ALPHA (di Julia Ducournau, Concorso)
Nel cinema di Julia Ducournau i corpi sono le intercapedini fisiche in cui si accumula il dolore, il suo body horror prima di essere mostruoso, rivoltante, spesso insostenibile, è l'immagine di una degenerazione, di un trauma che via via peggiora nel rivoltarsi e divorarci dentro. Perché i nostri corpi sono destinati a prendere il controllo su di noi. Non solo percettivamente, come in The Substance di Coralie Fargeat, dove il corpo si sdoppia, dismorfo e sessualizzato, perché i propri occhi, filtrati dagli altri, lo vedono invecchiato e sbagliato, questo ribaltamento di potere avviene anche e soprattutto in una forma interna di rinuncia che quegli sguardi, quegli amori trasformati in odio, hanno interiorizzato tra le cellule e il sangue. Ci hanno ridotto a solo corpo e nient'altro, e così abbiamo finito per perderne la paternità. Ma nonostante ciò in Titane un padre finiva comunque per accettare come figlio un corpo che non lo era, anche dopo inequivocabili segni che non lo fosse per davvero. Basterebbe un po' d'amore, ci dice Ducournau, per non essere più solo corpi, anche per padri diversi.
Alpha (la prima lettera dell'alfabeto greco, l’ipotetico e metaforico caso indice di un implacabile contagio) è una ragazzina di 13 anni, vive sola con la madre medico e uno zio drogato che è sopravvissuto alla morte fin troppe volte.
Un giorno Alpha arriva a casa con un tatuaggio sul braccio, con l’inchiostro ancora caldo e bruciante, l’ago usato di dubbia provenienza. L'amore continua a mancare, continua a salvare, ma è anche l’amore (la sua negazione, la sua distorsione) che fa ammalare. Sono gli apparenti anni dell'AIDS (anche se non viene mai nominata in modo esplicito), della “malattia di chi fa la vita” come la chiamava in senso lato Gabriel Garcia Marquez in Cent'anni di solitudine, in un tempo fittizio simil ‘80 in cui si pensa (erroneamente) che persino la prossimità sia in sé fattore di rischio, precauzione paranoica per evitare ogni contatto. Nessun abbraccio, nessun bacio. Quando il tatuaggio di Alpha inizia a sanguinare, si diffonde la sensazione (illogica, prevenuta) che sia anche lei infetta, senza alcuna prova o test positivo di conferma. Alpha vive il destino di ogni mostro, non importa se presunto o mancato, basta uno sguardo distante su quel corpo per vederlo malato, anormale. Così a scuola Alpha viene segregata, isolata, per la paura che quella mostruosità emorragica diventi anche la propria, in uno scambio di fluidi e di colpe come la maledizione demoniaca di It Follows di David Robert Mitchell. Sua madre invece teme un’infezione latente, il caso raro incontrollabile, che nemmeno una conoscenza medica sconfinata può riuscire a esorcizzare. Per amore, con amore, quella madre cerca ossessivamente in Alpha segni di malattia (“quello che capita a te, capiterà anche a me”, dice in un patto di sangue che nel rischio più sconsiderato trova la più grande dichiarazione di affetto), gli stessi segni che tutti gli altri, senza amore, le impongono anche in assenza di certezza.
Ma il virus è innanzitutto una storia, una memoria (allegorica) condivisa ad ogni amato, un racconto di fantasmi che tra presente e passato si spingono sottopelle, non ti lasciano più andare, ti richiamano con gli echi di una voce di morte (più che una ferita) marchiata, indelebile. “Spero che non sia troppo tardi per dimenticare”.
I corpi ancora una volta mutano, si trasformano, così tanti, come in ogni epidemia apocalittica, da saturare gli ospedali, si sgretolano a pezzi come pietra secca e arida, il sangue liquefatto polverizzato in sabbia, ma rispetto agli altri film di Julia Ducournau quei corpi appaiono qui in una forma meno squisitamente orrorifica e disturbante, più concettuale invece, intima e privata (anche se con qualche acciacco narrativo di troppo che lascia da parte alcune questioni drammaturgiche di sostanza).
La biologia però è di nuovo stravolta, ammattita. I corpi fluidamente si trasformano in ciò che non hanno mai potuto essere, sporchi e sbagliati. Se in Titane una donna rimaneva incinta di una macchina e in Raw la pelle pruriginosa rappresentava la reazione allergica alla propria crescita, di rigetto da dentro a fuori come in un trapianto andato male, qui i corpi si irrigidiscono duri come il marmo, bianchi granitici, con una tosse di gesso e talco. Statue eternamente immobili che hanno intrappolato traumi. Comunque sempre qualcosa di più di un pezzo di carne. L’ennesimo grandissimo film di una regista straordinaria.
