21.5.25
Festival di Cannes 2025 - Parte 1 - Recensione 6 film - di Riccardo Simoncini
19.3.25
Recensione: "Red Rooms" (Les Chambres Rouges)
Vorrei scrivere il meno possibile perchè il mio averlo visto senza sapere nulla (sono due anni che mi dicono di vederlo dopo che ha vinto il ToHorror) ha sicuramente reso la mia visione ancora più bella, ancora più misteriosa e stimolante.
Quindi, se potete, non leggete in giro, nemmeno le trame, alcune svelano molto.
Dico solo 3 righe innocue.
Siamo in Canada.
C'è il processo a un presunto mostro, un pedofilo autore di crimini indicibili.
Tre ragazzine violentate, uccise e smembrate, tutto poi ripreso da una telecamera per avere degli snuff movie da vendere nel dark web.
Una bellissima ragazza, modella, partecipa a tutte le udienze.
Perchè?
Un film in cui la violenza non viene MAI mostrata, senza una goccia di sangue, senza scene minimamente esplicite ma che mette a disagio lo spettatore per tutta la sua durata, grazie soprattutto alla scrittura di devastante bellezza della una protagonista, misteriosa, ambigua, magnetica.
Uno di quei film che non se ne vanno più via.
La macchina da presa si muove nella sala d'udienza.
Comincia il processo a Ludovic Chevalier, un presunto pedofilo autore di atti indicibili, che solo a scriverli tremano le mani.
Violenza, torture, omicidio, mutilazioni - tutto con annessi filmati video - a 3 minorenni, 2 delle quali bambine.
La macchina da presa si muove per la stanza seguendo prima l'Accusa, poi la Difesa, intente a presentare il caso alla giuria.
Parte un piano sequenza magistrale, formidabile, che non poteva che essere l'opening ad un film che formidabile e magistrale lo è praticamente tutto.
Per una decina di minuti l'inquadratura si sposta in modo pulito e al tempo stesso confuso, andando qua, andando là, curvando, tornando indietro, allargando il campo e stringendolo, cercando di farci percepire il totale della stanza e le posizioni di tutti i partecipanti.
Ci sono gli avvocati, c'è la corte, c'è il banco dei giurati, c'è quello dei semplici visitatori.
Poi, ad un certo punto, la macchina di presa si ferma (ma non finisce ancora l'inquadratura).
Lei è la nostra protagonista ed è lì, in fondo in fondo, sulla panca dei visitatori.
So che sembro malato a scrivere 20 righe di questo incipit ma mi ha emozionato troppo.
E su, ci faccio il disegnino, di pura memoria eh, e ovviamente solo esemplificativo, non sono quelli i movimenti reali.
Visto l'intero film questa prima scena, questo primo sguardo di lei incapace di smettere di guardare lui, diventa ancora più importante, più emozionante.
Vive in un attico, alquanto spoglio (ci torneremo) ma, incredibilmente, tutte le notti esce di casa per dormire per strada, come una homeless.
Lo fa, lo spettatore può capirlo subito, presto, tardino, tardi o mai, per essere il più vicina possibile al Tribunale, e quindi non perdersi quel posto - limitato - tra i visitatori del processo.
Insomma, quel processo, e forse quell'uomo processato, sono in questo momento della sua vita l'esatto senso della stessa.
Tante teorie abbiamo fatto, per questo film che proprio in questo suo lato misterioso, reticente, lentamente rivelatorio, nasconde gran parte della sua grandezza.
Gioca a poker online (guadagnando moltissimi soldi) e si percepisce essere anche molto dentro a pratiche misteriose non legali, sia nel deep web che nel dark web (c'è profonda differenza tra i due mondi ma, insomma, le cose terribili e difficilmente raggiungibili dagli utenti normali accadono nel dark web).
Insomma, non ci vorrà molto a capire che Kelly è una hacker e che frequenta - non possiamo saperne ancora i motivi - il dark web con assiduità.
