27.9.23

Recensione: "Medusa Deluxe" - Su Mubi

 

Su Mubi.
Un film strano, indecifrabile, dall'atmosfera unica, come piacciono a me.
E un'altra di quelle perle da aggiungere a quella ristrettissima cerchia (un giorno mi deciderò a farne una lista) di film in unici (o comunque pochissimi) piani sequenza.

Siamo in uno stabile dove sarebbe dovuta avvenire una gara di Hair Stylist.
Ma qualcuno è stato ammazzato.
Nel frattempo che la polizia (che non vedremo mai) sta facendo le sue indagini, modelle, stilisti, addetti alla sicurezza e altre persone parlano di quello che è successo o, semplicemente, se ne fregano, pensando solo ad una gara che ormai, è ovvio, non si farà più.
Un giallo? Un thriller? Un film a suo modo anche "divertente"? 
Un pò di tutto questo, con un finale "diverso" e inaspettato, per me super.
Film tecnicamente mostruoso, e non solo per il piano sequenza, ma anche per le luci, la colonna sonora e tanto altro.
Eppure a Medusa Deluxe, opera basata principalmente sulle ossessioni, sembra mancare qualcosa per farcelo apparire straordinario.
Ma questo è quello che accade sempre con questi film strani, che ti confondono, che non riesci a decifrare.
E' il loro destino quello di farti restare al tempo stesso affascinato e confuso.



Medusa Deluxe è un film tecnicamente superbo e non solo Siamo dentro un camerino.
Due parrucchiere, una modella.
L'inquadratura volteggia tra di loro senza mai uno stacco e io che penso quanto sia bello questo piano sequenza non sapendo nulla del film, non sapendo che, in qualche modo, questo sarà tutto Medusa Deluxe, un film in unico piano sequenza.
E, se possibile, il piano sequenza lo avremo anche nei dialoghi, nelle parole, un fiume vorticoso e inarrestabile, tanto che il primo silenzio arriverà dopo addirittura un quarto d'ora.
Si candida ad essere una delle cose più strane, originali e peculiari dell'anno questo film, opera prima straordinariamente evoluta per tecnica e consapevolezza, un qualcosa che sembra scritto e girato da qualcuno che sa maledettamente quello che fa.
Impossibile catalogarlo, alterna momenti divertenti (mai comici però) ad altri da "reality" (c'è un grande senso di realtà dentro), ha delle leggere tinte di giallo e thriller per finire, giusto un pochino, in una leggerissima dimensione esistenziale, anche, alla fine, questo resta uno di quei film "belli e senz'anima", non nel senso brutto del termine, ma in quello di esser di livello davvero notevole riuscendo però parlare quasi di niente, a non avere profondità, a sfiorare i suoi personaggi senza penetrarli mai, come - ed è qui che il piano sequenza diventa perfetto - un vento che passa loro intorno e si sposta continuamente.
Forse questo suo non fermarsi mai (tra inquadrature continue, dialoghi senza sosta e decine di volti e spazi) alla fine dà l'effetto non solo di coinvolgerci ma, all'opposto, anche quello di non farci mai pensare un attimo, non darci respiro, non permetterci mai di riflettere, analizzare bene il film e le situazioni.
Ecco, a volte potrebbe essere quasi noioso tutto questo perchè si fatica e non si respira mai per una vicenda che sì ci interessa e stimola (capire chi è l'assassino ad esempio) ma non ci coinvolge mai in prima persona, come se noi quel vortice lo vedessimo da fuori, in tutta sicurezza, senza sentirci mai dentro l'occhio del ciclone.


