29.9.17

Recensione: "Kotoko" - Orientarsi a Oriente, viaggio nel cinema asiatico - 1 - di Claudio Cappannari


Claudio è un amico.
Claudio è una persona buona, quasi un ossimoro con gambe e braccia tanto è schivo quanto simpaticissimo.
Ma, fuor di vita, quello che ci interessa in questo contesto è che Claudio è uno dei più grandi esperti di cinema orientale italiani nonchè subber ("sottotitolatore") di tanti capolavori di quelle latitudini.
Gli ho chiesto se se la sentiva di fare una rubrica.
Se l'è sentita.
Questo il primo appuntamento

In quest' opera Tsukamoto si discosta (ma non del tutto) dai territori metropolitani per avventurarsi nei meandri della mente. Oltre al proprio inconfondibile stile, il regista ci regalerà un vero e proprio one-woman-show grazie alla straordinaria interpretazione della cantante Cocco, che donerà corpo, mente e voce al personaggio di Kotoko, oltre che occuparsi della scenografia e della sceneggiatura, scritta a quattro mani col regista. 
Il film si apre con una bambina che danza sola in riva al mare, questa sarà l'unica scena realmente idilliaca e spensierata, perché di colpo saremo catapultati nella vita presente di Kotoko, interrotti da quell' evento traumatico indefinito che probabilmente è all'origine dei suoi problemi. 
Kotoko è il titolo del film, ed in effetti Kotoko non solo è presente costantemente, ma tutte le immagini che vedremo corrispondono alla sua visione ed ai suoi pensieri. La camera a mano instabile mostrerà tutto il suo disordine e la sua fragilità, e questo movimento ai limiti, o oltre, del fastidio ci accompagnerà per tutto il film, senza tregua saremo continuamente sballottati nell' inquadratura, così come una persona con problemi psichici è costretta a convivere ogni singolo secondo con la sua condizione. A questa atmosfera contribuisce enormemente anche il montaggio sonoro, con l'amplificazione di suoni stridenti e rumori, e la location: il caseggiato di cemento in cui vive Kotoko, ricorda i cunicoli di "Haze", altro labirinto mentale costruito da Tsukamoto. 


Per un'ora e mezzo ci troveremo a vivere la vita di Kotoko insieme a lei, vivremo il suo distacco e la sua insicurezza in un mondo che sente alieno, rappresentato dalla sua "visione doppia": di ogni persona che incontra vede anche una sua controparte negativa e minacciosa, e non riesce a distinguere quale delle due sia reale. Questa debolezza è anche alimentata dai telegiornali che divulgano continuamente notizie di cronaca nera. 
Non riuscendo a trovare sostegno negli altri, Kotoko deve contare solo su se stessa, ed anche qui avremo un dualismo nei metodi che ha sviluppato: l'autolesionismo e il canto. Praticato nelle stanze più buie della sua casa il primo, e all' aperto in scene luminosissime il secondo. Ma in entrambi i casi il sollievo sarà momentaneo e illusorio. 

28.9.17

Recensione: "Glory - Non c'è tempo per gli onesti" (Bulgaria - 2016)

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Un film straordinario che, come nessuno, porta i dedali kafkiani sullo schermo.
Un pover'uomo diventa eroe nazionale per la sua onestà e la sua correttezza.
Il Ministero, un Ministero terribile e corrotto, lo erge ad esempio per farci bella figura.
In realtà lo deride, lo ripugna.
Ma a quell'uomo interessa solo e soltanto che gli restituiscano il proprio orologio.
Visione imprescindibile

giganteschi spoiler dopo ultima foto (dell'orologio)

C'è una segreteria telefonica.
Quella dell'ora esatta, qualcosa che qualsiasi under 30 non può nemmeno sapere cos'è.

"Sono le 8, 29 minuti, 30 secondi"
"Sono le 8, 29 minuti, 40 secondi"
"Sono le 8, 29 minuti, 50 secondi"
"Sono le 8 e 30 minuti"

In quell'attimo esatto un uomo di mezza età, capelli radi e unti, barba folta e incolta, sincronizza il proprio orologio, un orologio a lancette ovviamente, che un uomo di quel tipo lo capisci subito che solo un orologio a lancette può avere.
La casa è spoglia, un tavolino, qualche suppellettile, tanta solitudine.
Pare una di quelle case che raccontava il buon Dostoevskji, ah che bellezza.
L'uomo esce e va al lavoro.

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Lo seguiamo di spalle in quest'inquadratura divenuta ormai simbolo del cinema verità, di quello che tenta la mimesi con la vita, di quello che prova a raccontarla per così com'è e non così come pare a chi la scrive.
La telecamera dietro le spalle, o davanti al viso, addosso, addosso, che così si cattura la vita.
L'uomo ha una chiave inglese enorme e ogni tanto la sbatte sulle rotaie. Quando sente un rumore che non gli piace avvita i bulloni. Nient'altro da fare.
Trova una banconota da 50, poi una da 100, là, in mezzo alle erbacce delle rotaie. Se le mette in tasca quasi in maniera colpevole e timida.
Poi, poco più avanti, ci sono milioni e milioni.
L'uomo chiama la Polizia, un uomo dallo stipendio ridicolo e che da mesi non lo riceve trova milioni e milioni, non ne prende mezzo e chiama la polizia.
Diventa un eroe e uno che il Ministero dei Trasporti, essendo un suo lavoratore, vuole ergere ad Esempio.