Dark web che è anche al centro dello stesso processo visto che l'indizio principale di colpevolezza verso Chevalier sta in due video per l'appunto usciti dal dark web.
Video dove si mostrano le torture, la morte e le mutilazioni di due delle tre ragazzine morte (di una, invece, il video non è stato ancora trovato).
Il tutto avviene nelle "red rooms" che sono, in gergo, le stanze dove vengono filmati questi snuff movie, video che poi, ovviamente, vengono venduti a peso d'oro nel dark web.
L'assassino ha il passamontagna ma gli occhi, la corporatura e le movenze sembrano proprio quelle di Chevalier, Chevalier che - tra l'altro - abitava proprio nella casa nel cui giardino sono stati trovati i corpi.
Qual è, quindi, il legame tra le vicende?
Allora, innanzitutto, Red Rooms è un film girato magistralmente.
Elegante, chirurgico, pieno di inquadrature, movimenti di macchina e location di grande "esattezza", minimali e perfette.
Comincia con questa ragazza che si sveglia per strada, in una fotografia sui toni del blu (probabilmente non naturale ma bellissima) e con una prima colonna sonora favolosa che accompagna la nostra protagonista in tribunale, tribunale dove sta per cominciare il processo Chevalier e dove avremo quella prima scena lungamente descritta prima.
Probabilmente a livello puramente visivo e registico queste due prime scene resteranno le migliori, vero, ma senza che il film perda poi nulla perchè già dopo 10 minuti iniziamo ad avere un'atmosfera densissima e una sceneggiatura che tiene il film in altissimo, anche quando, per buona parte della sua durata, non avremo altre scene visivamente notevoli.
Kelly, quello che è, quello che pensa, quello che vuole, quello che nasconde, quello che cerca, è Red Rooms, ennesima prova di come il cinema più bello e perturbante sia quello del non detto e manifestato, quello che al tempo stesso ti arrovella il cervello e ti muove dentro qualcosa.
E il capolavoro del film di Pascal Plante sta nel fatto che anche quando è finito, anche quando ti ha praticamente dato tutte le risposte, comunque ti lascia mille dubbi e mille zone grigie.
Ora, prima di addentrarci, come mi piace fare, in analisi contenutistiche e psicologiche parliamo di quello che, forse, è l'unico difetto che ho riscontrato nel film o, più che difetto, un aspetto che avrei preferito fosse trattato in altra maniera o, comunque, avesse un altro finale.
Mi riferisco alla coprotagonista, la ragazza "fan" di Chevalier, Clementine.
Intendiamoci, è un personaggio ottimo e funzionale.
E' l'unico, infatti, che riesce a interagire con la nostra Kelly e "serve" al film più di una volta in modo convincente, specialmente quando Kelly gli fa guardare i primi due snuff movie di Chevalier.
E' molto interessante anche per il fatto che, a ben pensarci (ovviamente queste considerazioni sono a film finito), entrambe le ragazze sono ossessionate da Chevalier e attratte da lui ma mentre Clementine lo è per il semplice fatto di ritenerlo innocente Kelly, se vogliamo, lo è per l'esatto opposto, perchè sa quello che Chevalier ha fatto, perchè l'ha visto, perchè sa che è un mostro.
E proprio in quanto mostro lo ama.
Quindi in sceneggiatura questa coppia così vicina e così lontana è perfetta.
Però non convince del tutto Clementine, leggermente resa macchietta, esagerata, esaltata, forse troppo stereotipata.
E non mi è piaciuta nemmeno l'intervista finale a film finito.
A che pro?
Non migliora il film, anzi, è una cosa posticcia, "buonista" e abbastanza inutile.
Ma vi dirò di più, vi dirò una mia suggestione avuta per tutto il film che secondo me avrebbe reso quel personaggio grandioso.
Guardate gli occhi di Chevalier, guardate le sue occhiaie.
Guardate gli occhi di Clementine e guardate le sue occhiaie.