Per prima cosa, anche se l'ho accennato, bisogna dire che questo è un film tecnicamente mostruoso.
E non parlo solo del piano sequenza, tra l'altro difficilissimo visto la miriade di spazi coinvolti, di alcune sequenze difficilissime (pensate all'azzuffata in camerino) e la costante presenza di specchi o pareti riflettenti (magari i riflessi sono stati tolti in post produzione ma la scena al bagno in cui l'operatore per passare da uno specchio all'altro abbassa la macchina da presa ci fa pensare che sia tutto dannatamente umano).
Insomma, chi ama questa tipologia di ripresa (come me) e - sempre come me - oltre a vedere il film si diverte a immaginare i funambolismi dell'operatore, troverà Medusa Deluxe stupendo, una delle meglio cose viste in quest'ambito.
Ok, il tipo di ripresa, vero, ma non solo.
La fotografia è straordinaria, con un uso delle luci perfetto (ne troverete a decine diverse).
C'è proprio la sensazione che, un pò come la materia del film (una gara di acconciature), anche la stessa confezione voglia puntare su un senso estetico massimo, sul "bello".
Scene come la ragazza che cammina con la barca fosforescente in testa restano impresse.
O i visi in controluce che abbiamo nel camerino, da infarto.
O il drone che dopo un'ora spezza "finalmente" il piano sequenza per andarsene lassù, penetrare il vetro (anche in Birdman c'erano cose del genere) e far cominciare il secondo (?) piano sequenza, quello più allucinato.

20.9.23

Recensione" Io Capitano" - Al Cinema 2023

 

L'ultimo film di Garrone (regista e autore che adoro) è forse una spanna sotto alle sue opere più grandi (L'imbalsamatore, Gomorra, Reality, Dogman) ma è comunque l'ennesimo gran film di una carriera invidiabile.
La storia di Seydou e Moussa, due giovani senegalesi col sogno di arrivare in Italia, in Europa.
Ne nasce un road movie che attraverso bus, jeep, lunghissime camminate nel deserto e un'ultima traversata in barcone deve portare questi due ragazzi, e tutti i migranti insieme a loro, a questo sogno europeo che molte volte si rivela soltanto una chimera.
Una prima parte non del tutto convincente per fotografia, per montaggio e per racconto, fa da base ad una seconda molto più drammatica.
Eppure "Io Capitano" sembra un film che rifugge il completo realismo per diventare qualcosa di più simbolico.
E Seydou, questo giovane straordinario ragazzo, diventa una specie di Cristo che, attraverso l'empatia e l'amore per gli altri, può far aggrappare l'intera umanità alla speranza


Quando ho visto Seydou urlare continuamente a pieni polmoni "Io capitano! Io capitano! Io capitano! Io capitano!" ho pensato che il film dovesse fermarsi in quel momento, perchè una stessa identica scena ha una potenza diversissima in base a dove viene inserita.
E una sequenza finale, da sempre - parlando di potenza - ne ha una tutta sua che tutte le povere sequenze inserite prima di lei possono solo sognarsi.
Come la fine di una canzone, come la fine di una storia, come la fine di una vita, l'ultima cosa che ci rimane resterà sempre, nel bene o nel male, indimenticabile.
L'urlo di Seydou è, "tardellianamente", senza freni, senza misura, l'urlo più grande che quel meraviglioso ragazzo potrà emettere in vita.
Eppure è un urlo afono per noi spettatori, completamente sovrastato dalle eliche degli elicotteri della guardia costiera (e, curiosità, quell'elicottero è nell'intero film l'unica "presenza" non africana).
Un primissimo piano straordinario in cui l'audio che non senti (l'urlo) è mille volte più potente di quello che ti assorda (le eliche).