24.9.17

Recensione: "Krisha"

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Krisha era "solo" un gran bel film.
Poi arriva la parte finale, poi arriva una dedica, poi arriva il giorno dopo la visione e sto film non me se toglie dalla testa.
E unendo tutti i pezzi, capendo la verità, la necessità e il dolore che c'è dentro al film ne capisci la grandezza.
Se avete amato Rachel sta per sposarsi impossibile perderselo

presenti spoiler qua e là

Ci son film di cui capisci la potenza, l'"importanza" e la necessità solo in un secondo momento, a visione sedimentata. Arrivi al giorno dopo e ci sono immagini che ti tornano in testa, sequenze, tematiche, tante cose che magari durante la visione non avevi colto.
Vorrei dire che con Krisha mi è accaduto questo, e in parte, in larghissima parte, è così.
In realtà, e la cosa mi era capitata solo una volta, con l'immenso Biutiful, la potenza, la bellezza, l'importanza e la necessità di questo film io l'ho capita solo un secondo dopo l'ultima, bellissima, immagine.
Quando è apparso questo:


Un brivido mi ha percorso tutta la schiena.
Quei brividi che ti prendono quando realizzi delle cose in un nanosecondo, quando la verità ti colpisce con una mazzata sulla testa e ne resti tramortito.
Quella bellissima dedica finale che arriva dopo un film come questo ti urla contro quanto tutto quello che hai visto sia vero, quanto ogni passaggio, ogni dolore, ogni trauma, ogni segreto e ogni sconfitta presente dentro il film sia il racconto di veri dolori, veri traumi, veri segreti.

21.9.17

Recensione "Auguri Professore!"




"Dovuto" (ma con piacere) vedere su commissione di un'amica, Auguri Professore è uno di quei tanti film di fine anni 90 che, con risultati più o meno alti, affrontavano il tema "scuola".
Un'occasione per parlare di un mestiere delicatissimo e quasi sempre demotivante e castrante (sia per lui che per gli studenti) come quello del professore.
Un film che, comunque, in mezzo a mille difetti, ha il pregio di essere onesto, "sentito" e genuino.
Con una bravissima Pandolfi

Opera prima di un regista, Riccardo Milani, che riuscirà poi in seguito ad affrancarsi dalle becere commediacce italiane degli anni 2000 proponendo (quasi) sempre film genuini, ben fatti e anche un filo impegnati, Auguri Professore è un film perfettamente inserito negli anni in cui è uscito, fine 90, dai quali prende una certa impostazione abbastanza classica (quasi televisiva) e quel modo di parlare di tematiche sociali ma proposte in maniera non troppo urlata ed impegnata - in questo caso la scuola, argomento abusato all'epoca-.
Per farlo si affida poi a quello che è uno degli attori simbolo e feticci della seconda metà degli anni 90, quel Silvio Orlando capace, in quegli anni, di girare film su film, anche 3 a stagione.
Uno con quella faccia lì, con quel phisique du role lì, è adattissimo ad interpretare qualsiasi parte possa rappresentare quella dell'uomo "buono", tenero, sotto le righe, dimesso, umano.

19.9.17

Recensione: "Gatta Cenerentola"




Meraviglioso.
Qualcosa di mai visto e di quasi inconcepibile da noi. Il Cyberpunk nel porto di Napoli, la malavita e le canzonette, la favola e la tecnologia.
Un progetto folle, quasi senza senso, che fa gridare al miracolo.
Una delle vette di sempre della nostra animazione.

qualche spoiler nelle ultime righe

A metà degli anni 60 un pazzo saltatore in alto decise che, per superare l'asticella, il modo migliore non era farlo da davanti, ventrale, ma da dietro, di schiena.
Lo presero per matto.
Cambiò il mondo. 
Tutti cominciarono a fare come lui, tutti andavano sempre più in alto...
Il suo nome era Fosbury.
Ecco, l'effetto Fosbury è quello che ho avuto vedendo Gatta Cenerentola.
Ho visto qualcosa di diverso, qualcosa mai fatto prima qua da noi, ma un qualcosa che ha portato il livello dell'animazione italiana cm e cm più su.
E sì, come il salto di Fosbury, è un qualcosa fatto di schiena, nel senso che tutto pare tranne che di canonico, di naturale, di ortodosso.
Gatta Cenerentola è una pazzia, una rivoluzione, una cosa che non doveva esistere, un salto dorsale.

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Avevo già visto il precedente lavoro di Rak (qui in co-regia con Cappiello, Guarnieri, Sansone), il bellissimo L'Arte della felicità, lavoro anche quello coraggiosissimo, ma per motivi ben diversi.
Il coraggio di quel cartone stava infatti nella grandezza delle cose di cui parlava, nell'affrontare di petto mille massimi sistemi, nel suo filosofeggiare.
E sta cosa qua, ricordo, molti la sopportarono poco, che pareva troppo pretenzioso, troppo sentenzioso, troppo colto, troppo vate.
Eh, ma si vede che è un vizio de quelle latitudini, voglio dire, Sorrentino non mi sembra mangi polenta e usei.