UN POETA (di Simón Mesa Soto, Un Certain Regard)
Un ometto piccolo, ingobbito e trasandato, con gli occhi spenti e le labbra carnose deflesse. Oscar Restrepo dice di se stesso di essere “un eterno e perpetuo sognatore”, ma dietro la scusa dell'essere poeta nasconde solo una profonda rassegnazione, un disimpegno politico e sociale che vorrebbe essere stoico ma che di fatto lo sta consumando piano piano. Agli eventi letterari rimane in disparte, trangugia alcol ad ogni occasione utile, è assente alla sua stessa vita. Ricorda per tanti versi il Comico fallito di Entertainment di Rick Alverson, che in un'America desertica se ne andava sui palchi intinto di gel untuoso a dire battute volgari e misogine che non facevano ridere nessuno. Ed esattamente come Entertainment, Un poeta è girato con l'occhio della malinconia, della passiva ricezione di un microcosmo, la Colombia, che non è più in grado di parlare alla sua gente, è abbandonata dalla vita stessa. Così si scrivono libri per infiniti anni senza finirli mai. Si urla non per recitare un poema ma perché un qualche suono gutturale arrivi più in là delle parole vuote (come nella puntata nichilista 3x04 di Bojack Horseman ambientata sul fondo del mare, nel silenzio delle bolle d’aria che si crede erroneamente di non poter ascoltare).
Quando la figlia emotivamente lontana (lo chiama sempre per nome, mai papà) gli comunica l’intenzione di iscriversi all’università, Oscar si convince di riuscire a pagargliela, anche se poi di fatto è lui a chiederle soldi in prestito. Il suo progetto irrealizzabile è soltanto la scusa disperata per non scomparire del tutto, almeno ai suoi occhi. Così, dopo anni di disoccupazione, Oscar inizia ad insegnare poesia a scuola, per guadagnare qualche soldo in più e non doverli reinvestire in operazioni finanziarie fallimentari. Fa lezione con il suo solito metodo corrosivo, ostile, rozzo e ubriaco, ma quando scopre che una sua studentessa scrive poesie su un quadernino brillantinato, che qualcuno condivide il suo sentire irrequieto, sofferto ma spontaneo, il mondo cambia, si accende di luce. Improvvisamente il progetto disperato di Oscar diventa quello di aiutare quella giovane adolescente a diventare poeta (al maschile come si autodefiniva Patrizia Cavalli), in un contesto dove anche e soprattutto le parole sono però guadagno, spettacolo, decalogo venale del sentire in versi. Premi letterari, comparsate televisive, il forzato e ostinato messaggio sociale da inserire ad ogni costo: tutto, anche in poesia, è ormai misura del successo e dell’apparenza. “Sotto questo cielo senza promesse”.
Dopo un'opera prima asciutta e politica su una madre che gira ovunque pur di trovare il figlio fragilissimo reclutato forzatamente tra le prime file dell'esercito corrotto (ancora una volta un personaggio macilento schiacciato dalla realtà, intorpidito di ogni afflato emotivo), Simón Mesa Soto accede ad uno spazio filmico ancora più rabbioso, scomposto, convulso, ma amaramente divertentissimo. Le immagini sono distratte, ansiose, nevrotiche, e per questo ancora più affilate, accompagnate musicalmente da una dissonante linea al clarinetto che stride ad ogni nota. Non ci sono più come nel film precedente i primi piani descrittivi di volti glaciali, inespressivi e smarriti, con gli occhi immobili a fissare il vuoto e i sorrisi accennati che sembrano smorfie, ora i visi si aprono, si allargano, strabuzzano le orbite, emettono urla animali e selvagge. Sono le due facce della stessa disperazione sociale, la fisionomia inevitabile dello stesso remissivo abbandono allo stato delle cose.
“Whyyyy?” diceva sempre in tono caricaturale il Comico di Entertainement.
La poesia non ha risposte.
Il colpo di fulmine di questa Cannes 2025.