Seydou è vestito con la maglia del Barcellona come sono vestiti con maglie di squadre di calcio tantissimi suoi compatrioti e amici.
Queste shirt con tanto di sponsor miliardari indossate da poveri cristi possessori di nulla è uno di quei contrasti tristi e meravigliosi che, in qualche modo, possono rendere belli i film e le nostre vite.
Eppure, se ci pensate, in questo film in cui sia i nostri protagonisti sia gran parte degli immigrati sul barcone sono sempre vestiti con maglie da calcio, ecco, quel "Io Capitano" urlato nel finale si contorna anche di un significato metaforico sportivo, come se Seydouy fosse veramente il capitano di un'unica squadra, dando a quella parola un duplice ambito ma uno stesso significato, io sono colui che li guida, io sono quello che si mette davanti a tutti e parla a nome di tutti (come nel calcio fanno i capitani con gli arbitri).
Quando, in teoria, il suo ruolo di conduzione della barca doveva impaurirlo e tenerlo nascosto, ecco che nel finale Seydou diventa veramente capitano, ma non tanto perchè ha portato tutta quella gente fin là ma perchè li ha sostenuti moralmente, perchè li ha protetti, perchè ha lottato per loro, perchè ha dato loro speranza.
Seydoux è entrato in quella barca come impreparato e impaurito conducente e ne è uscito come capitano, come leader e, soprattutto, come simbolo.
Ecco, simbolo perchè io credo che questo gran bel film di Garrone (in ogni caso una spanna sotto ai suoi 3/4 capolavori migliori) vada letto soprattutto in maniera simbolica.
Vero, è raccontato in maniera ultrarealistica (anche se montaggio e fotografia remano contro al realismo, ne parleremo) ma alla fine Io Capitano - un pò come fu per quell'immenso film che è Reality o come è successo anche in Dogman (vedi finale) - è l'ennesimo Garrone in cui il racconto di una "storia vera" riesce in qualche modo ad ergersi (o abbassarsi?) a simbolica.
Il canaro che in un finale quasi onirico offre al popolo l'enorme corpo del pugile è in qualche modo simbolo dell'oppresso che uccide l'oppressore, del suddito che uccide il Re e vuole mostrarlo agli altri sudditi, per essere amato.
E pure in Reality il nostro protagonista, in modo più o meno esplicito, finiva in un mondo "tutto suo" apparentemente molto legato alla realtà ma alla fine sradicato da essa.
E come in Dogman anche lì il finale sembrava quasi una reificazione della sua pazzia con quella risata e l'inquadratura che se ne andava fuori dalla casa, fuori dalla città.
Lassù.

12.9.23

Festival del Cinema di Venezia 2023 - Recensione di ben 23 (VENTITRE') film - A cura di Francesca, Enrico e Tommaso

 


Nuovo record sul buio, 23 mini-medie recensioni tutte insieme :)
Quest'anno "avevo" 3 ragazzi a vedere film a Venezia.
Per problemi organizzativi miei o di recensioni tardive loro (non sono professionisti e hanno fatto tutto in ritagli di tempo) abbiamo deciso di fare un "mega unico grande postone" adesso, con tutte i loro pezzi.
In realtà a me piace molto questa impostazione, anche perchè trovare tutto in un luogo unico è davvero comodo.
Vero è che a 2/3 giorni dalla chiusura della Mostra questi post sembrano già anacronistici ma ricordiamo sempre che questo blog esiste per parlare di film, non di attualità o premi, di cui ce ne siamo sempre fregati.
Quindi vi lascio alle recensioni (tantissime!) di Enrico, a quelle di Tommaso e all'unica (però vedi che occhio? quella del vincitore) di Francesca.
Non posso leggerle perchè non ho visto nulla ma son sicuro saranno davvero interessanti e ben scritte.
Ah, visto il numero diversissimo di contributi di ognuno ho pensato di alternare i 3 nell'impaginazione (grazie Gianluca, sempre)
Ah, potreste trovare anche lo stesso film raccontato da più persone eh, credo sia interessante come cosa.
Buona lettura!

ENRICO GASPARI


LUMBRENSUEÑO di José Pablo Escamilla (Messico)


