi e velocissimi piani sequenza che, senza nessuno stacco, portavano dalla loro area a quella avversaria.
Dove il più delle volte l'azione, il ciak, finiva col pallone in rete.

Vicino a lui un negretto basso e sconosciuto, uno che veniva dal Caen, che tanti manco sapranno in che campionato gioca. Chi vi scrive già a novembre lo vedeva come il giocatore più incredibile del campionato. Poi solo dopo parecchi altri mesi tutti se ne sono accorti tanto da eleggerlo, appunto, miglior giocatore della Premier. Impressionante, corre, dribbla, interdice, passa, ribalta l'azione. Un fenomeno se lo vedi solo quest'anno. Ma un fenomeno non può esserlo probabilmente. Non lo era nessuno in questo Leicester, non lo è nessuno, non lo sarà nessuno probabilmente.
Il suo nome è Kantè.

A destra uno dei più grandi misteri buffi degli ultimi 10 anni di calcio internazionale. Un algerino anch'esso proveniente da una scarsa squadra francese (il Le Havre) che quasi dal nulla si è trasformato in uno dei calciatori più forti e belli da vedere del pianeta. Tecnica superba, visione di gioco, tiro a giro che uccide, stop estetici, dribbling da far collassare gli avversari. Per almeno 3 mesi ha messo una dietro l'altra una serie di partite che solo alla Pulce ho visto fare. Ma, dio mio, come è possibile?

Davanti un giapponese che corre tanto e segna poco, Okazaki. E' talmente scarsa la rosa del Leicester e talmente priva di passato che, anche se adesso fa ridere dirlo, potremmo considerare Okazaki come una delle stelle della squadra, almeno alla vigilia. Tanto cuore, tante giocate estemporanee magnifiche, tanto sacrificio. Ma del resto le punte del Leicester non sono punte, sono variabili impazzite che devono correre e correre. Dove vogliono.

Impossibile dimenticare poi Ulloa, uno che invece di goal ne ha fatti tantissimi in carriera. Ma uno che, comunque, ha visto più serie B che serie A in vita sua. La squalifica di Vardy è stata l'ennesima perla di sceneggiatura della stagione. Poche partite da titolare per Ulloa, tanti goal. E così in questo successo impossibile c'è anche la sua faccia da indio.

E poi Vardy. Uno che non tanti anni fa lavorava in fabbrica e che pochi anni fa era un dilettante. 29 anni. 22 goal. 10 assist. Il cuore grande come la fame di uno che vuole ancora provarci. Primo difensore della squadra e implacabile realizzatore. Km e Km macinati mantenendo comunque la lucidità di metterla sempre là dentro. In un amen è diventato anche la stella della nazionale.
No, questa che stiamo raccontando non è una storia impossibile, è la raccolta antologica di storie impossibili.

E l'editore/scrittore di questa antologia è italiano.
Ha il viso buono.
E ha i modi da lord che stanno meglio più lassù che quaggiù da noi.
Ha 64 anni.
Ma ha ancora il coraggio di piangere.
E ieri sera, nel giorno più bello della sua carriera, nel giorno in cui l'artefice della più grande impresa sportiva di sempre doveva starsene dietro 45 microfoni, lui invece se ne stava con la madre 96enne.
Ho visto i maiali volare in Inghilterra, vi giuro, l'ho visti.
Ed erano pure leggeri, sembravano nati per quello.
Prima o poi torneranno giù, e qualcuno si farà pure male schiantandosi al suolo.
Intanto, però, lasciatemi così, col naso all'insù.

10.1.16

Il Vecchio, Il Matto e il Bambino, ovvero le storie di una calda estate italiana del 1990

L'immagine simbolo del "mio" Mondiale


"Forse non sarà una canzone 
a cambiare le regole del gioco
ma voglio viverla così quest'avventura
senza frontiere e con il cuore in gola"

E il cuore in gola è anche quello di un bambino di 13 anni malato di calcio che si ritrova il Mondiale nel proprio paese, un'Italia lussureggiante e goduriosa, ancora ignara delle mani pulite che la governano e soltanto incuriosita dai primi barconi colmi di disperazione che arrivano sulle coste.
E quel cuore in gola del bambino che fui non è tanto quello di chi non vede l'ora di tifare la propria nazionale, quella nazionale di Azeglio Vicini così piena di talento, dar Principe de Roma al siciliano dagli occhi sgranati, dal giovane codino buddhista toccato dalla Grazia alla punta che elevò le rovesciate ad arte, ma è l'emozione, l'attesa, l'adrenalina e la voglia di vivere e godersi ogni singola partita, di scoprire i nomi dei calciatori degli Emirati Arabi Uniti o quelli impossibili e tutti uguali dei Coreani del sud.
Perchè quel bambino già da anni riempe quaderni di nomi, statistiche e storie di calcio, e più le longitudini son lontane da Greenwich più il bambino si emoziona.
E' il Paese delle meraviglie di Alice, è la Fabbrica di Cioccolato del bambino goloso, è il Paese dei Balocchi di Pinocchio.
E' il Mondiale di calcio. Ed è a casa mia. E io partirò per Roma.