PILLION (Harry Lighton, Un Certain Regard)
Durante un appuntamento al buio organizzato dalla sua invadente madre un giovane ragazzo timido si imbatte in uno spavaldo biker tutto impellettato, leader di un gruppo locale di appassionati. Motori roboanti, tatuaggi sulle braccia muscolose, catenacci e teste rasate. Nella tensione degli opposti caratteriali (con un Harry Melling candido, delicato e un Alexander Skarsgård in pantaloni di pelle aderenti statuario e imperturbabile) si crea un gioco perverso e tagliente di sottomissione, l’anatomia scandalosa di un disequilibrio aggressivo ma consensuale. Colin mangia in piedi, dorme per terra, lecca gli stivali da corsa di Ray al posto di una comune fellatio. Quando non canta come linea acuta in un quartetto vocale Colin è servizievole in ogni suo gesto, esegue gli ordini come un animale addomesticato.
C'è un'idea politica nitidissima dietro, della destrutturazione ironica e pungente del branco, del clan, del gruppo coeso di ragazzi forti che nella violenza testosteronica si incitano ed eccitano a vicenda. È la stessa operazione di quel corto capolavoro che è J'ador di Simone Bozzelli (e poi continuata nel suo esordio Patagonia), qui nella sua parodizzazione però più estrema e geniale: le luci crepuscolari, i petti nudi definiti che si desiderano solo ed esclusivamente nell'odio, attorno a rifiuti e ribellioni, (s)torture e armistizi, eppure conservano tutti lo stesso odore acido di marcio (o al massimo di sesso di gruppo sadomaso). Non c'è amore né sentimento, ma un desiderio che patologicamente vuole esistere solo come possesso e abuso, che nella chimica del bramare si fa gesto virile e vigoroso, ma anche a suo modo ambiguamente dolce. Dove la satira sessuale di Babygirl di Halina Reijn raccontava di cosa possa essere (ancora e per fortuna) la pulsione femminile in un'epoca in cui chiunque la vuole ingabbiare in confini e limiti verniciati di rosa candido floreale, Pillion si concentra sull'estremo di una mascolinità tossica che tanto abbiamo imparato a conoscere anche al cinema (e di cui, in questo senso, un certo motociclismo ne rappresenta il carattere esemplificativo). C’è una rivalsa, anch’essa scomoda, tagliente, inattesa, del ragazzo sfigato, impacciato e mammone che desidera qualcosa al di fuori della sua safe zone, e la reclama fieramente.
Harry Lighton, un talento sconfinato per essere solo all’opera prima, sonda un terreno leggero e sfacciato, ma sempre esplicito, duro, ruvido e selvaggio, prende la tenerezza amara di Pin Cushion, di una purezza che deve, ad ogni costo, dialogare con la cattiveria, per ribaltarla, sovvertirla, con esiti impressionanti e indimenticabili. Quella tra Colin e Ray è una simmetria distorta, violabile, invertita e sempre di parti e ruoli uguali, mai intercambiabili. C'è chi controlla e chi è controllato, chi governa e chi è schiavo (I Wanna Be Your Slave cantano i Maneskin, con il video musicale di nuovo, non casualmente, diretto da Bozzelli). Ma c'è soprattutto chi accetta tutto, con una semantica di auto-illusione e sabotaggio che cerca il rischio e lo cavalca pur di sentirsi sbagliato. Ciò che rende così grande Pillion è proprio di concentrarsi su questo punto di vista, che non è quello della classica e abituale vittima di un carnefice, ma quello di un boia che ha deciso di consegnare le chiavi del proprio corpo fragile a qualcun altro, e con i lividi addosso ne rivendica ancora il possesso e il controllo, al di fuori di tutte le convenzioni del desiderio normato.
Imperdibile.
RENOIR (di Hayakawa Chie, Concorso)
La morte e la malattia creano distanze. Nella sua opera prima Plan 75 Hayakawa Chie raccontava di un Giappone prossimo in cui l'eutanasia era garantita ad ogni anziano sopra i 75 anni, senza alcun certificato medico o altra patologia accertata, solo la volontà di lasciarsi andare pur di non vedersi invecchiare soli e male. Ma dietro quella che sembrava la più grande conquista etica (e demografica) del millennio, dietro le interminabili procedure burocratiche e le distanze tecnologiche imbellettate, rimaneva soltanto un freddo isolamento, uno spegnersi senza clamori mentre qualcuno avrebbe portato via tutti i nostri effetti personali. In Renoir una bambina di 11 anni si ritrova così negli anni '80 ad affrontare una distanza analoga e imminente, la desolante malattia terminale del padre, l’assenza della madre sempre via a lavorare. Ma l'immaginazione (un'immaginazione, come le tante e multiple di Miyazaki) è ancora possibile, a tenere in vita la piccola Fuki, a fluttuare emotivamente in quella separazione ormai prossima e inevitabile, in cui Fuki è sempre sola con se stessa, ad aggirarsi per stanze vuote di ospedale o in sella alla sua bici per arrivare chissà dove. In che modo ci si può allora (e ancora) avvicinare al dolore di un altro, soprattutto se di un caro? Inventando quali mondi, giocando con quale fantasia?
