25.5.25

Festival di Cannes 2025 - Parte 3 - Tutti i film presentati in ordine di gradimento - di Riccardo Simoncini

 

Come promesso ieri, per tutte le persone che non leggono recensioni lunghe su film non ancora visti ma, al contempo, amano comunque vedere piccole classifiche e scoprire piccole informazioni sui film, ecco qua la lista in ordine di gradimento (con qualche riga di presentazione per ogni film) di tutte le opere viste da Riccardo a Cannes.




  1. UN POETA (di Simón Mesa Soto, Un Certain Regard)
Il nichilismo caustico di Bojack Horseman, la malinconia fallita di Entertainment di Rick Alverson. Un esordio folgorante su un piccolo uomo trasandato dalle labbra carnose deflesse che scrive di cose tristi aspettando la prima cosa bella.

  1. PILLION (Harry Lighton, Un Certain Regard)
Il candido Harry Melting e lo statuario Alexander Skarsgård in una relazione pungente di sottomissione/possesso, attorno a motori roboanti, pantaloni di pelle aderenti e teste rasate. Decostruire il maschio forte, l’amore al di fuori di ogni desiderio normato.

  1. BRAND NEW LANDSCAPE (Danzuga Yuiga, Quinzaine des cinéastes)
Una Tokyo verticale in perenne costruzione si interseca ai ricordi di famiglia interrotti e mai più ricostruiti. Siamo granelli di polvere microscopici, sempre intenti lì a raccoglierci.

  1. MIROIRS NO.3 (Christian Petzold, Quinzaine des cinéastes)
Il film più perturbante e gotico di Petzold, eppure sempre leggero e leggiadro. Una storia familiare di fantasmi dolci come il vento, un soffio attraverso le tende, tutto giocato fuoricampo.

  1. ALPHA (di Julia Ducournau, Concorso)
La solita biologia stravolta di Ducournau, i soliti traumi che si insediano sottopelle. Ma il virus (solo apparentemente simile all’AIDS) è l’amore e tutte le sue deformazioni.

  1. AMOUR APOCALYPSE (Anne Émond, Quinzaine des cinéastes)
Inizia come Her di Spike Jonze, si trasforma nel più libero e sfacciato cinema canadese possibile. Sullo sfondo dell’apocalisse climatica due 45enni in crisi si incontrano attorno ad un’improbabile lampada terapeutica per creare la loro catastrofe sentimentale.

  1. AISHA CAN’T FLY AWAY (di Morad Mostafa, Un Certain Regard)
Una testa squadrata (e inquadrata) da dietro. Davanti due occhi eterocromici che hanno qualcosa di sacro. Blu e marrone, una pelle d’ebano più scura di tutti gli altri. Aisha fa la badante a Il Cairo, è intrappolata nel suo alveare infernale. Ma il Male trova sempre il modo di uscire.

  1. THE LOVE THAT REMAINS (Hlynur Pálmason, Cannes Premiere)
L'amore finisce, la natura d’Islanda ne ripara le ferite. Un anno nelle stagioni trasformative di una famiglia che rimane, nonostante tutto. Un film minore tra i meravigliosi di Pálmason, ma con un ingegno ironico e creativo del tutto nuovo.

  1. YES (Nadav Lapid, Quinzaine des cinéastes)
Il rumore bianco che si sporca del sangue della guerra, il volume sempre più alto per cancellarne ogni altro. La richiesta di comporre un nuovo inno (assordante) per lo Stato d’Israele. Sì o No. Un Lapid, rispetto al solito, ancora più splendidamente confusionario, fuori beat.

  1.  EAGLES OF THE REPUBLIC (di Tarik Saleh, Concorso)
Il cinema è un atto politico, fatto di raggiri, sotterfugi, frodi e raccomandazioni, ma soprattutto di minacce e propaganda. Il nuovo thriller politico di Tarik Saleh racconta della connivenza (anche metacinematografica) del sistema delle immagini. Peccato per una sceneggiatura zoppicante piena di parentesi e con pochi punti fermi, ma che si riprende tutta nel finale.

  1.  URCHIN (Harris Dickinson, Un Certain Regard)
Un ciclo inarrestabile di vagabondaggio e droga che si ripete sempre uguale. Un giovane come tanti, che ha scelto di non avere niente e di come quel niente sarcasticamente farselo bastare. Perché allora tutto questo artificio registico lontano dall’umano?

  1. RENOIR (di Hayakawa Chie, Concorso)
Un trattato contemporaneo su tutti i dolori non empatizzati, sulle immaginazioni possibili ma ancora senza immagini. Certo però che fatica arrivarci.

  1. WILD FOXES (Valéry Carnoy, Quinzaine des cinéastes)
La boxe come racconto di formazione per scoprire, da adolescenti, la paura per la prima volta. Sì, ma dov’è (cinematograficamente) lo sport?

24.5.25

Festival di Cannes 2025 - Parte 2 - Recensione 7 film - di Riccardo Simoncini

 

Come promesso eccoci di nuovo!
Dopo le prime 6 recensioni pubblicate pochi giorni fa eccoci con la seconda parte del reportage di Cannes dove Riccardo vi porta alla conoscenza di altri 7 film, sempre con recensioni lunghe e complete (non so come faccia a scriverle così esaustive durante il Festival).
Ma attenzione! Se qualcuno di voi non ama leggere recensioni particolareggiate di film ancora non visti aspettate il post di domani dove faremo un recap di tutti e 13 i film analizzati mettendoli sia in ordine di gradimento che presentandoli tutti con poche righe.
Buona lettura e a domani!

ALPHA (di Julia Ducournau, Concorso)