Identici.
Ecco, io ho pensato fino alla fine del film che lei fosse sua figlia (magari illegittima, mai vista da lui) e questo oltre a rendere quel personaggio (e il film con lei) ancora più bello avrebbe spiegato in maniera clamorosa tutto, quel bisogno assoluto di difenderlo, quell'affetto verso di lui e, all'opposto, lo shock di vedere nello snuff movie quegli occhi, "riconoscerli" e per questo piangere e sparire per sempre.
Ovviamente io non sono nessuno rispetto a qualsiasi sceneggiatore vivente, men che meno a quello di Red Rooms, ma questa scelta avrebbe - per me - elevato il film.
In ogni caso Clementine resta personaggio molto funzionale non solo per il rapporto con Kelly ma anche perchè esponente di una categoria di persone realmente esistente (anche se di solito queste "groupie" lo sono proprio perchè gli adulati sono assassini, non perchè li credono innocenti).
Kelly....
Kelly, lo scopriremo nella mezz'ora finale (sempre che non ci sia arrivati prima) è una ragazza apparentemente "sana", perfetta, stabile che, invece, ha questo terribile disturbo, ovvero l'essere affascinata e ossessionata dalla violenza estrema, inumana e devastante.
Credo che la sua vita "di fuori" (fuori dalla sua mente) sia in un certo modo non tanto per "copertura" (quello lo è, semmai, il lavoro da modella) ma perchè le serve proprio per "contrastare" il caos, lo schifo e il casino che ha in testa.
Per questo mangia sanissimo (toglie anche gli avocado dal poke), pratica costantemente due sport (il fitness e lo squash), ha una vita, una casa e delle abitudini talmente sane e "pulite" da far paura.
24.2.25
Recensione: "Strange Darling" - Al Cinema 2025
Due bei personaggi principali, una storia torbida e malata, un punto di vista ribaltato, una regia molto pop e tante belle cose da vedere.
La storia dell'incontro tra una ragazza e un ragazzo, la notte di (non)sesso e droga in un motel e tutti i terribili accadimenti che avverranno poi.
Eppure c'è come la sensazione che tutti gli ingredienti di primissima qualità che aveva - con merito - messo dentro, vengano usati in un modo sbagliato o poco soddisfacente.
Davvero un mezzo peccato.
A volte credo sia importante come si arrivi al risultato finale.
Gli ultimi due film che ho visto al cinema, ovvero questo qua e Companion (saltata la recensione, al solito) hanno per me lo stesso giudizio finale, un 7 pieno, ma due iter completamente diversi.
Perchè mentre uno - Companion - arriva a quel livello salendo sempre di più durante la sua durata e non potendo, per costituzione, ambire ad essere migliore di quello che è, Strange Darling tutto l'opposto, ha tutte le carte in tavola per essere molto più grande, ha tutti gli ingredienti giusti ma non riesce ad usarli al meglio.
Insomma, uno al 7 ci arriva, l'altro ci scende.
Uno usa al meglio le non grandi potenzialità, uno quasi al peggio quelle altissime.
E' la storia di una ragazza (The Lady) che incontra un ragazzo (The Demon) ed ha con lui una notte di (non)sesso e droga in un motel, notte che finisce malissimo, con lei che scappa in un bosco inseguita da lui.
Il film è diviso in 6 capitoli non cronologici, con balzi avanti e indietro nel tempo (tutto nell'arco di circa 12 ore comunque).
Parlavamo di grandi ingredienti (che comunque mettere nel piatto rappresentano sempre un merito) non usati benissimo.
Prima di tutto la divisione in capitoli.
E' una cosa che amo molto, moltissimo, perchè oltre all'effetto straniante e spesso di sorpresa presuppongono un lavoro non indifferente che deve fare spettatore per mettere poi tutto in fila.