17.9.17

(mini)Recensioni "La Fratellanza" e "Il Cliente" - Due al prezzo di una -

Altri due film (e adesso sono a pari, in qualche modo ho recuperato tutti i film visti questi mesi)
Uno è un prison movie adesso nei cinema.
Solido, benissimo scritto e recitato, ma che riesce a salvarsi dalla sagra del già visto solo grazie all'interessantissimo montaggio.

L'altro, Il Cliente, è il solito grande, immenso Fahradi, il regista al mondo che più di tutti sa riportare la verità al cinema, il più grande scrittore di dialoghi che esista.
E uno capace di far diventare thriller e film del mistero dei plot basati quasi sul nulla.
Un fuoriclasse


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Mi dicono dalla regia che lui sia uno degli attori di quell'ubriacatura collettiva del trono di spade.
(per ubriacatura intendo il delirio collettivo che ne scaturisce, non la qualità della serie, ci si può ubriacare anche con un grandissimo vino)
Beh, molto bravo.
La Fratellanza -solito titolo italiano...- è un prison movie solidissimo, senza mezza sbavatura, ben girato, ben recitato.
Il problema, semmai, è il darci la tremenda sensazione di tutto già visto, ogni passaggio, ogni personaggio, ogni dinamica.
E allora cosa lo rende comunque un gran bel prodotto?
Il montaggio.
Un montaggio avanti e indietro nel tempo, davvero suggestivo e capace, passo passo, di aggiungere dettagli e pezzi al puzzle.
La storia somiglia tanto a quella di Andy Dufresne dell'indimenticabile Le Ali della libertà con una bravissima persona (addirittura un bancario come era Andy) che finisce in prigione per omicidio colposo, senza essere minimamente un criminale.
Ne nasce un film che è quasi un coming of age traslato di 20 anni, adulto, un film che mostra un tranquillo 40enne diventare, direi giocoforza, un criminale, un violento, uno capace di uccidere.
Ma questa è la legge della giungla, si sa.
La cosa più interessante del film è forse l'incredulità che ha lo spettatore nel vedere il protagonista, uscito di galera, ricominciare dalla sera stessa la sua vita criminale.
Ma come, hai una moglie che in qualche modo ti ha aspettato tutto questo tempo (anche se lui da 7 anni non scriveva più dal carcere), hai un figlio 18enne che ti vorrebbe come padre, perchè non tornare da loro, perchè non ricominciare a vivere?
Grazie, come dicevo, all'ottimo montaggio temporale scopriremo poi che tutto ha un perchè e che forse dietro le terribili e sconsiderate azioni di Jacob c'è un grande, grandissimo uomo, uno capace di rinunciare a tutto, alla propria vita, per salvare quella degli affetti più cari.
Alcune bellissime scene, location molto affascinanti (il carcere con le celle all'aperto è stupendo), una tensione a volte palpabile, un paio di sequenze gore molto suggestive.
E alla fine, dopo l'ultimo "sacrificio" di Jacob ci sarà, in una splendida scrittura circolare, la lettera di risposta a quella del prologo.
Di padre in figlio.

7/ 7.5

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(questo è un nuovo record per me, scrivo del film a 28 giorni dalla visione, vado a tentoni)

Vedrei film di Fahradi per 10 ore di fila.
Nessuno, nessuno al mondo scrive dialoghi superiori ai suoi. C'è più verità nei dialoghi di Fahradi che in quella di alcuni documentari spacciati per reali.
Ma come fa st'omo a scrivere film quasi sul nulla e renderli così magnifici, così ipnotici?
Ecco, semmai il difetto di Fahradi è quello di assomigliarsi sempre un pò troppo con il rischio che la sua grandezza sia resa più piccola dalla sensazione del "non sa far altro?".
Immaginate un calciatore, un fuoriclasse, che oltre quei dribbling e quei tiri a giro è incapace di altro.
Rimane comunque un fuoriclasse? sì, ma sarebbe bello vederlo in altre vesti, in altre forme.
About Elly, Una Separazione, Il Passato, Il Cliente, 4 film straordinari ma in alcune dinamiche talmente simili da confonderli uno con l'altro.
Ma questi grandissimi cazzi alla fine.
Fahradi e i suoi problemi di coppia, Fahradi e i suoi interni/inferni, Fahradi e le sue case, mai come in questo film protagoniste.
Ancora una volta succede una "piccola" cosa, un'aggressione, e il regista iraniano ci costruisce intorno una ragnatela di parole, misteri e verità da far paura.
E ancora una volta allo spettatore mancano piccoli pezzi, vengono dubbi, si capisce che nel passato c'è qualcosa di decisivo.
Ho visto il film con Fede e noi abbiamo avuto una stranissima sensazione (spoiler), ovvero quella che la moglie del protagonista fosse veramente la prostituta che viveva in quella casa.
Piccoli ma perfetti dettagli (la prostituta che non si vede mai, i silenzi di lei, lo strano comportamento del cliente, la storia del bambino e della bicicletta, la telefonata erotica), cose dette e non dette ma niente, Fahradi non ci darà a soluzione e ci lascerà con questi, per me magnifici, dubbi.
Fahradi riesce a far diventare thiller film con plot, tempi e scritture che di thriller non hanno niente. Ogni sua sceneggiatura dovrebbe vincere tutti i premi cui partecipa.
Come se non bastasse ne Il Cliente abbiamo un parallelo col teatro (la coppia protagonista recita in palcoscnico) ad aumentare ancora di più, se possibile, questo cortocircuito con la realtà e la finzione, il vero e il falso.
E arriviamo così alla fine con altri dialoghi assolutamente perfetti, con altri dubbi, con un confronto davvero drammatico.
E sì, è vero, non ci sarà mai colonna sonora nei film di Fahradi.
Ma sono musica per le mie orecchie