Nel cinema di Julia Ducournau i corpi sono le intercapedini fisiche in cui si accumula il dolore, il suo body horror prima di essere mostruoso, rivoltante, spesso insostenibile, è l'immagine di una degenerazione, di un trauma che via via peggiora nel rivoltarsi e divorarci dentro. Perché i nostri corpi sono destinati a prendere il controllo su di noi. Non solo percettivamente, come in The Substance di Coralie Fargeat, dove il corpo si sdoppia, dismorfo e sessualizzato, perché i propri occhi, filtrati dagli altri, lo vedono invecchiato e sbagliato, questo ribaltamento di potere avviene anche e soprattutto in una forma interna di rinuncia che quegli sguardi, quegli amori trasformati in odio, hanno interiorizzato tra le cellule e il sangue. Ci hanno ridotto a solo corpo e nient'altro, e così abbiamo finito per perderne la paternità. Ma nonostante ciò in Titane un padre finiva comunque per accettare come figlio un corpo che non lo era, anche dopo inequivocabili segni che non lo fosse per davvero. Basterebbe un po' d'amore, ci dice Ducournau, per non essere più solo corpi, anche per padri diversi. 
Alpha (la prima lettera dell'alfabeto greco, l’ipotetico e metaforico caso indice di un implacabile contagio) è una ragazzina di 13 anni, vive sola con la madre medico e uno zio drogato che è sopravvissuto alla morte fin troppe volte.
Un giorno Alpha arriva a casa con un tatuaggio sul braccio, con l’inchiostro ancora caldo e bruciante, l’ago usato di dubbia provenienza. L'amore continua a mancare, continua a salvare, ma è anche l’amore (la sua negazione, la sua distorsione) che fa ammalare. Sono gli apparenti anni dell'AIDS (anche se non viene mai nominata in modo esplicito), della “malattia di chi fa la vita” come la chiamava in senso lato Gabriel Garcia Marquez in Cent'anni di solitudine, in un tempo fittizio simil ‘80 in cui si pensa (erroneamente) che persino la prossimità sia in sé fattore di rischio, precauzione paranoica per evitare ogni contatto. Nessun abbraccio, nessun bacio. Quando il tatuaggio di Alpha inizia a sanguinare, si diffonde la sensazione (illogica, prevenuta) che sia anche lei infetta, senza alcuna prova o test positivo di conferma. Alpha vive il destino di ogni mostro, non importa se presunto o mancato, basta uno sguardo distante su quel corpo per vederlo malato, anormale. Così a scuola Alpha viene segregata, isolata, per la paura che quella mostruosità emorragica diventi anche la propria, in uno scambio di fluidi e di colpe come la maledizione demoniaca di It Follows di David Robert Mitchell. Sua madre invece teme un’infezione latente, il caso raro incontrollabile, che nemmeno una conoscenza medica sconfinata può riuscire a esorcizzare. Per amore, con amore, quella madre cerca ossessivamente in Alpha segni di malattia (“quello che capita a te, capiterà anche a me”, dice in un patto di sangue che nel rischio più sconsiderato trova la più grande dichiarazione di affetto), gli stessi segni che tutti gli altri, senza amore, le impongono anche in assenza di certezza. 
Ma il virus è innanzitutto una storia, una memoria (allegorica) condivisa ad ogni amato, un racconto di fantasmi che tra presente e passato si spingono sottopelle, non ti lasciano più andare, ti richiamano con gli echi di una voce di morte (più che una ferita) marchiata, indelebile. “Spero che non sia troppo tardi per dimenticare”.
I corpi ancora una volta mutano, si trasformano, così tanti, come in ogni epidemia apocalittica, da saturare gli ospedali, si sgretolano a pezzi come pietra secca e arida, il sangue liquefatto polverizzato in sabbia, ma rispetto agli altri film di Julia Ducournau quei corpi appaiono qui in una forma meno squisitamente orrorifica e disturbante, più concettuale invece, intima e privata (anche se con qualche acciacco narrativo di troppo che lascia da parte alcune questioni drammaturgiche di sostanza). 
La biologia però è di nuovo stravolta, ammattita. I corpi fluidamente si trasformano in ciò che non hanno mai potuto essere, sporchi e sbagliati. Se in Titane una donna rimaneva incinta di una macchina e in Raw la pelle pruriginosa rappresentava la reazione allergica alla propria crescita, di rigetto da dentro a fuori come in un trapianto andato male, qui i corpi si irrigidiscono duri come il marmo, bianchi granitici, con una tosse di gesso e talco. Statue eternamente immobili che hanno intrappolato traumi. Comunque sempre qualcosa di più di un pezzo di carne. L’ennesimo grandissimo film di una regista straordinaria.


UN POETA (di Simón Mesa Soto, Un Certain Regard)


Un ometto piccolo, ingobbito e trasandato, con gli occhi spenti e le labbra carnose deflesse. Oscar Restrepo dice di se stesso di essere “un eterno e perpetuo sognatore”, ma dietro la scusa dell'essere poeta nasconde solo una profonda rassegnazione, un disimpegno politico e sociale che vorrebbe essere stoico ma che di fatto lo sta consumando piano piano. Agli eventi letterari rimane in disparte, trangugia alcol ad ogni occasione utile, è assente alla sua stessa vita. Ricorda per tanti versi il Comico fallito di Entertainment di Rick Alverson, che in un'America desertica se ne andava sui palchi intinto di gel untuoso a dire battute volgari e misogine che non facevano ridere nessuno. Ed esattamente come EntertainmentUn poeta è girato con l'occhio della malinconia, della passiva ricezione di un microcosmo, la Colombia, che non è più in grado di parlare alla sua gente, è abbandonata dalla vita stessa. Così si scrivono libri per infiniti anni senza finirli mai. Si urla non per recitare un poema ma perché un qualche suono gutturale arrivi più in là delle parole vuote (come nella puntata nichilista 3x04 di Bojack Horseman ambientata sul fondo del mare, nel silenzio delle bolle d’aria che si crede erroneamente di non poter ascoltare). 
Quando la figlia emotivamente lontana (lo chiama sempre per nome, mai papà) gli comunica l’intenzione di iscriversi all’università, Oscar si convince di riuscire a pagargliela, anche se poi di fatto è lui a chiederle soldi in prestito. Il suo progetto irrealizzabile è soltanto la scusa disperata per non scomparire del tutto, almeno ai suoi occhi. Così, dopo anni di disoccupazione, Oscar inizia ad insegnare poesia a scuola, per guadagnare qualche soldo in più e non doverli reinvestire in operazioni finanziarie fallimentari. Fa lezione con il suo solito metodo corrosivo, ostile, rozzo e ubriaco, ma quando scopre che una sua studentessa scrive poesie su un quadernino brillantinato, che qualcuno condivide il suo sentire irrequieto, sofferto ma spontaneo, il mondo cambia, si accende di luce. Improvvisamente il progetto disperato di Oscar diventa quello di aiutare quella giovane adolescente a diventare poeta (al maschile come si autodefiniva Patrizia Cavalli), in un contesto dove anche e soprattutto le parole sono però guadagno, spettacolo, decalogo venale del sentire in versi. Premi letterari, comparsate televisive, il forzato e ostinato messaggio sociale da inserire ad ogni costo: tutto, anche in poesia, è ormai misura del successo e dell’apparenza. “Sotto questo cielo senza promesse”.
Dopo un'opera prima asciutta e politica su una madre che gira ovunque pur di trovare il figlio fragilissimo reclutato forzatamente tra le prime file dell'esercito corrotto (ancora una volta un personaggio macilento schiacciato dalla realtà, intorpidito di ogni afflato emotivo), Simón Mesa Soto accede ad uno spazio filmico ancora più rabbioso, scomposto, convulso, ma amaramente divertentissimo. Le immagini sono distratte, ansiose, nevrotiche, e per questo ancora più affilate, accompagnate musicalmente da una dissonante linea al clarinetto che stride ad ogni nota. Non ci sono più come nel film precedente i primi piani descrittivi di volti glaciali, inespressivi e smarriti, con gli occhi immobili a fissare il vuoto e i sorrisi accennati che sembrano smorfie, ora i visi si aprono, si allargano, strabuzzano le orbite, emettono urla animali e selvagge. Sono le due facce della stessa disperazione sociale, la fisionomia inevitabile dello stesso remissivo abbandono allo stato delle cose.
“Whyyyy?” diceva sempre in tono caricaturale il Comico di Entertainement
La poesia non ha risposte. 
Il colpo di fulmine di questa Cannes 2025.