Strange Darling, invece, ci presenta 6 capitoli "compressi" in pochissime ore che praticamente servono a poco e niente, visto che dopo 20 minuti di film lo spettatore sa già perfettamente quello che vedrà o succederà (o cosa è già successo) nei capitoli mancanti (a parte l'epilogo ovviamente).
Certo l'incipit (fuori dai 6 capitoli) con lei che corre nel prato insanguinata è davvero bello e, sì, svia completamente lo spettatore.
Ma ci vorrà veramente poco poi per capire quale sia la verità e, a quel punto, godersi davvero poco la struttura non cronologica.
Intendiamoci, è sempre un tipo di narrazione stimolante e "divertente" eh, ma secondo me quando viene scelta in una sceneggiatura deve essere fatto con due motivazioni, o sconvolgerci continuamente le carte o renderci "complessa" la visione, visione che solo quando hai tutti i pezzi del puzzle puoi mettere insieme.
In Strange Darling la non cronologia nè regala sorprese nè complica le cose.
Altro grande ingrediente poi un pochino insipido è l'aver girato il film in pellicola.
Bella, bellissima cosa, ma per quanto strombazzata nei titoli iniziali poi abbastanza deludente.
Paradossalmente il momento in cui viene più esaltata la grana della pellicola è proprio l'incipit, con quella corsa.
Terzo grande ingrediente potenziale usato male, i sottotesti e i possibili sviluppi che il film poteva avere.
Strange Darling ci racconta la storia di una pazza (lei, Willa Fitgerald, convince davvero, è il plus del film) che, sia sotto l'effetto di droghe che di "visioni" (vede demoni), perde completamente la testa, uccidendo persone.
E', a tutti gli effetti, una serial killer ricercatissima dalla polizia (Electric Lady).
Il problema è The Lady è l'esatto opposto dei comportamenti di una serial killer mai presa.
Lascia tracce ovunque, si fa vedere ovunque, lascia testimoni ovunque (la ragazza di colore dell'albergo a cui ruba i vestiti, l'anziana della casa in campagna (ok, poi l'uccide perchè questa ricompare, ma l'aveva lasciata volutamente viva e libera di andarsene), la poliziotta nel finale.
Ora, l'unica soluzione è pensare che Electric Lady avesse deciso di consegnarsi, altrimenti niente ha senso.
E come giustificazione non possiamo nemmeno dire quella che "era sotto gli effetti della droga" perchè è semmai l'esatto opposto, sono proprio le droghe, le visioni e forse una latente schizofrenia a farne una killer.
A mio parere errore imperdonabile.
Mentre le tante altre scene che possono far storcere il naso (lei che in pericolo di morte si ferma su un albero e fuma, lei che si nasconde in una ghiacciaia buttando fuori polli congelati e tutte le altre scene con mood volutamente ai confini del ridicolo) alla luce dei fatti sono inattaccabili, siamo davanti ad una mente completamente bruciata, ad una ragazza al confine della capacità di intendere e volere e che quindi fa cose o inspiegabili o poco lucide.
Ed è proprio per questo, ovvero per questa - secondo me - perfetta caratterizzazione di lei, che Strange Darling doveva avere una cornice e degli sviluppi completamente diversi.
Riguardo la prima intendo soprattutto - come detto - l'evitare la storia della serial killer, riguardo gli sviluppi puntare molto di più sulla faccenda della malattia mentale.
Durante la visione mi ero immaginato 3/4 scenari secondo me tutti migliori di quello che poi prende il film (ovvero quello di un realismo che, però, è pieno di crepe), primo fra tutti il ricalcare un grande cult horror francese dal colpo di scena magnifico (ma inaccettabile per come fu raccontato), ovvero Alta Tensione.
Non leggere le prossime righe in corsivo.