Totò Schillaci
Totò Schillaci

"E il mondo è una giostre di colori
e il vento accarezza le bandiere
arriva un brivido e ti trascina via
e sciogli in un abbraccio la follia"



Edoardo e Gianna continuano a cantare.
E parlano di colori e bandiere.
E il bambino quelle bandiere le adora, e non solo per il calcio ma anche per la geografia, altra grande passione.
L'Italia è coloratissima. l'arancione dell'Olanda, lo stesso arancione che molti anni dopo, ormai uomo, lo abbaglieranno in un'Olimpiade invernale torinese vista dal vivo, i ritmi tribali dei tifosi camerunensi, l'esoticità della Costa Rica, le orrende tute acetate dei russi, gli scozzesi in kilt, gli inglesi che bevono e menano, gli Stati Uniti che iniziano a scoprire veramente il soccer, l'incredibile entusiasmo misto alla religione di brasiliani e argentini, gli jugoslavi ancora tutti insieme ma pieni di fratture, e soprattutto una santabarbara di tricolori italiani che ammantano il suolo patrio tanto da coprirlo completamente.
E non so se l'abbraccio possa sciogliere questa follia.
Ma sì, sembra veramente di essere in un gigantesco abbraccio.


"Notti magiche
inseguendo un goal
sotto il cielo di un'estate italiana

e negli occhi tuoi
voglia di vincere
un'estate
un'avventura in più"

Sotto quel cielo che anche se piovesse te vedresti solo il sole il Mondiale comincia.
E quell'espressione "inseguendo un goal" non ha senso, ma sembra così bella.
Ed è bellissima, storica, la prima partita.
L'Argentina campione in carica affronta degli africani neri come la pece, i camerunensi.
L'Africa non è praticamente nessuno nel calcio, ha solo due squadre.
Davide nero sfida Golia bianco.
E lo mette a terra, tra gli sguardi attoniti di uno stadio stracolmo.
E la pietra che usa Davide è quella di una punta che sale in cielo e colpisce di testa. Sembra un tiro innocuo ma Pumpido, come scrisse De Gregori parlando di Nino e della sua maglia numero 7, lo lasciò passare.
L'Italia si innamora di questi africani, impara a memoria la formazione, scopre nuovi colori.
Ancora però il Vecchio Leone di cui poi parleremo non viene fuori, lo farà, in modo dirompente, solo poi.
L'Italia comincia bene e vince grazie a quello che, dal nulla, diventerà l'uomo simbolo dei Mondiali, un brutto nanerottolo con la faccia da associazione criminale.
Schillaci si chiamava. E il suo nome divenne leggenda.
Ma questo non è il post del resoconto sportivo di un mondiale.
Questo è il post di un bambino e delle storie che lo affascinarono.

Lo storico goal di Oman Biyck nella partita d'esordio


Quella degli Stati Uniti, un crogiolo di razze e di nomi. In porta Tony Meola, un portiere d'albergo che ha la sfortuna di esser venuto fuori 15 anni troppo in anticipo altrimenti, ne son sicuro, l'avremmo visto ne I Soprano.

C'è la Cecoslovacchia con una punta gigantesca che sembra una star del rock. Si chiama Skuhravy, ed è un grandissimo calciatore.

C'è la Romania più forte di sempre, quella di Hagi, Lacatus, Dumitrescu, Popescu, Munteanu.

C'è in'Inghilterra pragmatica, bruttina, anche se là in mezzo ha giocatori di una classe infinita. Si chiamano Beardsley, Barnes, Waddle, Platt. Davanti un serpente velenoso straordinario, Lineker.
Ma quello che ruba gli occhi è uno che col calcio apparentemente non c'entra niente. E' tracagnotto, ha la faccia da cazzo, fa le smorfie, sembra giocare solo per divertirsi un pò. Ma ha due piedi che un feticista del calcio starebbe lì a guardare fino alla fine dei suoi giorni.
E' Gazza Gascoigne, un atleta che dell'atleta non ha nulla. Probabilmente si farà 5 birre anche prima di giocare. Adesso, 25 anni dopo, è un uomo distrutto da almeno 15 di anni. Solo che sia ancora vivo è qualcosa di miracoloso. Quanto ti ho amato Gazza

il Genio: Paul Gascoigne

Ci sono gli Emirati che ne beccano 11 in 3 partite, il Costa Rica che passa il turno, l'Egitto che se la gioca con tutti. il Belgio che sembra grande, Matthaus che insegna calcio.

Ci sono decine di storie che se avessi la pazienza di voler raccontare e voi di voler sentire starei qua a farlo.
Ma, almeno io, quella pazienza non ce l'ho.