PILLION (Harry Lighton, Un Certain Regard)


Durante un appuntamento al buio organizzato dalla sua invadente madre un giovane ragazzo timido si imbatte in uno spavaldo biker tutto impellettato, leader di un gruppo locale di appassionati. Motori roboanti, tatuaggi sulle braccia muscolose, catenacci e teste rasate. Nella tensione degli opposti caratteriali (con un Harry Melling candido, delicato e un Alexander Skarsgård in pantaloni di pelle aderenti statuario e imperturbabile) si crea un gioco perverso e tagliente di sottomissione, l’anatomia scandalosa di un disequilibrio aggressivo ma consensuale. Colin mangia in piedi, dorme per terra, lecca gli stivali da corsa di Ray al posto di una comune fellatio. Quando non canta come linea acuta in un quartetto vocale Colin è servizievole in ogni suo gesto, esegue gli ordini come un animale addomesticato.
C'è un'idea politica nitidissima dietro, della destrutturazione ironica e pungente del branco, del clan, del gruppo coeso di ragazzi forti che nella violenza testosteronica si incitano ed eccitano a vicenda. È la stessa operazione di quel corto capolavoro che è J'ador di Simone Bozzelli (e poi continuata nel suo esordio Patagonia), qui nella sua parodizzazione però più estrema e geniale: le luci crepuscolari, i petti nudi definiti che si desiderano solo ed esclusivamente nell'odio, attorno a rifiuti e ribellioni, (s)torture e armistizi, eppure conservano tutti lo stesso odore acido di marcio (o al massimo di sesso di gruppo sadomaso). Non c'è amore né sentimento, ma un desiderio che patologicamente vuole esistere solo come possesso e abuso, che nella chimica del bramare si fa gesto virile e vigoroso, ma anche a suo modo ambiguamente dolce. Dove la satira sessuale di Babygirl di Halina Reijn raccontava di cosa possa essere (ancora e per fortuna) la pulsione femminile in un'epoca in cui chiunque la vuole ingabbiare in confini e limiti verniciati di rosa candido floreale, Pillion si concentra sull'estremo di una mascolinità tossica che tanto abbiamo imparato a conoscere anche al cinema (e di cui, in questo senso, un certo motociclismo ne rappresenta il carattere esemplificativo). C’è una rivalsa, anch’essa scomoda, tagliente, inattesa, del ragazzo sfigato, impacciato e mammone che desidera qualcosa al di fuori della sua safe zone, e la reclama fieramente.
Harry Lighton, un talento sconfinato per essere solo all’opera prima, sonda un terreno leggero e sfacciato, ma sempre esplicito, duro, ruvido e selvaggio, prende la tenerezza amara di Pin Cushion, di una purezza che deve, ad ogni costo, dialogare con la cattiveria, per ribaltarla, sovvertirla, con esiti impressionanti e indimenticabili. Quella tra Colin e Ray è una simmetria distorta, violabile, invertita e sempre di parti e ruoli uguali, mai intercambiabili. C'è chi controlla e chi è controllato, chi governa e chi è schiavo (I Wanna Be Your Slave cantano i Maneskin, con il video musicale di nuovo, non casualmente, diretto da Bozzelli). Ma c'è soprattutto chi accetta tutto, con una semantica di auto-illusione e sabotaggio che cerca il rischio e lo cavalca pur di sentirsi sbagliato. Ciò che rende così grande Pillion è proprio di concentrarsi su questo punto di vista, che non è quello della classica e abituale vittima di un carnefice, ma quello di un boia che ha deciso di consegnare le chiavi del proprio corpo fragile a qualcun altro, e con i lividi addosso ne rivendica ancora il possesso e il controllo, al di fuori di tutte le convenzioni del desiderio normato.
Imperdibile.


RENOIR (di Hayakawa Chie, Concorso)