5.2.25
Il meglio dell'Invisibile, edizione 2024 - 10 film bellissimi non ancora distribuiti in Italia
RICCARDO SIMONCINI
THE SUMMER BOOK di Charlie McDowell
Esistono tante storie estive: quelle di amori sbocciati come margherite e poi recise con violenza nel primo giorno di temporale, ma anche quelle di bambini in crescita che nel tempo sospeso delle vacanze decidono di diventare grandi tutto in una volta, in fretta e furia velocizzano esperienze, primi baci, prime innocenze perdute. Esiste anche però un’estate da ricordare, di tragiche cartoline familiari da scolpire e conoscere per la prima volta prima che sia troppo tardi. The Summer Book recupera e integra tutti questi orizzonti intimisti: un’estate, una bambina, sua nonna (due performance attoriali di Glenn Close e Emily Matthews tra le migliori dell’anno). Un rapporto familiare che ha la stessa intensità dell’amore (passeggero ma indimenticabile) e la stessa spensieratezza dell’infanzia (dove non esiste nulla a parte un sole illustrato), ma inevitabilmente ha anche lo stesso preludio mortale e tombale. Come se l’estate intrinsecamente contenesse già l’inizio e la fine, il partire e il ritornare, come ogni famiglia sulla sua macchina ricolma di valigie e cibo in viaggio con destinazione mare. Qui il paesaggio non è però riempito di turisti, di palle svolazzanti in cielo insieme ai gabbiani cigolanti e i secchielli colorati colanti cocco e sabbia mischiati. È la Finlandia insulare dei fiordi a strapiombo, dai profili spigolosi e scavati, del verde che il vento ingiallisce, delle casette di legno isolate che dominano ogni orizzonte oceanico, con le assi così irregolari da lasciare sempre aperte sottili feritoie attraverso cui spiare il mondo circostante. In mezzo alle alghe aggrovigliate, alle barche a remi attraccate e agli aghi di felce da stringere in bocca, la Natura si compie al disgelo all’ennesima potenza.
Il piccolo e dolcissimo caschetto biondo di Sophia si muove rapido, curioso di scoprire quel luogo in cui ad ogni angolo e zolla di terra il passato ha lasciato un oggetto del suo passaggio. Sophia riempie di natura l’innocenza curiosa tipica della sua età. “Esistono le formiche in paradiso?” chiede teneramente come si chiede qual è il senso della vita, perché mamma non c’è più, perché papà sta sempre per i fatti suoi. Dopo la morte della madre, Sophia è infatti legata intimamente più alla nonna che al padre, serioso e solitario sempre intento a disegnare. “La puzza del dolore”. Con la nonna Sophia scopre il mondo, risolve i suoi dubbi e le sue paure, le intaglia nel legno per gettarle in mare aperto, ritrovando la serenità dopo un lutto in cui la Natura rigogliosa ma brutale non ne ha rispettato le sentite condoglianze. Quella nonna, energica e vigorosa nonostante un decadimento fisico e mentale ormai irreversibile, è l’esatta personificazione e della natura, Madre-Natura, Nonna-Natura, in quel paesaggio che è lei stessa, da 47 anni a questa parte un unico respiro e carezza fuso nello stesso immutato locus amoenus, nudo e vivo, l’Ogigia salvifica e paradisiaca in cui la ninfa Calipso accoglie (e trattiene) Ulisse nell’Odissea.
È tutto percezione ed esperienza, immagine materica e granulosa in cui le parole scorrono comunque a fiumi (nei piani d’ascolto più che nei piani d’azione - che è già in sé cifra stilistica) aiutando a ricordare quello che non si può guardare più. C’è la metafisica contemplativa di Terrence Malick, la terrestrità del sentire di Josephine Decker, il tempo geologicamente inarrestabile di Hlynur Pálmason. Sembra pure di ascoltare la Rêverie di Debussy, l’atmosfera sognante in Fa maggiore che negli arpeggi progressivi prende corpo e materia in una rincorsa soffice e cotonosa come nuvole. “Rallentando e perdendosi” come recita la notazione sullo spartito.
Un’isola, che come tutte le isole è circondata in ogni angolo dal mare, ma al centro c’è la vita. Il cuore singhiozza come una barca a motore in avaria al largo.