Fuki immagina, all’assottigliarsi dei suoni, vede apparire le assenze e per lei basta per crederle esistenti, sono però giochi immaginifici senza immagini, pensieri lucidi a cui manca ancora una compiutezza reale (che arriverà troppo tardi, dopo una prima parte ridondante e francamente sfiancante). Sono le stesse parole immaginifiche di Dreams di Dag Johan Haugerud, verbosissimo trattato contemporaneo su come inventare mondi senza vederli realizzati. Ma sembra di ritrovare anche l’Hirozaku Koreeda di Monster, una realtà multiprospettica in cui i bambini giocano a indovinare ruoli, colpe, implicazioni reciproche, tra isolamenti e segreti. Si può essere soli anche nella propria stessa famiglia, senza una casa eppure con un tetto sopra la testa, persi e dimenticati tra le cartoline e i ricordi, perché non c’è qualcuno con cui parlare, con cui condividere quell’immaginazione. Ognuno, nel suo piccolo antro di vita, vorrebbe essere il protagonista della propria tragedia personale, come quel tema scolastico registicamente mistificatore che in apertura al film sembra suggerire, prima ancora di iniziare, la morte della sua protagonista. Ma è un inganno.
Hayakawa Chie ribalta tutta quella concezione classica del malato come angelo santificato a cui dedicarsi anima e corpo rimanendo (apparendo) sempre perfetti, buoni, accettabili. Si può invece litigare, discutere, persino odiarlo per il nuovo ruolo familiare che questi rappresenta, “Che possa morire presto” pensa la madre attraverso le parole di Fuki, mentre già si prepara al funerale. Enfant prodige di quelle immaginazioni comunque sporcate dalla cattiveria del mondo, Fuki si vede infatti rubare ogni scena della sua infanzia, le sue attenzioni, i suoi capricci da soddisfare. “Piangiamo per le persone che muoiono perché ci dispiace che siano morte o perché ci dispiace per noi?”. In Cortesie per gli ospiti Ian McEwan diceva che le buone maniere sono “un modello retorico, uno schema procedurale”, una cortesia di sopraffazione per sentirsi ancora nobili e casti. Sulla scia degli studi di Edith Stein, l'empatia non è infatti semplice etica della compassione, una forma di pietismo strappalacrime che ci fa sentire orgogliosi del dolore altrui (e di cui tutti i personaggi sembrano qui in questo rivelatori), ma è invece la diretta conseguenza dell'intersoggettività, della natura relazionale di ogni essere umano, che esiste al di fuori di sé, che scopre l'esistenza di un altro, autonomo, diverso, separato. E quando questo incontro umanissimo non è possibile, rimane un’incomunicabilità sostanziale, che in Renoir corrisponde in egual modo ad un approccio registico rigido e rigoroso, spesso (e troppo) però inutilmente diluito, e per premesse così grandi è un vero peccato.
Prima o poi ci riscopriremo umani.