La morte e la malattia creano distanze. Nella sua opera prima Plan 75 Hayakawa Chie raccontava di un Giappone prossimo in cui l'eutanasia era garantita ad ogni anziano sopra i 75 anni, senza alcun certificato medico o altra patologia accertata, solo la volontà di lasciarsi andare pur di non vedersi invecchiare soli e male. Ma dietro quella che sembrava la più grande conquista etica (e demografica) del millennio, dietro le interminabili procedure burocratiche e le distanze tecnologiche imbellettate, rimaneva soltanto un freddo isolamento, uno spegnersi senza clamori mentre qualcuno avrebbe portato via tutti i nostri effetti personali. In Renoir una bambina di 11 anni si ritrova così negli anni '80 ad affrontare una distanza analoga e imminente, la desolante malattia terminale del padre, l’assenza della madre sempre via a lavorare. Ma l'immaginazione (un'immaginazione, come le tante e multiple di Miyazaki) è ancora possibile, a tenere in vita la piccola Fuki, a fluttuare emotivamente in quella separazione ormai prossima e inevitabile, in cui Fuki è sempre sola con se stessa, ad aggirarsi per stanze vuote di ospedale o in sella alla sua bici per arrivare chissà dove. In che modo ci si può allora (e ancora) avvicinare al dolore di un altro, soprattutto se di un caro? Inventando quali mondi, giocando con quale fantasia? 
Fuki immagina, all’assottigliarsi dei suoni, vede apparire le assenze e per lei basta per crederle esistenti, sono però giochi immaginifici senza immagini, pensieri lucidi a cui manca ancora una compiutezza reale (che arriverà troppo tardi, dopo una prima parte ridondante e francamente sfiancante). Sono le stesse parole immaginifiche di Dreams di Dag Johan Haugerud, verbosissimo trattato contemporaneo su come inventare mondi senza vederli realizzati. Ma sembra di ritrovare anche l’Hirozaku Koreeda di Monster, una realtà multiprospettica in cui i bambini giocano a indovinare ruoli, colpe, implicazioni reciproche, tra isolamenti e segreti. Si può essere soli anche nella propria stessa famiglia, senza una casa eppure con un tetto sopra la testa, persi e dimenticati tra le cartoline e i ricordi, perché non c’è qualcuno con cui parlare, con cui condividere quell’immaginazione. Ognuno, nel suo piccolo antro di vita, vorrebbe essere il protagonista della propria tragedia personale, come quel tema scolastico registicamente mistificatore che in apertura al film sembra suggerire, prima ancora di iniziare, la morte della sua protagonista. Ma è un inganno. 
Hayakawa Chie ribalta tutta quella concezione classica del malato come angelo santificato a cui dedicarsi anima e corpo rimanendo (apparendo) sempre perfetti, buoni, accettabili. Si può invece litigare, discutere, persino odiarlo per il nuovo ruolo familiare che questi rappresenta, “Che possa morire presto” pensa la madre attraverso le parole di Fuki, mentre già si prepara al funerale. Enfant prodige di quelle immaginazioni comunque sporcate dalla cattiveria del mondo, Fuki si vede infatti rubare ogni scena della sua infanzia, le sue attenzioni, i suoi capricci da soddisfare. “Piangiamo per le persone che muoiono perché ci dispiace che siano morte o perché ci dispiace per noi?”. In Cortesie per gli ospiti Ian McEwan diceva che le buone maniere sono “un modello retorico, uno schema procedurale”, una cortesia di sopraffazione per sentirsi ancora nobili e casti. Sulla scia degli studi di Edith Stein, l'empatia non è infatti semplice etica della compassione, una forma di pietismo strappalacrime che ci fa sentire orgogliosi del dolore altrui (e di cui tutti i personaggi sembrano qui in questo rivelatori), ma è invece la diretta conseguenza dell'intersoggettività, della natura relazionale di ogni essere umano, che esiste al di fuori di sé, che scopre l'esistenza di un altro, autonomo, diverso, separato. E quando questo incontro umanissimo non è possibile, rimane un’incomunicabilità sostanziale, che in Renoir corrisponde in egual modo ad un approccio registico rigido e rigoroso, spesso (e troppo) però inutilmente diluito, e per premesse così grandi è un vero peccato. 
Prima o poi ci riscopriremo umani.


YES / KEN (Nadav Lapid, Quinzaine des cinéastes)


Il cinema di Nadav Lapid esiste innanzitutto in una forma esistenziale e autobiografica in cui le grandi domande sono quelle della sua vita, del suo essere artista, israeliano, immerso in un contesto personale, familiare, geopolitico ben chiaro e definito, disperato e fuori posto. Il protagonista porta sempre lo stesso nome dei film precedenti, contratto, abbreviato, puntato, Y., anche se il volto dell'attore (e il personaggio) che lo interpreta è ogni volta diverso. Ma rimane sempre in qualche modo un artista, fittizio, inesistente, eppure presente al tempo, al contemporaneo, alla storia di uno stato genocida e sanguinario più attuale che mai, in cui “il ministro della cultura odia la cultura, in un governo che odia tutta la bellezza umana”. Manipolazione e censura, accettazione e compromesso: il caos più sordo e cieco possibile. In Ahed's Knee era un regista in trasferta in una città desertica e sabbiosa dell'Arava di appena 5000 abitanti per presentare un suo film “politico” al costo però di rinunciare ad ogni qualsivoglia critica allo stato di Israele (e a tutta quella semantica considerata sovversiva perché diversa da quella classica e incontestabile del giudaismo e antisemitismo). Qui invece è una coppia di un musicista e una ballerina, Y. e Yasmine, mattatori sfegatati delle feste più esclusive e mondane d’Israele, sesso, droga, stelle di David in versione neon multicolor. “La bella vita”. Party privati in yacht “più ricchi di Dio” da cui con i binocoli spiare le bombe dall’altro lato della costa, ma ignorarle. Sfidare i membri più alti dell’esercito in music battle schiamazzanti, ma essere costretti a farli vincere, a lasciarsi perdere, perché è un gioco, anche se non è mai soltanto un gioco. All’ombra degli attacchi del 7 ottobre a Y. arriva una proposta milionaria, scrivere un nuovo inno per lo Stato d’Israele, per la guerra, per il massacro, su commissione. Sì, No. Nessun'altra opzione.
Lapid continua a generare dal suo stesso cinema, ne fa appendici, figli putativi, apparati tentacolari e assurdi dello stesso sguardo nervoso, idiosincratico e traumatizzato, sempre manifesto nel mostrarsi occhio stralunato eppure lucidissimo dietro un (alter) ego frammentato e scomposto, qui ancora più splendidamente confusionario dei film precedenti. La macchina da presa gira, anticipa le azioni, si perde a destra e a sinistra, in alto e in basso, è confusa e disorientata in un frastuono assordante come chiunque abbia una cittadinanza ma non si senta cittadino di niente, se non del proprio incolmabile senso di colpa, del proprio senso di responsabilità etica nazionale (e non nazionalistica) strappato nel cuore. Il piano visivo-narrativo e quello teorico-intellettuale collimano, collassano. 
Il linguaggio, com'era già in Synonyms, Orso d'Oro a Berlino nel 2019, è questione semiologica e sostanziale. Capire e farsi capire, tradurre una cultura o un modo di pensare (come Y. che spiega il mondo al figlio neonato, nominandolo per nome in ogni dettaglio). Pronunciare la stessa parola in ebraico o in francese significa percepire un odore di guerra piuttosto che un profumo di pace. E se in Synonyms le parole erano a tal punto private del loro significato da diventare solamente suono, qui Lapid, per l'ennesima volta, si concentra su una sua estremizzazione, un rumore bianco sporcato del sangue della guerra, il volume che si alza oltre i limiti di sopportazione per cancellare ogni altro tipo di suono. La musica (di tutti i tipi e volumi) risuona nella realtà fuori beat, fuori tempo. 
“Ci sono solo due parole nel mondo: Sì, No. Quale scegli?”
Una responsabilità, più che politica, umana.