8

12.9.17

Recensione: "The Devil's Candy"




presenti spoiler

Probabilmente il meglio horror uscito quest'anno nelle nostre sale.
Un piccolo Le Streghe di Salem senza le masturbazioni egotiche di Zombie.
E, come se non bastasse, anche un film che sa raccontare magnificamente un rapporto padre/figlia.
Non perfetto ma davvero buono.
Dal regista del gioiellino The Loved Ones

Ne ho visti (volutamente) pochissimi in sala, ma non faccio fatica a pensare che questo The Devil's Candy possa essere, ad oggi, il miglior horror distribuito in Italia quest'anno.
In attesa di It...
Le speranze di vedere qualcosa di meritevole, in realtà, c'erano visto che, e l'ho scoperto per caso appena un giorno prima di vederlo, alla regia abbiamo quel Byrne autore di quel gioiellino di torture che fu The Loved Ones.
E niente, Byrne si conferma e non solo, riesce pure nell'impresa di avere all'attivo due soli film, entrambi di genere, e farli uno completamente diverso dall'altro.
Ecco, adesso la sparo grossa.
The Devil's Candy è un piccolo Le Streghe di Salem senza le masturbazioni mentali e visive di Zombie, senza il suo ego, senza le sue velleità.
Semplicemente un film horror ben fatto, benissimo girato e con una sua identità.
Per il resto l'immaginario di Zombie è presentissimo, il diavolo, il metal, la musica veicolatrice, le voci, le ossessioni, i simboli, la pazzia.
Anche il personaggio del padre sembra uscito da La casa dei mille corpi.
Una delle cose che rende molto affascinante il film è quel suo essere tante cose apparentemente mischiate tra loro.
Un film sulle case stregate, un demoniaco che si allaccia, in un montaggio davvero perfetto, alla storia di un serial killer.
E, ne parleremo, il film riesce anche a dare un minimo di profondità e a toccare tematiche per niente banali.
Colpaccio quello di aver preso come protagonista Pruitt Taylor Vince, l'indimenticato protagonista -tra gli altri- di Identità. Lui e le sue pupille mobili sono sempre assolutamente perfette per queste parti da pazzo. E se in Identità i suoi demoni erano le personalità qui sono voci, voci che provengono dall'Inferno.
Perchè questo è un film che racconta del Male e di come il Diavolo si serva di alcune persone più deboli e predisposte per compiere delle cose terribili.
Usarli come pedine.
Secondo me questo è un aspetto molto ben sviluppato nel film, sempre al confine tra paranormale e "semplice" racconto di mostri totalmente umani.


Ci sono due scene formidabili, quasi identiche tra loro. E sono i due montaggi alternati tra Jessie che dipinge e Ray che prima uccide quel ragazzo sull'altalena (superba inquadratura) poi, in camera, lo fa a pezzi. Due montaggi velocissimi, potenti, anche aiutati da quella che è la vera protagonista del film, la musica metal (che io poco sopporto).
C'è un'alternanza -fateci caso- tra luoghi chiusi e cupi e esterni luminosissimi e sterminati. Questo contrasto luce/buio, campi lunghi e stretti è davvero formidabile se si pensa che molto spesso avviene in contemporaneità di orario.
A conferma che il lato tecnico e fotografico sia uno degli aspetti più forti del film ci sono anche le stupende inquadrature attraverso il vetro smerigliato della porta della casa. Quel rosso "reale" (nel senso diegetico del termine) che rende tutto quello che si vede fuori quasi trascendentale, demoniaco.
Byrne, come fu già in Loved Ones, non disdegna anche piccole e mai pacchiane dosi di ironia, anche nei momenti più drammatici.
In realtà ci sono anche dei problemi.
Innanzitutto un film così corto (praticamente un'ora e 10!) doveva assolutamente sviluppare di più alcune cose. Prima tra tutte la faccenda dei quadri e del museo. Era una sottostoria mefistofelica molto affascinante ma si apre e chiude quasi con un nulla di fatto.
Il finale poi, ahimè, se da un punto di vista emozionale e fotografico è vincente è davvero quasi imbarazzante per verosimiglianza.
Una stanza che per 10 minuti è completamente avvolta dalle fiamme e quelle persone che non ne vengono mai colpite nè ne subiscono danni. Fosse durata 1 minutino si poteva accettare ma così tanto, francamente, no.
E quel finale "messianico" (in effetti il nome di Jessie...) sembra ancora una volta un tantino affrettato o, comunque, sviluppato peggio di come le premesse lasciavano sperare (alla fine trovare le valige sticazzi insomma).
Ma c'è un aspetto fenomenale nel film secondo me. Ed è la lotta di Jessie contro quei demoni e il tentativo di restare comunque un buon padre. Attenzione, sembra un aspetto marginale ma il regista invece gli regala parecchie scene.
Quel terribile quadro che gli fece dimenticare di prendere la figlia a scuola, l'incontro con il gallerista interrotto per lo stesso motivo, la corsa a piedi verso la scuola. E tutte le scene che ci raccontano del grandissimo legame tra i due.
Ecco, in un film demoniaco, in un film di genere non è facile trovare tematiche così.
Salvarsi dal Diavolo, ricacciarlo, riuscire a rompere quella tela, solo per amore della propria figlia.
E, lo sapete, quando un film esalta la forza dei legami umani con me vince sempre.
Metal o no