YES / KEN (Nadav Lapid, Quinzaine des cinéastes)
Il cinema di Nadav Lapid esiste innanzitutto in una forma esistenziale e autobiografica in cui le grandi domande sono quelle della sua vita, del suo essere artista, israeliano, immerso in un contesto personale, familiare, geopolitico ben chiaro e definito, disperato e fuori posto. Il protagonista porta sempre lo stesso nome dei film precedenti, contratto, abbreviato, puntato, Y., anche se il volto dell'attore (e il personaggio) che lo interpreta è ogni volta diverso. Ma rimane sempre in qualche modo un artista, fittizio, inesistente, eppure presente al tempo, al contemporaneo, alla storia di uno stato genocida e sanguinario più attuale che mai, in cui “il ministro della cultura odia la cultura, in un governo che odia tutta la bellezza umana”. Manipolazione e censura, accettazione e compromesso: il caos più sordo e cieco possibile. In Ahed's Knee era un regista in trasferta in una città desertica e sabbiosa dell'Arava di appena 5000 abitanti per presentare un suo film “politico” al costo però di rinunciare ad ogni qualsivoglia critica allo stato di Israele (e a tutta quella semantica considerata sovversiva perché diversa da quella classica e incontestabile del giudaismo e antisemitismo). Qui invece è una coppia di un musicista e una ballerina, Y. e Yasmine, mattatori sfegatati delle feste più esclusive e mondane d’Israele, sesso, droga, stelle di David in versione neon multicolor. “La bella vita”. Party privati in yacht “più ricchi di Dio” da cui con i binocoli spiare le bombe dall’altro lato della costa, ma ignorarle. Sfidare i membri più alti dell’esercito in music battle schiamazzanti, ma essere costretti a farli vincere, a lasciarsi perdere, perché è un gioco, anche se non è mai soltanto un gioco. All’ombra degli attacchi del 7 ottobre a Y. arriva una proposta milionaria, scrivere un nuovo inno per lo Stato d’Israele, per la guerra, per il massacro, su commissione. Sì, No. Nessun'altra opzione.
Lapid continua a generare dal suo stesso cinema, ne fa appendici, figli putativi, apparati tentacolari e assurdi dello stesso sguardo nervoso, idiosincratico e traumatizzato, sempre manifesto nel mostrarsi occhio stralunato eppure lucidissimo dietro un (alter) ego frammentato e scomposto, qui ancora più splendidamente confusionario dei film precedenti. La macchina da presa gira, anticipa le azioni, si perde a destra e a sinistra, in alto e in basso, è confusa e disorientata in un frastuono assordante come chiunque abbia una cittadinanza ma non si senta cittadino di niente, se non del proprio incolmabile senso di colpa, del proprio senso di responsabilità etica nazionale (e non nazionalistica) strappato nel cuore. Il piano visivo-narrativo e quello teorico-intellettuale collimano, collassano.
Il linguaggio, com'era già in Synonyms, Orso d'Oro a Berlino nel 2019, è questione semiologica e sostanziale. Capire e farsi capire, tradurre una cultura o un modo di pensare (come Y. che spiega il mondo al figlio neonato, nominandolo per nome in ogni dettaglio). Pronunciare la stessa parola in ebraico o in francese significa percepire un odore di guerra piuttosto che un profumo di pace. E se in Synonyms le parole erano a tal punto private del loro significato da diventare solamente suono, qui Lapid, per l'ennesima volta, si concentra su una sua estremizzazione, un rumore bianco sporcato del sangue della guerra, il volume che si alza oltre i limiti di sopportazione per cancellare ogni altro tipo di suono. La musica (di tutti i tipi e volumi) risuona nella realtà fuori beat, fuori tempo.
“Ci sono solo due parole nel mondo: Sì, No. Quale scegli?”
Una responsabilità, più che politica, umana.
EAGLES OF THE REPUBLIC (di Tarik Saleh, Concorso)
Il cinema è un atto politico, non solo perché rappresenta una visione del reale (o dell'irrealtà) fatta di ideali sociali, ma perché si inserisce in un sistema economico ricchissimo fatto di raggiri, sotterfugi, frodi e raccomandazioni. Così la politica entra nel cinema, non da un impeto etico interiore, ma dalle vie più losche del potere. George El-Nabawi è il Faraone dello schermo, il più grande attore d'Egitto, amatissimo da tutti e campione d’incassi, ma quando si è così popolari anche per il governo si diventa osservati speciali. E se non si ha più nulla da offrire a parte la propria immagine popolare si è anche più vulnerabili nell'accettare l’inaccettabile, al costo di minacce alla famiglia e ricatti, di problemi creati appositamente per essere risolti da favori e scambi. Come infatti accadeva già in Nightmare Alley di Guillermo Del Toro l'Uomo Bestia diventava la più popolare attrazione da fiera (da guardare, consumare, applaudire) proprio perché rinunciava a tutto, alla sua libertà, alla sua indipendenza, se ne aveva mai posseduta una. George viene così chiamato ad interpretare in un nuovo ruolo (fazioso, propagandistico) il presidente egiziano al-Sisi, ancora in carica, nella realtà e nella finzione. Ma in quanto ufficiosamente progetto di stato (dal titolo assai dimostrativo “La volontà delle persone”) bisogna evitare caricature, sarcasmo, sfumature psicologiche e overacting. Non possono esistere il Berlusconi di Servillo, il Bettino Craxi di Favino, l’ultimo indimenticabile Mussolini di Marinelli. Perché l’obiettivo non è di costruire un personaggio, ma manipolare l’esistente per renderlo più affascinante e carismatico. Costruire insomma una nuova realtà più adatta alla politica anche se non ci assomiglia per niente. “Tieniti l’immaginazione per te” viene intimato a George in uno dei tanti consigli che sanno di intimidazioni. Come se i film fossero poi due: quello diretto in camera, ufficiale, formale, con gli sguardi vigili dei rappresentanti di governo fissi e attenti sulla scena e attorno ad essa, e quello più losco fuori camera, fuoricampo, per questo più sincero e libero, ma quindi anche scomodo, temporaneo.