EAGLES OF THE REPUBLIC (di Tarik Saleh, Concorso)


Il cinema è un atto politico, non solo perché rappresenta una visione del reale (o dell'irrealtà) fatta di ideali sociali, ma perché si inserisce in un sistema economico ricchissimo fatto di raggiri, sotterfugi, frodi e raccomandazioni. Così la politica entra nel cinema, non da un impeto etico interiore, ma dalle vie più losche del potere. George El-Nabawi è il Faraone dello schermo, il più grande attore d'Egitto, amatissimo da tutti e campione d’incassi, ma quando si è così popolari anche per il governo si diventa osservati speciali. E se non si ha più nulla da offrire a parte la propria immagine popolare si è anche più vulnerabili nell'accettare l’inaccettabile, al costo di minacce alla famiglia e ricatti, di problemi creati appositamente per essere risolti da favori e scambi. Come infatti accadeva già in Nightmare Alley di Guillermo Del Toro l'Uomo Bestia diventava la più popolare attrazione da fiera (da guardare, consumare, applaudire) proprio perché rinunciava a tutto, alla sua libertà, alla sua indipendenza, se ne aveva mai posseduta una. George viene così chiamato ad interpretare in un nuovo ruolo (fazioso, propagandistico) il presidente egiziano al-Sisi, ancora in carica, nella realtà e nella finzione. Ma in quanto ufficiosamente progetto di stato (dal titolo assai dimostrativo “La volontà delle persone”) bisogna evitare caricature, sarcasmo, sfumature psicologiche e overacting. Non possono esistere il Berlusconi di Servillo, il Bettino Craxi di Favino, l’ultimo indimenticabile Mussolini di Marinelli. Perché l’obiettivo non è di costruire un personaggio, ma manipolare l’esistente per renderlo più affascinante e carismatico. Costruire insomma una nuova realtà più adatta alla politica anche se non ci assomiglia per niente. “Tieniti l’immaginazione per te” viene intimato a George in uno dei tanti consigli che sanno di intimidazioni. Come se i film fossero poi due: quello diretto in camera, ufficiale, formale, con gli sguardi vigili dei rappresentanti di governo fissi e attenti sulla scena e attorno ad essa, e quello più losco fuori camera, fuoricampo, per questo più sincero e libero, ma quindi anche scomodo, temporaneo.
In una sceneggiatura zoppicante di parentesi e pochi punti fermi (che esplode però tutta nel finale), Tarik Saleh racconta della connivenza del sistema delle immagini, dello stare in poltrona comodi e passivi (o sotto i fili manipolativi degli altri) mentre qualcuno si sporca le mani: lo è George alle parate politiche in cui le occhiate di ufficiali e ministri si incrociano nella complicità, lo siamo noi spettatori di una realtà alla quale pensiamo erroneamente di essere impotenti perché distanti. Come già accadeva nei suoi film precedenti (La cospirazione del Cairo, Omicidio al Cairo), il potere sfuma tra gli imprecisi concetti di bene e male, giusto e sbagliato, e persino la fede non è che la scusa per giustificare l'ingiustificabile.
Una satira politica ferocissima che accede agli immaginari filmici (e quindi metacinematografici) più consolidati, che passa dal noir alla commedia degli equivoci in un istante. Tutto è parte di uno schema più grande di propaganda, di un sistema corrotto che su ogni libertà (artistica compresa proprio perché intrinsecamente ampia) vuole avere il controllo totale e totalizzante. 
“Diciamo parole che non sono le nostre, proviamo sentimenti che non sono i nostri”. 
Un discorso, come ne La storia di Souleymane, scritto da altri. Ma non è più il cinema, è la vita reale.


AISHA CAN’T FLY AWAY (di Morad Mostafa, Un Certain Regard)


Il volto di Aisha non si vede, nascosto sempre dal lungo drappeggio del suo velo. Si muove, corre, è una testa squadrata (e inquadrata) da dietro, headshot, come se una taglia pesasse sul suo cranio. Davanti, due occhi eterocromici, così inconsueti, diversi da sembrare sacri, alieni. Blu e marrone si stagliano su una pelle d’ebano molto più scura di tutti gli altri. Perché l’Africa è un continente grande, e di africani ne esistono tanti, con gerarchie, tensioni, insofferenze reciproche sociali che il più delle volte sfociano in guerriglia urbana. Aisha fa la badante a Il Cairo, iniezioni, medicamenti, qualche favore (sessuale) di troppo. Ha una relazione con uno chef che si occupa di lei, ma è soprattutto invischiata con un clan locale che la obbliga a duplicare le chiavi di casa degli anziani che assiste per andarli a derubare. Non c’è speranza, possibilità di riscatto, non sembra essercene nemmeno lo spazio. “Non hai il diritto di scegliere” le dice il suo capo. La macchina da presa la segue implacabile in giornate sempre uguali. Una realtà sociale silenziosa, lenta, soffocante. Aisha non appartiene a niente, tantomeno al suo quartiere, non vola, non esce mai al di fuori del suo alveare infernale. Fissa quel mondo irrimediabile con sguardo ieratico, maternale, di una creatura fattasi donna, tra gli ultimi, per avere qualcosa da vendicare. 
Parte come il più classico dardenniano dramma sociale l’interessante esordio di Morad Mostafa, ma si fa ben presto altro, sfocia nel simbolico, di nuovo, come in Renoir, in immagini mancanti. La carne ribolle, brucia, pulsa, si consuma nel torpore, ma accumula il presagio di una specifica trasformazione. 
Come nel connazionale Feathers di Omar El Zohairy (su un uomo trasformato in pollo per un trucco di magia di un ciarlatano andato male), visto che l’uomo ha rinunciato alla sua natura umanizzata (per il denaro sonante, per la violenza incontrollata), il fantastico prende piede, lo invade, lo sostituisce per intero, de-umanizzandolo più che dis-umanizzandolo. In qualche modo il Male trova sempre il modo di uscire, di trovare la sua nuova casa. 

21.5.25

Festival di Cannes 2025 - Parte 1 - Recensione 6 film - di Riccardo Simoncini

 

E' vero che non scrivo qua da due mesi ma mentre io prolungo sta pennichella bloggara (che se sta a trasformà in una specie de mega dormita di 18 ore tipo after rave) i miei amici/scagnozzi non si fermano.
E sono lieto di annunciarci questo pezzone (questa è solo la prima parte) che ha scritto Riccardo Simoncini, andato per me a Cannes a godersi l'ultimo Festival (non è vero, c'è andato per sè ma approfittiamo l'uno dell'altro a vicenda).
Sei recensioni, sempre emozionanti ed esaustive, nel suo stile.
E, a Festival finito, arriveranno le altre.