Ah, Venezia, la Mostra del Cinema. L’aria di mare e di novità. La stanchezza che si mischia all’eccitazione febbrile. Le stroncature, che, come dice Ego in Ratatouille, “sono uno spasso da scrivere e da leggere”. Cominciamo proprio così, oggetto, questo film messicano. Mentre entravo in sala leggermente affannato, ho catturato qualche stralcio di introduzione della presentatrice, che diceva come questo film fosse prodotto a basso budget proprio dalla Biennale, e creato da un collettivo di registi. Già mi sono scesi i sudori freddi, ma forse era solo la corsa per raggiungere il posto, non essere prevenuto, mi sono detto. Poi, il film comincia, introdotto dal solito montaggio animato. (E questo non c’entra niente, ma da quanti anni è che non lo cambiano? Il logo viene giustamente rinnovato ogni anno, e poi al film vero e proprio trovi sempre lo stesso motivo, che sarà lì ormai da quando la Coppa Mussolini era ancora un premio.) Insomma, comincia l’avventura. Ed ecco flash, luci sfocate, scritte ad effetto, per accompagnarci. Non giriamoci tanto intorno, il film è brutto. Anzi, più che altro noioso e pretenzioso (nonostante attori anche bravi, come il protagonista e la sua sorella filmica), magari non ai livelli di The Maiden, l’anno scorso. Persino la trama ha qualche similitudine, se così vogliamo chiamare la vita di questo ragazzo in un fast food messicano, e come la cambia dover affrontare un lutto. Questo porta ad un primo stralcio del film profondamente inconcludente, dove si vaga qua e là senza un punto. Un secondo, dove immagino dovremmo sentire il dramma per il suo amico complottista, quello che per tutto il film fa cose e spara discorsi senza capo né coda. Quasi mi aspettavo che ad un certo punto saltasse su, gridasse “LIBERATI!”, e armato di un cappello di stagnola andasse ad unire le forze su Facebook al complottista di Piove. Terza e ultima una mezz’oretta di elaborazione, dove devo essermi addormentato più volte, data l’alzataccia per venire a Venezia. Nel mezzo, continui stralci, come ho già detto, di frasone che compaiono sullo schermo, e sembrano le robe fintamente profonde e nichiliste che scrivevo io in terza media per sentirmi importante. Insomma, cominciamo bene.


DOGMAN di Luc Besson (Francia)



Con una certa sorpresa, ho ritrovato al Festival (in concorso pure!) Luc Besson, uno dei miei registi preferiti ancora in attività. E con un titolo che agli italiani non può non rimandare a Garrone, presente anche lui in concorso e, credo non a caso, nei ringraziamenti di questo film. La storia comincia in una notte americana, quando la polizia ferma per strada un furgone. Quasi un inizio alla Prisoners, con la pioggia, questo travestito sanguinante e di cui non vediamo il volto alla guida, nessun documento ma un furgone pieno di cani. Il resto è un lungo flashback alla stazione, dove il nostro “uomo cane” racconta la sua tragica e strana storia alla dottoressa chiamata lì per capire chi è. Insomma, intrigante, nelle premesse come nello sviluppo, anche se a titolo assolutamente personale, mi è sembrata una pellicola, come dire, poco “bessoniana”. Non che il francese volesse fare Joker piuttosto che un film suo, come hanno sostenuto tanti. Uno dei pregi maggiori qui, è la mancanza di quella complicità morale con un protagonista che amorale lo è totalmente, che affossava un film come quello di Phillips. Besson è interessato solo a raccontarti una storia, quella di un uomo particolare, che ha fatto grandi cose e terribili cose. Non da solo ovviamente, ma circondato dai più fedeli amici dell’uomo. E non me ne voglia un Caleb Landry Jones coraggiosissimo, spesso sopra le righe ma a suo modo sontuoso, sono loro le vere star del film. I canidi di tutte le razze e dimensioni, le loro espressioni (far recitare un cane è difficile, anche se poi non come con un cane di attore), la loro presenza intimidatoria o consolatoria, la loro intelligenza, chiaramente assistita dietro le quinte dai non meno importanti addestratori. Ecco, questo è il Besson che ci piace, che lavora alla vecchia maniera con la terra e con il fango, senza la faciloneria degli effetti speciali; che è sfrontato e senza paura, come nella scena del drag show sulle note di Sweet Dreams, dove affronta il camp e lo trasforma in lirica, similmente a come aveva fatto in Valerian nell’analoga scena del club mutaforma. D’altronde, credo che Besson sia l’unico regista al mondo in cui la quota “citazioni ai classici” (stavolta con Shakespeare) sia altrettanto consistente di quella “sparatorie ignoranti”… Messo da parte tutto questo, sembra comunque una Carica dei 101 - quello sì, rivisto recentemente, un signor film coi nostri amici animali – in salsa signori della droga più che una vera opera bessoniana. E non aiutano certi difetti oggettivi, come i suddetti criminali, tremendamente sopra le righe e stereotipati, pura carne da macello. Lo sono pure il padre e il fratello nei flashback d’infanzia, protagonisti della scena del fucile, un incredibile pasticcio di continuità: viene sparato un colpo che sarà all’altezza dei piedi (tanto che lì si crea un buco nella rete della gabbia), lui che vola all’indietro come se lo avessero colpito in pancia, e il colpo vero e proprio che si scopre essere… al dito. Mentre la scheggia che lo paralizza, nella schiena. Insomma, un disastro, come lo è il personaggio della dottoressa, totalmente inutile, noiosa, senza un’espressione che sia una diversa da quella che si tiene in faccia tutto il film. Però c’è anche tanto di bello, i cani, le scene e i personaggi del club, tutte divertenti e ispirate, il ritmo che non cala mai, l’originalità di una sceneggiatura autentica, scritta di suo pugno da Besson. Nonostante sentimenti contrastanti, alla fine, davvero non si riesce a voler male a questo film.