In una sceneggiatura zoppicante di parentesi e pochi punti fermi (che esplode però tutta nel finale), Tarik Saleh racconta della connivenza del sistema delle immagini, dello stare in poltrona comodi e passivi (o sotto i fili manipolativi degli altri) mentre qualcuno si sporca le mani: lo è George alle parate politiche in cui le occhiate di ufficiali e ministri si incrociano nella complicità, lo siamo noi spettatori di una realtà alla quale pensiamo erroneamente di essere impotenti perché distanti. Come già accadeva nei suoi film precedenti (La cospirazione del Cairo, Omicidio al Cairo), il potere sfuma tra gli imprecisi concetti di bene e male, giusto e sbagliato, e persino la fede non è che la scusa per giustificare l'ingiustificabile.
Una satira politica ferocissima che accede agli immaginari filmici (e quindi metacinematografici) più consolidati, che passa dal noir alla commedia degli equivoci in un istante. Tutto è parte di uno schema più grande di propaganda, di un sistema corrotto che su ogni libertà (artistica compresa proprio perché intrinsecamente ampia) vuole avere il controllo totale e totalizzante.
“Diciamo parole che non sono le nostre, proviamo sentimenti che non sono i nostri”.
Un discorso, come ne La storia di Souleymane, scritto da altri. Ma non è più il cinema, è la vita reale.
AISHA CAN’T FLY AWAY (di Morad Mostafa, Un Certain Regard)
Il volto di Aisha non si vede, nascosto sempre dal lungo drappeggio del suo velo. Si muove, corre, è una testa squadrata (e inquadrata) da dietro, headshot, come se una taglia pesasse sul suo cranio. Davanti, due occhi eterocromici, così inconsueti, diversi da sembrare sacri, alieni. Blu e marrone si stagliano su una pelle d’ebano molto più scura di tutti gli altri. Perché l’Africa è un continente grande, e di africani ne esistono tanti, con gerarchie, tensioni, insofferenze reciproche sociali che il più delle volte sfociano in guerriglia urbana. Aisha fa la badante a Il Cairo, iniezioni, medicamenti, qualche favore (sessuale) di troppo. Ha una relazione con uno chef che si occupa di lei, ma è soprattutto invischiata con un clan locale che la obbliga a duplicare le chiavi di casa degli anziani che assiste per andarli a derubare. Non c’è speranza, possibilità di riscatto, non sembra essercene nemmeno lo spazio. “Non hai il diritto di scegliere” le dice il suo capo. La macchina da presa la segue implacabile in giornate sempre uguali. Una realtà sociale silenziosa, lenta, soffocante. Aisha non appartiene a niente, tantomeno al suo quartiere, non vola, non esce mai al di fuori del suo alveare infernale. Fissa quel mondo irrimediabile con sguardo ieratico, maternale, di una creatura fattasi donna, tra gli ultimi, per avere qualcosa da vendicare.
Parte come il più classico dardenniano dramma sociale l’interessante esordio di Morad Mostafa, ma si fa ben presto altro, sfocia nel simbolico, di nuovo, come in Renoir, in immagini mancanti. La carne ribolle, brucia, pulsa, si consuma nel torpore, ma accumula il presagio di una specifica trasformazione.
Come nel connazionale Feathers di Omar El Zohairy (su un uomo trasformato in pollo per un trucco di magia di un ciarlatano andato male), visto che l’uomo ha rinunciato alla sua natura umanizzata (per il denaro sonante, per la violenza incontrollata), il fantastico prende piede, lo invade, lo sostituisce per intero, de-umanizzandolo più che dis-umanizzandolo. In qualche modo il Male trova sempre il modo di uscire, di trovare la sua nuova casa.