Prima della fine, prima di andare via, pianteremo un albero, quel pioppo che mamma amava tanto. I suoi rami toccheranno le stelle. E sarà sempre estate.
FRANCO CAPPUCCIO
EXERGUE - ON DOCUMENTA 14 di Dimitris Athiridis
Forse quello più importante è proprio il sonoro, elemento già sottolineato dal titolo stesso: Chime (scampanellio/rintocco). In tutto il film, ad eccezione del finale, è assente la musica ma sono presenti vari suoni che vanno da uno scampanellio metallico (già citato) a dei suoni striduli e ciclici come il passaggio del treno, rumoli di ventole, lattine buttate, etc. che si ripetono per tutto il film. Tutti questi rumori aiutano a farci entrare nella prospettiva del protagonista, come se ci fosse qualcosa nella mente del nostro protagonista dal quale non può scappare, che lo perseguita, che lo insegue. Come se l'ambiente e la mente del professore fossero una cosa sola, indistinguibile.
E questa sensazione ci viene trasmessa anche grazie alla macchina da presa stessa. Spesso e volentieri nel film ci sono movimenti di macchina precisi, che ci fanno sentire la presenza di qualcuno e qualcosa ma che non ci viene mai rivelato. Ad esempio: in una delle prime scene del film Matsuoka sta cucinando da solo, incominciamo a sentire lo scampanellio con la macchina da presa che si avvicina a lui come se fosse una soggettiva. Il cuoco alza lo sguardo verso l’obiettivo, e lo stacco successivo lascia la domanda aperta: cosa, o chi, stava guardando? La potenza del film sta nel farti sentire la presenza dell'assente/dell'interiore, nel farti immergere più che nella mente del protagonista nelle sue emozioni. Il farti percepire un'assenza di coordinate è il vero fulcro del film.
E infine anche la narrazione aiuta a farci entrare in questo mood. La mancanza di una linearità narrativa riesce ad unire il realistico con il delirante. Il tutto progredisce sempre di più fino ad un finale che non da risposte nette ma solo ulteriori domande spaesanti riuscendo quindi a creare un opera intelligente ma emotiva, stratificata ma impattante.
P.s. Guardando il film ho avuto varie idee su come leggere l'opera. Avviso che sono interpretazioni molto libere, possono ovviamente cambiare da spettatore a spettatore e essere considerate assurdità da taluni (come è normale e giusto che sia).
Difatti durante il colloquio per diventare il cuoco di un ristorante (proiezione mentale nella quale punta al successo?) non fa che parlare di se stesso e il suo possibile datore di lavoro gli fa notare che non sta facendo altro che essere egoriferito. A quel punto gli chiede: invece di parlare di te mostrami, crea dei piani concreti. E Matsuoka non ci riesce, balbetta e ritorna a puntare i riflettori su se stesso. Magari anche questo suo ego è una delle ragioni che ha portato il disgregamento della famiglia.
La studentessa, e quindi anche la moglie in questa ricostruzione, viene uccisa quando non riesce a sezionare un pollo, a recidere simbolicamente con il proprio passato. Inoltre nel pollo ritrova un aspetto umano/reale, e proprio allora viene uccisa. È come se in quel momento avesse costretto anche il marito a confrontarsi con la realtà, distruggendo la sua illusione.