SER SER SALHI di Lkhagvadulam Purev-Ochir (Mongolia)




La City of Wind del titolo inglese di questo film è Ulan Bator, la capitale della Mongolia, paese immensamente affascinante, e che, credo per la prima volta, al Festival, posso scoprire in un esemplare della sua filmografia. E mi è andata bene, perché Ser Ser Salhi è un bel, forse ottimo film. La storia segue Ze, un ragazzo dei quartieri yurta della metropoli, già questo un dettaglio particolare. Il mio occhio occidentale, che tra l’altro in Asia non è mai stato, si intriga davanti ad un posto così legato alla propria Storia, a quella tradizione nomadica che ha distinto il ceppo mongolo nei secoli, e che ancora non può rinunciare alle tende, nemmeno all’epoca degli appartamenti automatizzati. Uno di quelli che sogna anche il nostro protagonista, giovane, studente di una città viva e per molti versi orientata al futuro, sebbene abiti in un simile quartiere con la sua famiglia e faccia, a richiesta, il lavoro più arcano che esista, lo sciamano. È durante una di queste consulenze che incontra una ragazza, Maralaa. Sebbene malata, e prossima ad una delicata operazione, lei non crede minimamente agli appoggi del “corpo spirituale”. Diversamente da lui, che fa lo sciamano non per soldi o spinto dalla famiglia (almeno, non principalmente), ma sente fin da piccolo questa connessione ultraterrena. Eppure, dopo che l’intervento riesce, i due si ritrovano e cominciano effettivamente a legare. Molto interessante l’atteggiamento dei genitori in questo, defilato, sebbene non assente, e certamente amorevole. Ma d’altronde questo è un efficace spaccato di famiglia, dove spicca la sorella, che per prima aveva sentito la ribellione adolescenziale, la voglia di scappare di casa, l’ansia della sua età che il fratello doveva calmare con lo scacciapensieri. Ad un certo punto tocca a Ze, innamorato, provare la felicità mondana, sentire allentato il legame coll’antenato, ed è lei, tornata a casa dopo essere rimasta incinta, che si dimostra adulta e prende in mano la situazione (e lo scacciapensieri). Nemmeno Maralaa rimane schiacciata, anzi è un gran ritratto di gioventù inquieta, senza amici perché scostante, infelicemente tesa tra la madre, più credente, che cerca di rifarsi una vita a Ulan Bator, e il padre trasferitosi in Corea, che le manca profondamente. Insomma, è chiaro come questo film voglia raccontare il conflitto tra la modernità e le tradizioni, e come esse vengano accolte o respinte dai giovani mongoli. Il maggiore successo della pellicola, comunque, è accontentarsi largamente di essere una semplice, ma per nulla semplicistica, storia d’amore tra ragazzi, raccontata con grazia, poche pretese, e due interpreti dolcissimi. Per quanto mi riguarda, specie visto l’andazzo della Mostra, un successo.