7.5

9.9.17

Recensione (anzi, non recensione): "Vinyan", il film del raduno

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E' circa mezzanotte e mezza del sabato del raduno.
Ci accorgiamo che s'è fatto di tutto e, di conseguenza, non si sa più che cazzo fare.
Si pensa, estemporaneamente, a un film.
"Verso Orione!" propone il mitico Paco.
"No, Verso Orione no" dice qualcun altro.
Non ci sarebbe niente di male in questo dialogo se non fosse che quello a mettere il veto a quel film è lo stesso regista del film, Alessio Nencioni.
C'è da dire che il suddetto Nencioni in quel momento era in condizioni che nemmeno Mickey Rourke ha mai raggiunto.
Ma lo scopriremo di sopra.
Insomma, birillo o baralla non si sa che vedere.
Al che io propongo Vinyan, visto che bene o male tutti s'era amato il primo film di Du Weltz, Calvaire.
Tutti d'accordo saliamo al piano sopra.
Con mille difficoltà riusciamo a risolvere il problema col proiettore.
La cosa buffa è che quello che più si prodiga per risolvere i problemi tecnici è Nencioni. Uno pensa che tanto lavoro da parte sua nasconda un'immane voglia de vedesse il film.
Invece appena riesce a farlo partire il Nencioni si sdraia in terra, SCHIENA AL FILM, e comincia a dormire.
Resterà in quella posizione ben oltre la fine dello stesso. Probabilmente il tempo che ci voleva a proiettarsi nella sua mente, per intero, in fase r.e.m., Una Poltrona per due, vera sua ossessione della serata.
Comincia il film con un gran bel prologo, psichedelico.
E pure lo spunto sembra più che buono. 
Una coppia ha perso il proprio figlio in uno tsunami. Mesi dopo vede una videocassetta in cui, alla madre, sembra di riconoscere lo stesso figlio. Le immagini ritraggono un'isoletta thailandese quasi irraggiungibile. La coppia parte per questo viaggio della speranza.
Il problema di Vinyan è il suo essere un film praticamente anti-narrativo pur avendo una trama terribilmente lineare, narrativa, orizzontale, come può essere il racconto di un viaggio.
Un film fermo su sè stesso dall'inizio alla fine. Tanto che alcune scene dopo un'ora e 10 avremmo potuto trovarle dopo 20 minuti, interscambiarle pure.
Ad un certo punto sento che sto per cedere. Non capisco se sia un problema mio o del film.
E allora guardo gli altri.
Vicino a me c'ho Carmen che c'ha troppa classe per cedere. Ma pare che lo tsunami abbia colpito lei.
Mi giro dietro e vedo Giancarlo che ha due occhi che sono due fessure, tipo quelle dove metti gli spicci per pagare i parcheggi.
Vedo Vincenzo ridotto allo stesso modo anche se, va detto, Vincè c'ha quella faccia un pò così anche quando è sveglissimo.
Ad un certo punto Leonardo si alza, non so per che fare, poi torna e me dice
"Ho colpito per sbaglio Rachele, l'ho svegliata"
Vado a verificare.
Rachele conferma bellamente che stava dormendo.
A questo punto sono in una nuova zona di controllo e posso finalmente spiare la mia vittima preferita, Roberto.
E lo vedo oscillare continuamente la testa in avanti.
Non arriverà mai ai 90 gradi dell'anno scorso, ma si alterna tra i 35 e i 70.
Ogni tanto torna dritto e guarda il film.
Iniziamo ad inveire contro il film.
Ad un certo punto però vedo un essere umano che mi dà speranza, Ida.
E' protesa in avanti, sveglissima, con gli occhialini, sembra una critica dell'Herald Tribune.

"Oh, almeno una a cui il film piace e sta sveglia c'è" mi faccio io
"Il mio voto è zero" dirà Ida a qualcuno a fine film.