MIROIRS NO. 3 (Christian Petzold, Quinzaine des cinéastes)


Il capitolo conclusivo di una trilogia, il termine ultimo di una sospensione, di un'immanenza sentimentale, ma tra tutti gli amori incompiuti di Christian Petzold Miroirs No. 3, che risuona come l’ultimo movimento di una sinfonia classicheggiante, è anche quello che si apre di più al gotico, al perturbante, ma lo fa sempre con una consapevolezza di leggerezza (che in Petzold è più propriamente leggiadria), breve ed essenziale. I segreti dormono qui nella soffitta polverosa della nostra mente, sgattaiolano fuori guatti guatti mentre fuori c'è la tempesta. Una ragazza giovane, un incidente stradale violentissimo e irrimediabile: il corpo illeso, l'anima martirizzata tra le quattro mura della famiglia di una testimone che l'ha vista salvarsi e così l’ha accolta a casa, quasi amata come se ne fosse stata madre. Laura sopravvive all’impatto, mentre il suo ragazzo muore sul colpo. “Dovrei soffrire lo so, ma non è così” dice lei, la solita empirea e inquieta Paula Beer. Allora l'amore non è più impossibile perché il futuro ce lo porta via ogni istante, traslandolo in tempi e spazi contigui, ma perché il passato l'ha interrotto, ha messo un punto sulle sue immagini, esattamente come accadeva nel colossale Megalopolis di Francis Ford Coppola. Nel lutto irrisolto della moglie l'avveniristico architetto Cesar Catilina depositava il brevetto della sua genialità: il tempo di un amore mutilato, il futuribile del sentire, la materia trasparente dei sogni più grandi. L’assenza stessa è un fantasma (di un ricordo, di una vecchia normalità perduta), anche senza che nessuna entità sovrannaturale si palesi come sua immagine dichiarata. Una visione spettrale, di una routine famigliare che si deve (de)costruire man mano, tra l'invisibile e l'etereo di una casa in campagna che riceve il vento da ogni lato. “Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo” recita Tolstoj in uno degli incipit più noti della letteratura russa. Infelici sono tutti anche se sembrano il contrario. Betty, marito e figlio, due meccanici tuttofare, un po’ loschi, difficilmente criminali, e poi un nome, Yelena, pronunciato continuamente, eppure nella casa, nel concreto, nel presente, assente. Così Laura entra, da miracolata, fuoricampo, in quella casa silenziosa troppo grande e vuota per essere abitata da una persona sola. Improvvisamente però nasce l’urgenza di risistemare tutto, gli elettrodomestici fuori uso, il pianoforte scordato, la bicicletta rotta, come per un’evenienza imminente e rara.
Coincidenze, suggestioni fatali, reminiscenze enigmatiche, incastri troppo perfetti per essere reali, così fortunati da essere stati scolpiti dal tempo per (ri)trovarsi, senza lasciare che nemmeno la più piccola imperfezione di colpo di scena potesse accadere imprevista a rovinarli. Tutto combacia, tutto passa da sguardi penetranti (riflessi, miraggi) che sono in sé potenti presagi, di fine e di inizio.
Rientrerà il vento a spalancare le tende della solita camera esposta. Ed è lì esposti alla vita che ricomincerà il mondo.

THE LOVE THAT REMAINS (Hlynur Pálmason, Cannes Premiere)


Quando l'amore finisce cosa rimane? Un residuo, un avanzo, più spesso una scoria. Ma nella terra dell'Islanda desolata, ricolma di vita e di trionfi di natura, rimanere soli sembra impossibile. Come se quei luoghi, animati da dentro, tenessero prima di noi i fili delle nostre relazioni, attaccati ad un ramo flessibile o alla radice di una betulla, impedendoci di cadere nel baratro della solitudine, magari anche dispersi a galleggiare nell’oceano ghiacciato, ma comunque ancora con qualcosa in mano. Una fantasia, una visione. È impossibile che lì tutto termini in un istante come quei classici amori tormentati raccontati dal cinema americano. Gli avvocati spietati di Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, in perenne lotta per custodia e mantenimento, sono infatti qui la natura stessa: un ceppo conficcato nel terreno che arriva a sfiorare il cielo, la neve scottante e friabile. Quei profili acuminati di paesaggio sembrano cattivi, ma possono esserci amici, se li si sa ascoltare con ironia, quel bizzarro umorismo nordico qui più sciolto che mai, con tanto di inserti onirici e fantasmatici esilaranti, inediti persino per lo stesso Pálmason. 
Funghi, bacche in grappolo da spremere fino all’ultima goccia, la sabbia pesante che vola via. Decostruire l’amore scavando in profondità nel fango, strato dopo strato, scheggia dopo scheggia, vedere cosa si nasconde al centro della Terra, nel nucleo primo di una famiglia, le cui leggi di natura sono quelle della natura stessa e da cui, di conseguenza, passa ogni legge superiore, giuridica, morale, spirituale. Le contraddizioni sono intrinseche per definizione in questa dinamica, nello stesso tempo il sole scalda e brucia, la pioggia disseta e scioglie, “Ti amo ma non ti amo” diceva la protagonista de La persona peggiore del mondo di Joachim Trier. Una famiglia, un padre che dall’oceano profondo tira su vecchi ordigni esplosivi insieme alle reti piene di aringhe, una madre artista della ruggine ma senza pubblico né gallerie, tre figli appresso, un sacco di animali attorno. Le vite si separano, riunite solo dall’occasione di natura. Sembrano le generazioni (mal) intersecate di Alcarràs di Carla Simón, dove ognuno trova autonomamente la sua strada e il suo punto di vista personalissimo in mezzo allo sconfinato paesaggio rurale di raccolto. 
Pálmason torna alle sue stagioni trasformanti, al loro inarrestabile fluire e mutare, tra il gelo e il (ri)fiorire in frutto, daccapo come un ritornello sentimentale. L’uomo è solo personaggio di contorno, un rumoroso ingranaggio meccanico che gira e rigira finché non si inceppa, ridicolo protagonista insignificante rispetto al quadro naturale più grande. Così l'amore finisce, ma come da titolo rimane, con una presenza costante, invisibile ma tangibile di natura. La famiglia cambia, si disgrega, vive per la prima volta una distanza, ma appunto rimane qualcosa. Sicuramente la casa, anche se scoperchiata come nell’incipit del film, da sempre ossessione materica e spirituale di Pálmason, struttura (apparentemente) stabile in mezzo alle più dure ostilità. La casa di Dio in Godland, la casa dei giochi d’infanzia in Nest, la casa familiare da ristrutturare perché resista alle intemperie in A White, White Day, il cuore caldo love after love. Ma come far profumare ancora di casa un luogo in cui non c’è più romanticismo, ma soltanto al massimo qualche fredda e meccanica pulsione sessuale? Attraverso i ricordi, i profumi fuori da quelle mura, in mezzo al niente, dove nuove case devono invece essere costruite, riempite di nuovo amore, più abitabile per tutti.
The Love That Remains è forse un film minore rispetto ai precedenti, ma rimane comunque un pezzo essenziale (inedito nel suo tono più umoristico e spensierato) della natura metamorfica del mondo che ha da sempre caratterizzato tutto il cinema di Pálmason. Perché anche l’amore si trasforma e si riforma. Non si butta via niente.