Però l'ultima inquadratura, con i ciliegi in fiore da sempre simbolo di brevità della vita ma anche di rinascita, forse in qualche modo ci indica un possibile lieto fine/una possibile presa di coscienza del protagonista? O la porta, chiusa dal protagonista mentre la macchina da presa resta all'esterno della sua abitazione, simboleggia una definitiva chiusura mentale nel suo mondo interiore? A ogni spettatore la propria teoria
Storie perse ed erranti, liquefatte in quella tempesta di immagini che ogni palazzo, cartello o ponte possono portare. Kota/Koda - come la chiamano (perché anche i nomi nella velocità di una corsa di tram sono contratti come le esistenze) - vive l’incertezza di cosa fare della sua vita, sincopata, frammentata, interrotta e mai finita. Tra autunno, inverno, primavera, estate, cambia tutto come dopo un pasto, neanche molto abbondante, si cambiano le posate. In mezzo alle amicizie scalfite dalla ruggine metropolitana, le sue treccine fluttuano nell’aria come la giostra dei calcinculo nell’ennesimo luna park. “Io con questo non c’entro nulla” dice la stessa “bambina carina e pungente” che molti anni prima era felice e spensierata nella Repubblica Dominicana.
Con la sua ipnotica opera prima Haley Elizabeth Anderson recupera la tradizione del cinema più indipendente americano, Larry Clark, Andrea Arnold ma soprattutto il Tangerine di Sean Baker, di quelle sex workers trans che vagano per una Los Angeles natalizia ma senza neve alla ricerca di un pappone-fidanzato traditore. Non esistono schemi, mappe, geografie esistenziali. Infinite dita di scrolling di distanza fino a poter vedere il planisfero intero. Un’America iperreale come dice Baudrillard. Una versione cresciuta e sbriciolata di Aftersun, di poesie in movimento inarrestabile, di archivi visivi a cui attingere moltiplicati, parole da leggere infinitesimali. Il racconto di una New York spaesante e disorientante è inframezzato da inserti di video-diario. Ma il tempo passa e ricicla tutto. Così le nostre immagini svaniranno prima ancora di noi stessi.
Ci siamo conosciuti come amanti, e dopo 5, 6, 10 anni non sapremo neanche di esserci incontrati. Quei video-diari sono invecchiati nell’esatto momento in cui si è finito di registrarli, i ricordi di una tappezzeria strappata di cui Brooklyn è perennemente affollata.
La macchina di Anderson esaspera nervosamente movimenti, distorsioni, percezioni, non sa dove posarsi in quel turbinio di dettagli. È la città stessa che fornisce il primo appunto sperimentale di un vagare senza forma, di sospensione anti-narrativa: la vita avviene senza direzione, senza eroi e risoluzioni. I nostri claustrofobici e compatti appartamenti su cui ci siamo permessi con arroganza di appiccicare il nostro nome saranno presto demoliti per diventare altissimi condomini e centri commerciali.
Maledetto caos, benedetta armonia.
In realtà questa è solo la premessa per un film che scombina tutte le carte e i generi, una squilibrata commedia punk - come recita la sinossi - che si reinventa più e più volte senza mai annoiare. Con continui colpi di scena, imprevisti, assurdità e improbabili rimedi Uma affronta il “suono della frustrazione” mutando e tramutando in una versione destrutturata e vitalistica del classico vampiro, alla ricerca di un sangue che la renda viva dall’interno, che la faccia sentire di nuovo reale. Un esordio indiano ma di produzione inglese che tanto infatti guarda ad Occidente nel ritmo e nello stile, dall’indimenticabile colonna sonora pop-rock fino ai jump cuts che in montaggio suddividono tutto in spassosissime vignette umoristiche. Ricorda tanto di quel modo ormai iconico di Wes Anderson (più ancora dei colori pastello e della geometria compositiva) di costruire l’ironia per situazioni e gesti esagerati ed enfatizzati, con movimenti di macchina in asse ed effetti speciali in stop motion, ma anche di quello humor disilluso alla Kaurismaki, semplice ma assurdamente esistenziale.
Sister Midnight lancia un grido di libertà al di fuori di ogni regola, convenzione, morale e contratto, nel cinema come nei personaggi, per sostituirlo con un linguaggio spregiudicato che non teme nulla e nessuno, tantomeno gli uomini.
Nel cielo notturno le nuvole hanno inghiottito le stelle. Ma ora è tornata la luna.
Sister Midnight è destinato a diventare un cult.