Per il resto il film va avanti, lentissimo. Ha tre/quattro sequenze formidabili, su tutte il movimento di macchina che fa il giro del rudere.
Una storia alla The Orphanage, una mamma che non accetta di aver perso il proprio figlio e, contro tutto e tutti, compreso il marito, è convinta di ritrovarlo.
E, come nel film spagnolo, anche l'alternanza tra realtà e fantasmi mentali la farà da padrone.
Purtroppo la potenza psicologica che Vinyan voleva raggiungere non è arrivata a nessuno.
Ah, non so se li hanno scelti apposta ma se i thailandesi hanno l'aspetto dei 3 protagonisti sono il popolo più brutto del mondo.
Alla fine avremo una specie di atmosfera a Il Signore delle Mosche, altre buone inquadrature ma niente, il film ci ha massacrato.
Torniamo disotto.
E io mi immagino di sopra il Nencioni che si sveglia, non trova più nessuno ed è convinto di aver visto un bel film.
Una poltrona per due, of course.

6

7.9.17

Recensione: "Dunkirk"

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Son tante le cose che ho apprezzato un sacco.
La prima è vedere uno dei miei registi più amati buttarsi sul genere a lui meno congeniale.
Se ci pensate uno abituato ad "inventare", a crear storie e intrecci impossibili (e nessun genere come la fantascienza te lo permette, anzi, direi che te lo impone) che finisce nel cinema di guerra, ovvero il genere opposto, quello dove non puoi inventarti nulla, quello dove tutto è già scritto, beh, è meritevole.
Siamo proprio ai due poli opposti. Una bella sfida.
Poi ho apprezzato la sobrietà.
In tutto.
Avete mai visto un film di guerra, un film di bombe e morte, senza quasi una goccia di sangue?
Mi aspettavo una macelleria e invece così non è stato. E' incredibile come Nolan non solo non abbia puntato su un aspetto che, in un certo genere di film, fa la fortuna degli stessi, ma che l'abbia proprio volutamente cancellato. Si è limitato a qualche benda nella testa, nient'altro.
Ma, checchesenedica, il film è molto sobrio anche nel suo essere quasi completamente antieroistico. Dunkirk racconta di un esercito sconfitto, impaurito, un esercito che non spara, che non combatte, un esercito che si mette in ginocchio, mani sulle orecchie, sperando di non essere colpito dalle bombe. Probabilmente gli mericani avrebbero comunque inserito chissà quali gesti eroici, chissà quali sacrifici in nome di, chissà quanti ralenti trionfanti.
E invece Nolan ci racconta di un soldato che non vuole tornare a Dunkerque per paura, di 15 soldati dentro un peschereccio che al primo sparo da fuori invece di andare a combattere se ne stanno a guardarsi impauriti, di un finale in cui i soldati, in patria, vengono osannati mentre si vergognano di sè stessi, loro che sanno benissimo di esser stati protagonisti di una disfatta enorme, loro che sanno benissimo di non aver fatto nulla di meritevole, se non aspettare di essere salvati.
Due tra i protagonisti del film sono addirittura ragazzi che, di nascosto, salgono su una nave di feriti. No, nessun gesto eroico, anzi...
Si potrebbe pensare che alla fine l'unico eroe sia Hardy ma, in realtà, stiamo parlando "solo" di un soldato che fa meravigliosamente il lavoro assegnatogli.
Però sì, quell'aviatore merita ed è impossibile dimenticare il suo volo finale, senza più carburante, verso una spiaggia che lo vedrà giocoforza morire.
Ecco, c'è una sola scena dove la suddetta sobrietà è andata a farsi benedire, quella dell'arrivo dei soccorsi. Effettivamente un pò troppo pomposa, in realtà, se ci pensate, assolutamente in linea con la diegesi del film, con i fatti storici. L'arrivo di quelle barche deve essere sembrato a quei 330.000 soldati una cosa molto simile a come Nolan ce l'ha raccontata.
Sui 330.000 soldati, sul numero dico, avrei da storcere il naso in maniera quasi da rompermelo. Anche nei campi lunghissimi Nolan non ci mostra più di 1000 soldati, cioè, lo 0.00erotti di quello che avremmo dovuto vedere. Probabilmente ha preferito non affidarsi alla computer grafica e a dare uno scenario più che altro simbolico.