BRAND NEW LANDSCAPE (Danzuga Yuiga, Quinzaine des cinéastes)


Tokyo cresce, verticale e prosperosa, occupa angoli di cemento con altro cemento più pesante e acciaio. Sotto i grattacieli, nel punto più basso della loro gravità, le persone girano, si perdono, come in ogni altra metropoli, per trovarsi o lasciarsi, difficilmente per cambiare, “troppo piccole per essere ancora umane” diceva ne La città delle ultime cose Paul Auster, padre della letteratura americana metropolitana, in cui il brulichio di passi è sempre sintomo di un’alienazione più grande. Ren consegna orchidee ornamentali a domicilio, le impacchetta nel bagagliaio con cura e dedizione. Da quando è morta sua madre, suicida, ha perso ogni contatto con il padre, famoso architetto della modernità, landscape designer, autore di imponenti palazzi per gli altri anche a costo di sacrificare le fondamenta emotive della sua casa familiare. Idealmente Ren si ricongiunge a lui nei ricordi, con le vite che non sono mai state, lasciate là ad arrugginire in mezzo ai cantieri, sempre in attesa che qualcuno le riprenda, recuperandole come si fa con il passaporto sgualcito all’ufficio oggetti smarriti. La famiglia di Ren è questo: un’idea, un ricordo, uno spettro remoto che si aggira come comparsa nelle stanze sigillate del passato, una cartolina sbiadita appartenuta per lui a secoli prima, per il calendario ad una manciata di anni appena trascorsi. È la stessa pervasiva nostalgia di 45 Years di Andrew Haigh (ma anche del suo più recente straordinario All of Us Strangers) capace di riportare in vita, come in un paradosso storico, anche i nostri fantasmi più deteriorati. Solo che a differenza di quella coppia anziana in pensione che sta per festeggiare i 45 anni di matrimonio, Ren è un giovane come tanti, che la vita ha appena iniziato a viverla, eppure la nostalgia riguarda anche quei primi fugaci attimi di passaggio sulla Terra, di mani ancora lisce e glabre, le gambe veloci e scattanti, ma gli occhi sono tristi, non entusiasti. Ecco il destino dei giovani d’oggi (il regista, appena 26enne, è il più giovane della storia della Quinzaine): invecchiare nel corpo di un adolescente, accelerare un futuro strabordante, dilatare un passato traumatico incerto e fragile. Torna alla mente il destino della giovane protagonista 22enne di The Cloud in Her Room di Zheng Lu Xinyuan, le ceneri granulose e acri del tabacco che appestano ogni pezzo di appartamento, i miliardi e microscopici granelli di polvere da raccogliere insieme ai ricordi frammentati. “Il passato non conta più” dice la sorella poco più grande a Ren, aggrappandosi ad un trasloco imminente con il futuro marito come rifugio di accordo e distrazione per cancellare di netto quello che è stato. Ma per Ren non basta, si può dimenticare il suono della voce di un padre, ma non i vuoti che le sue assenze hanno portato. Ren crede si possa ancora riallacciare i rapporti, riassemblare i pezzi rotti della propria famiglia come nell’arte giapponese del kintsugi, ma non accetta di vederne le cicatrici dorate in bella vista, i punti più deboli di frattura. Rimane il rumore assordante di solitudine dei grattacieli che grattano via il vuoto dell’infinito cielo interiore. Lo spleen di Baudelaire, lo spaesamento moderno ma composto in un quadro contemplativo di struggente malinconia: è un bivio del (nel) tempo.  
A quale luogo sentiamo allora di appartenere? Quale tempo ci può finalmente contenere? Siamo una rievocazione storica, un’installazione come The Zone of Interest di Jonathan Glazer, ma con i fantasmi personali al posto dei mostri dell’Olocausto. Diceva sempre Auster che i fantasmi muoiono sempre nel sonno. La speranza è di averne ancora qualcuno per ricordo. Il coraggio almeno di immaginarlo.


URCHIN (Harris Dickinson, Un Certain Regard)


Mike è un giovane pigro, scanzonato e vagamente immaturo, ha lasciato la scuola troppo presto, e adesso si è ritrovato in un brutto giro, ma senza un vero e reale motivo. Droga, dipendenza, vagabondaggio, depressione, non siamo nelle periferie di Andrea Arnold, sporche di terra e di lingua, ma nella Londra delle mille opportunità. Il ciclo di Mike è un loop caustico e inarrestabile, si ripete sempre identico, alla stessa maniera: trova un lavoretto stagionale, perde le staffe, ritorna alla droga, a dormire sull’asfalto, qualche furto lo fa rinchiudere in carcere e poi il ciclo riparte, sempre uguale, temporaneo, senza alcun minimo segno di ravvedimento o conversione. Sono infiniti incontri che si susseguono e si perdono sempre attorno agli stessi quattro isolati di terreno. Quei luoghi e quegli spazi metropolitani costituiscono un ecosistema di comparse che via via lo avvicinano, lo allontanano. Uno spettacolo sconsolante degli stessi ultimi che sempre lì chiedono l’elemosina, rubano portafogli, suonano violini per spettatori assenti e distratti. Il ciclo è lo stesso per tutti, con le stesse distanze, tra chi ha tutto e chi non ha niente, gli occhi non si incrociano mai neanche per un istante, sempre con la paura di avere qualcosa da perdere. Così lo sguardo di Harris Dickinson (il volto seducente e provocante di The Square e dell’ultimo controverso Babygirl, qui all’opera prima) si concentra dissacrante sulle idiosincrasie di questa separazione, sul carattere crudelmente sarcastico di quel niente e di come farselo bastare. Non c’è mai un attimo di pietà o commiserazione. Gli ultimi sono lì a prendersi la loro rivincita di sguardi (complici, divertiti), come nel cinema umanista di Sean Baker e in quello filantropico di Mike Leigh, con quel realismo sociale dolceamaro che lo lega fin troppo evidentemente al meraviglioso Naked. Riposizionarsi in un nuovo equilibrio normale, di sbieco al fato avverso, trovando un nuovo centro di gravità permanente, come l’avrebbe chiamato Battiato. L’unica conferma di Mike è però per l’ennesima volta di non aver combinato niente, di averlo fatto consapevolmente. La vita è sempre allo sbando, sfilacciata come chiunque la abiti con un contratto a tempo determinato, come in Diciannove di Lorenzo Tortorici, sfuggevole, adirata, senza però quell'autocompiacimento sedizioso e serio che in quel caso diventava in ogni scena anche il suo limite più grande. Il problema di Urchin è spesso proprio qui, quando il regista vuole fare di più di un racconto semplicemente umano, forzando una visionarietà di fatto assente, un virtuosismo registico che il più delle volte non solo allontana dal racconto, ma risulta anche artificio ridondante e altezzoso. 
Il ciclo ricomincia, di nuovo senza motivo, un altro anno, un anno come tutti gli altri, per parafrasare Another Year appunto di Mike Leigh.
Stavolta ci sarà un unico spettatore. Se stesso.