AGGRO DR1FT di Harmony Korine (USA)



Una provocazione di Harmony Korine. Qualcuno si sarebbe aspettato qualcosa di diverso, da un regista col curriculum simile? Credo piuttosto che chi è entrato nelle sale che davano Aggro, si aspettasse un film provocazione, e se certamente il secondo attributo è giustificato, il primo mi lascia perplesso. Di solito i film si vedono, non si subiscono, almeno non del tutto, parzialmente casomai. Qui lo spettatore può anche rimanersene fuori dalla sala, perché il suo coinvolgimento è totalmente sacrificato. E intendiamoci, all’inizio è anche affascinante questo radicalismo, la rappresentazione perversa di un mondo dove tutto è bruttezza e orrore, dove il killer protagonista ha letteralmente un demone in sé, che gli sussurra, anzi urla, perché niente è sottile o delicato qui, vomita cattiveria e orrore. Ma dopo dieci minuti, diventa unicamente punizione. È come quando ti mettevano, appunto, in punizione alle elementari (almeno a me è successo le ultime volte lì, non so se lo facciano ancora): volta le spalle alla classe e guarda il muro. Non imparerai nulla, anzi sarai faccia a faccia col nulla stesso. Qui però non puoi nemmeno goderti il silenzio e la tranquillità che esistevano persino in esperienze simili: sei assordato da un sonoro opprimente, pungolato agli occhi da un regista che ha creduto bene girare un’ora e venti di infrarossi, mortificato da una storia che potrebbe aver scritto uno di quei ragazzini americani che va a sparare nelle scuole – il protagonista che si definisce “il più grande assassino del mondo”, roba di un infantile unico – dove tutte le donne sono puttane e tutti gli uomini demoni violenti e scamiciati. Aggro Dr1ft qualcuno ha anche avuto il coraggio di definirlo geniale; per quanto mi riguarda geniale forse Korine lo è, che da quando ha scoperto le spiagge, i passamontagna e probabilmente la droga della California costiera in Spring Breakers, “racconta” solo quello facendosi anche ricamare sopra dai critici. Beh, contento lui, contenti voi, contenti tutti.


TOMMASO FERRERO

LA BÊTE di Bertrand Bonello (Francia, Canada)



Una bestia ti sta inseguendo, quando ti troverà qualcosa di terribile accadrà. “Ficata”, penso subito, “che premessa bomba”. Eppure, la bestia non arriva mai a mordere, come La Bête non arriva mai ad un punto fermo che ci faccia dire “Oh, ste due ore e trenta davanti a uno schermo sono proprio state un buon uso del mio tempo”. Resta un grande amaro in bocca di aver visto un film che poteva essere, ma non è stato, un “potrebbe emozionarmi”, ma non ha emozionato. Insomma, La Bête è un film elegantissimo, capace di ottimi picchi visivi, di un montaggio sperimentale, ma non fastidioso, e di giocare con il significato del tempo sullo schermo in maniera egregia. Tutto questo è ottimo, se non fosse che poi ci propone una lettura di una storia d’amore sciapa, non del tutto riuscita, che arriva e non arriva allo stesso tempo. Perché di amore, infine, parla, una coppia di innamorati costretta o benedetta, dal dovere di rincontrarsi a ogni reincarnazione, ma che non possono mai consumare e portare a termine il loro amore. Amore e morte, rassegnazione e lotta e un futuro in cui i grandi sentimenti umani, perché scomodi, vanno eliminati tramite una lunga e complessa terapia. Peccato che siano gli stessi sentimenti che il film non riesce ad innescare nello spettatore, quindi, forse, “missione riuscita”? Comunque, Lea Seydoux e George McKay sono due interpreti davvero eccezionali.