Ho amato poi la costruzione temporale, la vera nolanata del film, il suo marchio di fabbrica.
Queste tre temporalità a 3 passi diversi che solo negli ultimi 10 minuti collimano.
Quasi un paradosso zenoniano con il tempo del molo che è Achille, quello della nave che è un Achille azzoppato e quello dell'aereo che è la tartaruga.
Con la differenza che in questo caso usciamo dal paradosso, tutti si raggiungono.
All'inizio il giochino non lo capisci, poi, quando vedi che Hardy dall'alto inizia a vedere cose che presumibilmente vedremo nelle altre temporalità, ecco, che bello.
Ma cos'è Dunkirk?
Film di guerra atipico, come atipica è l'incredibile situazione in cui si trovò l'esercito inglese.
Cinema della minaccia se ce n'è uno, di una minaccia troppo più grande della possibile difesa, cinema dell'impotenza. Una settimana in un molo sperando di essere soccorsi. E quel nemico, e qui sta una delle più belle cose del film, che è presenza opprimente, ineludibile ma al tempo stesso invisibile, nascosta. Di tedesco vedremo giusto un paio di aerei e delle sagome accennate nella bellissima inquadratura finale con Hardy.
Per il resto la Germania sono soltanto bombe che arrivano in testa, volantini che intimano di arrendersi, siluri che sfrecciano in mare.
E noi siamo lì, in terra nel molo, nell'acqua nelle imbarcazioni, nel cielo dentro aerei, siamo lì che soffriamo con questi soldati.
Già, dovremmo soffrire.
Perchè malgrado la grandiosa messinscena, malgrado la colonna sonora straniante ed immersiva, malgrado luoghi aperti sotto l'attacco di bombe o luoghi chiusi dove poter annegare, ecco, quell'empatia alla fine non c'è mai del tutto.
Ma più che empatia coi personaggi, cosa che forse Nolan rifugge e che comunque non è mai stato il suo forte (forse sono i due ragazzini "civili" quelli a cui siamo più vicini) non c'è nemmeno quella sensazione di star là, di sentire la minaccia come la sentono loro.
Ecco, il distacco spettatore-cinema rimane, non si annulla.
Mi sarei aspettato di trovarmi soldato tra i soldati, non è accaduto.
Ci sono scene magnifiche.
Quelle aeree sono impressionanti ma, va detto, la parte nel cielo è la più ripetitiva.
La prima volta dici "meraviglioso", la seconda "straordinario", la terza "bellissimo" e poi sempre più a scendere, ti abitui, ti sembra che quelle cose le hai viste troppe volte e sempre uguali, quasi un videogame.
Ho amato moltissimo il montaggio parallelo tra i due annegamenti, quello sul peschereccio dei pavidi e quello del pilota che ha ammarato.
Ed è straordinaria la sequenza di fuoco e acqua (in un film dove gli elementi la fanno da padrone).
Voglio poi ricordare la scena degli elmetti rimasti in spiaggia, molto simile a quella dei cappelli a cilindro in The Prestige.
Narrativamente c'è almeno un problema. Nolan ci dice che passa una settimana nel molo ma ci mostra i soldati sempre nella stessa identica posizione, sia in spiaggia che sul ponte. Non si capisce come siano sopravvissuti, non è credibile che non si siano mai mossi. Lo stesso ammiraglio pare non essersi mai spostato dal ponte.
Ma, insomma, quisquilie.
Dunkirk resta un grande film, forse grandissimo, un film di silenzi e attese, paure e speranze.
E non posso, ancora una volta, non inserire un parallelo personale.
A volte lotti con tutte le tue forze, lanci missili, spari cartucce, vai allo sbaraglio.
Credi che soltanto lottando con tutte le tue forze puoi ottenere qualcosa.
E invece no, a volte ci sono battaglie che devi semplicemente accettare di aver perso.
E startene lì sulla spiaggia ad aspettare.
E resistere, non morire, finchè arriverà un'imbarcazione a portarti via, a salvarti.
E non importa se non sarà l'imbarcazione che sognavi, l'importante è salire su una barca e andarsene da quella spiaggia.
Tornare nel pericolosissimo, ma meraviglioso, mare della vita