AMOUR APOCALYPSE - PEAK EVERYTHING (Anne Émond, Quinzaine des cinéastes)


Nel futuristico Her di Spike Jonze la voce incorporea di un'AI era il rifugio alla solitudine del mondo, l'amore perfetto e impalpabile da generare su misura per ognuno. In Amour Apocalypse una voce femminile di assistenza clienti, stavolta umana, corporale, apre le porte all’amore, cerca di tamponare una crisi del futuro che appartiene invece già al presente, con una minaccia ambientale talmente traumatica e irreversibile da essere causa di disturbi di personalità. Adam (Patrick Hivon con l’aura weird di Joaquin Phoenix) non fa eccezione, è uno sfigato responsabile di un rifugio per cani abbandonati, che per tanti versi gli assomigliano, così insicuri, indifesi, spesso anche un po’ ingenui e incoscienti. Con quella stessa leggerezza ansiosa ha acquistato una lampada terapeutica per rilassarsi, uno di quegli oggetti di design eleganti ed essenziali che promettono la salvezza eterna al costo di svendere la propria. Le ha provate tutte per superare la crisi esistenziale di origine climatica: podcast meditativi e motivazionali, psichiatri che anagrammano il suo nome per decidere diagnosi e farmaci, e ora utilizzare il supporto tecnico telefonico di quella nuova lampada miracolosa come aiuto psicologico ed emotivo. Adam così incontra Tina, una voce, la promessa di un’alternativa, la condivisione bilingue al di là della cornetta dello stesso “masso che pesa dentro”. Quando l’ennesima (improbabile) calamità naturale interrompe la telefonata, Adam, ancora una volta preoccupato, si convince a raggiungere quella voce, assicurarsi che sia tutto ok, farla diventare corpo consistente. Insieme inseguono una nostalgia primordiale all’inizio del mondo, fresco di creazione (Adam come Adamo dice lui stesso, “il primo uomo”), quando non c’era nulla di cui preoccuparsi, nel passato, presente e futuro, prima che tutto arrivasse ad un punto di non ritorno, a quella tristezza così invadente da essere anche il primo elemento identitario in cui sentirsi rappresentati.
L'esordio di Anne Émond cavalca tutto quel filone canadese inventivo, anarchico, caotico, ma leggero, a cui per ultimo appartengono anche i meravigliosi film di Monia Chokri da regista (BabysitterSimple comme Sylvain), in cui l'amore non è che una magica follia, un sollievo irriverente e tenerissimo travestito di assurdo (siamo dalle parti del surrealismo di Quentin Dupieux e di quello più esistenzialista di Miranda July - e se proprio bisogna trovargli un difetto è nei risvolti più drammatici in effetti che il film è meno brillante e convincente). Il tempo in cui viviamo non ha nulla della pulizia compositiva levigata e pudica di Her, i colori pastello sono ormai sporchi, riempiti di linee, schizzi, scarabocchi di pensieri. Ci sono complotti, scambi di persona, multiple fini del mondo che si rincorrono, via via più sfacciate e disinibite. Anne Émond gioca, cita, sovverte cliché o li cavalca (zoom veloci, musica pop, slow-motion). Sono lì gli stereotipi nevrotici del nostro tempo, come rifugiati climatici in perenne stato di guerra e di abbandono. 
Tutto sta cambiando. Come cantava Vasco Brondi in Cara catastrofe, preparandoci all’apocalisse “Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci / Ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile”. Prima dell’ultima, vera e definitiva fine del mondo sarà meglio innamorarsi per un’ultima e prima volta.


LA DANSE DES RENARDS - WILD FOXES (Valéry Carnoy, Quinzaine des cinéastes)


Camille contempla allo stesso modo le vittorie sul ring e il suo corpo snello da adolescente, anche quando lo vede sconfitto e perdente. Ha 17 anni, frequenta una scuola sportiva d’élite immersa nella natura in cui ogni classe è specializzata in una disciplina diversa, la sua è la boxe, e come tanti altri ragazzi della sua età, a prescindere dal tipo di carriera agonistica intrapresa, vive tensioni, rivalità, prime cotte serie e meno serie. Tra i tanti però è uno dei più promettenti atleti della sua generazione, con un futuro medagliato pressoché già scritto, che già lo fa ben posizionare tra i candidati più favoriti dei prossimi Europei. Un giorno, però, durante una delle sue tante uscite nell’ampia foresta vicina ad attirare e inseguire volpi (che danno il titolo al film), Camille cade giù da un dirupo. Il suo migliore amico lo salva, ma la cicatrice morale che si porta dietro da quel giorno lo cambia per sempre. Per la prima volta Camille si sente vulnerabile, fallibile, perso più che perdente. Sente per la prima volta la paura e ora teme di riprovarla di nuovo, ossessivamente. Così è meno performante, più debole, suscettibile. “È sempre il braccio” ripete come scusa. Eppure persino un amore adolescenziale (che qui è più simile ad una forma matura di affetto) accarezza tutte le cicatrici, anche le più recenti. Quel dolore non è fisico, ma mentale, e quegli episodi di nero, di deconcentrazione palpitante, hanno la fisionomia di attacchi di panico ricorrenti. Camille si allontana progressivamente dai suoi amici, si isola, si sabota, conferma lo stigma della psicologia come forma inaccettabile di disagio.
Al netto di interpretazioni attoriali anche molto efficaci (di Samuel Kircher in primis) l’approccio di Valéry Carnoy è però fin troppo convenzionale e scialbo. A parte le premesse drammaturgiche onorevoli (la rivalsa dell’archetipo maschile del giovane campione che deve performare ad alto livello e che invece fieramente è fragile e piange), non c’è mai un’analoga visione filmica capace di valorizzarle. Manca cioè uno sguardo, compiuto, soppesato, che renda lo sport, anche lontano dal ring, più di una semplice competizione con ansie collegate, vedere, cioè, in quella lotta esasperata, nel sudore che cola, nel sacrificio rabbioso della disfatta, quello che facevano, tra i tantissimi, Martin Scorsese con Toro Scatenato e per ultimo in ordine di tempo Luca Guadagnino con Challengers: sfruttarne i dispositivi linguistici (di tensione, di montaggio) per costruire un’iconografia, una forma di ossessione (per Scorsese la violenza inaudita, per Guadagnino il desiderio ubiquitario).
Al di là della forza, della velocità, della resistenza, lo sport è sempre questione di testa. Anche dopo aver vinto si può avere paura. La storia di un’amicizia (mancata) con se stessi.