E allora torniamo al titolo, al Vecchio, il Matto e Il Bambino.
Il Bambino l'avete già conosciuto.
Ma non sapete che si trova a Roma, allo stadio.
C'è Italia - Cecoslovacchia.
E Baggio decide che quello non è il giorno giusto per giocare a calcio, preferisce lo sci.
E slalomeggia come in quegli anni faceva solo l'Albertone nazionale.
Dribbling di una leggerezza infinita, un ballerino.
E segna un goal pazzesco.
Il Bambino è basso, non ricorda quasi nulla, solo tante persone che sembrano travolgerlo.

Baggio e la fine del suo capolavoro. Visto dal vivo

Il Vecchio è nero, ha 38 anni, un'età impressionante per giocare a pallone.
Nel suo continente, l'Africa, è una specie di personaggio che trovi nei libri di Storia.
Ma qui non lo conosce nessuno, nessuno.
Segna due goal nella stessa partita alla forte Romania.
E' una pantera. Dopo il goal va alla bandierina e inizia a danzare in un modo che nessuno si dimenticherà. Lo farà ancora nel Mondiale. E ancora.
Si chiama Roger di nome, Milla di cognome.

La danza del Vecchio Campione

Il Matto è uno che se Soderbergh fosse passato di là avrebbe sicuramente chiamato per Traffic.
E' colombiano, capellone, una faccia e un atteggiamento da bullo e delinquente.
Il suo mondo, diresti, è quello dei cartelli della droga, non il calcio.
Dovrebbe essere un portiere ma in realtà lui se ne gironzola per tutto il campo. Lo trovi al limite dell'area, anche fuori, Lo vedi partire palla la piede scartando gli avversari.
E nessuno gli può dire niente sia perchè questo magari poi gli avrebbe piazzato una pallottola in testa sia perchè se c'è sto un leader nel calcio questo è lui.
Un giorno deciderà che è venuto il momento di far vedere al mondo qualcosa che il mondo su un campo da calcio non ha mai visto.
Si chiama Scorpione quel qualcosa.
Qualcosa che solo un Matto poteva fare e inventarsi.
Lui, invece, si chiama Higuita.
Potremmo anche parlare di un altro personaggio indimenticabile di quella nazionale, uno che lo vedi e cominci a ridere, "Dai, non può giocare a pallone uno coi capelli così, non scherziamo".
E invece questo non solo gioca ma gioca anche da Dio. Forse ci troviamo davanti addirittura ai due migliori piedi della storia del calcio colombiano.
Valderrama Carlos.

Carlos Valderrama

Il Vecchio e Il Matto si incontrano negli ottavi di finale.
L'occasione per entrambe le nazionali è unica. un posto ai quarti.
La partita va ai supplementari.
Il Vecchio prende la palla e con un'azione formidabile firma un goal meraviglioso.
A 38 anni agile come nessuno.
Va alla bandierina, la mano sinistra sul ventre e quella destra volteggia in aria, la sua danza.
La partita è ancora in bilico.
E vedi Il Matto quasi a metà campo con la palla la piede. E' un'immagine strana, di solito quelli vestiti in maniera diversa da tutti gli altri li trovi in porta.
Ha così tanto carisma ed ascendente sui suoi compagni che questi non solo non gli dicono di tornare indietro, ma gli passano la palla di continuo.
Come adesso.
Il Matto la stoppa, decide di non restituirla ai difensori e prova a dribblare con classe la punta avversaria.
Ma la punta avversaria è Il Vecchio.
La palla è rubata, la porta è vuota, Higuita prova da dietro ad abbattere Milla ma non può raggiungerlo.
Giuseppe è commosso alla tv mentre vede il quasi 40enne africano ballare ancora sulla bandierina.
Decide che quei 5 secondi sono i 5 secondi del suo Mondiale, quelli in cui i due personaggi più incredibili dello stesso sembrano quasi essersi messi d'accordo per regalargli la sceneggiatura, a lui che di sceneggiatura ancora non capisce niente, più bella che potesse esistere.

La disperata rincorsa di Higuita


Il Mondiale va avanti, Caniggia anticipa le farfalle di Zenga, i rigori ci buttano fuori.

Maradona in diretta tv ci dà dei figli di puttana durante l'inno.

E tante tante altre cose.

Notti magiche cantavano Edoardo e Gianna.
Un'iperbole apparentemente.
Eppure solo di magia posso parlare.
Se è vero che nessuna delle nostre estati potrà mai ritornare possiamo avere ancora il privilegio di ricordarle.
E se chiudo gli occhi sento un boato della folla in uno stadio, vedo quaderni riempirsi di tabellini, ricordo pomeriggi passati con gli occhi sgranati a vedere coreani correre a casaccio per il campo.
Mi verrebbe quasi voglia di ballare solo a pensarci.
Mano sinistra sul ventre, destra che volteggia nell'aria.