6.9.17

(mini)Recensioni di "Raw" (Grave) e "Prima di domani" - Due al prezzo di una -

Uno è l'horror di cui stanno parlando tutti in questo 2017.
Forse non il capolavoro di cui si dice ma, caspita, un gran bel film.

L'altro è un film sul tema del rivivere sempre lo stesso giorno.
Patinato e debole college movie all'inizio, interessantissimo e anche un filo emozionante film esistenziale dopo




Considerato da molti amici come "l'horror" dell'anno o, quantomeno, uno dei più belli dell'anno Raw è in effetti una gran bella roba che, però, non ha raggiunto con me il colpo di fulmine vero e proprio.
In realtà non manca niente, stile (basta il prologo per capire da che parti siamo), recitazione, ritmo, tematiche, uno di quei titoli effettivamente imprescindibili per un appassionato.
Credo che con me, per una volta, abbia giocato una componente che di solito non influisce mai nel mio giudizio, ovvero quella di trovare assolutamente insopportabili alcuni personaggi e alcune dinamiche.
Ma io vi giuro, vedere una facoltà di veterinaria esser raccontata solo come un branco di cazzoni e debosciati non l'ho retto. O.k, hai 20 anni, o.k, devi divertirti come non mai, va bene tutto, ma Raw diventa una specie di Animal House, si esagera. E a conferma di quanto dico c'è l'assurda scena (l'unica universitaria praticamente) in cui il professore sgrida la protagonista di esser troppo brava, troppo studiosa, talmente brava che mette in difficoltà gli altri.
In ogni caso sti veterinari viene voglia di vederli morti tutti tanto sono insopportabili e poco verosimili nelle loro esagerazioni e "prove d'iniziazione".
E proprio in una prova d'iniziazione sta il turning point del film, quello in cui Justine, la nostra splendida, magnifica protagonista (mi riferisco alla prova d'attrice più che altro) assaggia per la prima volta in vita sua un pezzo di carne, anche abbastanza schifoso (mi pare il rene crudo di un coniglio).
Parte il film, un film che ha l'incredibile merito di poter avere tantissime letture.
Cosa è successo a Justine?
Cosa simboleggia quell'assaggio?
Cosa l'ha fatta diventare?
Io non credo che il film parli della questione attualissima vegan-vegetariana-carnivora, credo che sia pura e semplice metafora.
Già, ma di cosa?
Viene in mente il sesso come prima opzione, anche perchè Justine è vergine (come era vergine di carne) e più si "ammala" più diventa disinibita. La splendida scena di lei che balla e canta davanti allo specchio è la dimostrazione di una ragazza che sembra aver scoperto la sfera sessuale ed esserne totalmente partita di testa. Somiglia un pò a quello che accade con la protagonista di Starry Eyes.
Ma gli incroci tra cibo, sesso e morte sono più di uno, tanto da far apparire Raw come un film di Ferreri che si sia dato al genere.
In realtà potrebbe invece essere un film sulle dipendenze, sulle droghe. Una volta che Justine, nella bellissima scena del dito, assaggia la carne capisce che non ne può fare più a meno. Anche se questa lettura, semmai, va vista come un inizio alle droghe, non come una completa assuefazione, visto che non abbiamo mai l'idea che Justine non possa fare a meno della carne.
Però, ecco, alla fine la mia lettura preferita è che questo sia un film sulla scoperta dell'indipendenza, della libertà.
Non è un caso che sia la prima volta fuori da casa di Justine, la prima volta che vive sola, la prima volta che non ha i genitori a controllarla. E, alla luce del finale, chissà quanto controllo c'era stato nei 18 anni precedenti. Lettura, tra l'altro, che può inglobare tutte le altre. La prima indipendenza porta anche alle prime esperienze sessuali e ai primi contatti con le droghe.
In ogni caso ci troviamo davanti ad un film interessantissimo, probabilmente molto meno originale di quello che dicono (penso a The Hamiltons) ma che, davvero, non sembra presentare punti deboli.
Stupenda la scena della crisi d'astinenza sotto le lenzuola, quella con la vernice, quelle sopracitate del dito o del ballo, quella della macabra scoperta nel finale.
Da vedere senza se e senza ma.

7.5

Risultati immagini per prima di domani

(premesso, scrivo senza ricordarmi una sega, visione di un mesetto fa)

spoiler dopo linea divisoria

Cinema.
Prima mezz'ora e mi giro continuamente a destra verso mio fratello e dò calci davanti verso Jolly Roger, seduto nella fila avanti a me.
"Ma dove cazzo m'hai portato" accompagnava lo sguardo al fratello.
"Ma che cazzo stamo a vedè" i calci a Jolly.
Sì perchè "Prima di domani", fino a quel momento, era un college movie al limite della sopportazione, uno di quelli che se lo trovo in tv cambio canale prima che un frame possa restarmi in memoria.
Però, ecco, sapevo che c'era il tema (abusato) del rivivere lo stesso giorno e allora mi son fatto coraggio e sono andato avanti.
E difatti quando la protagonista schiatta e poi si risveglia nella stessa mattina del giorno in cui è schiattata, il film, finalmente, comincia.
Come dicevo il tema del rivivere lo stesso giorno (con morte o no) non è affatto nuovo.
Eppure "Prima di domani" riesce comunque a colpire nel segno inserendo in questo loop un grande insegnamento morale.
Ho molto apprezzato la verosimiglianza. Ovvero i tentativi da parte di Sam (la protagonista, grande attrice) di cambiare il proprio destino, cambiare la propria giornata. Quando il secondo giorno è tornata nuovamente alla festa cominciavo a storcere il naso, poi, fortunatamente, non l'ha più fatto.
Deve essere veramente terribile essere imprigionati in un continuo oggi, dove accadranno sempre le stesse cose. 
E allora Sam, visto che non può far altro, capisce che l'unica via è cambiare sè stessa. Prima in peggio, permettendosi di tutto, poi, e qui stanno le scene migliori del film, in meglio. Quando si sveglia la mattina, la millesima mattina uguale alle altre, e accoglie finalmente sua sorella, e ci passa tutto il giorno insieme, e dà affetto, e dà amore, beh, il film emoziona, e non poco.
Poi Sam scopre che quel loop non riguarda solo lei, non riguarda solo la propria vita, ma anche quella di un'altra ragazza, derisa da tutti (terribile il look, si è veramente esagerato).
E capisce che forse c'è un'unica soluzione per porre fine a tutto.
Il finale ti lascia dei dubbi.
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Sam sapeva la fine che avrebbe fatto? c'è qualche segnale che ti fa dire di sì, come guarda come fosse l'ultima volta ogni cosa (penso agli alberi), come saluta i familiari.
Forse però voleva soltanto salvare lei, non lo sapremo mai.
Qualcuno doveva morire?
Ecco, in questo senso secondo me ci sarebbe un destino troppo vendicativo e terribile, non mi piace.
Sam ha potuto rivivere quel giorno decine di volte per diventare una persona migliore.
Ce l'ha fatta.
E ha espiato le proprie colpe.
Pagare tutto con la morte lo trovo ingiusto.

6.5