21.5.25

Festival di Cannes 2025 - Parte 1 - Recensione 6 film - di Riccardo Simoncini

 

E' vero che non scrivo qua da due mesi ma mentre io prolungo sta pennichella bloggara (che se sta a trasformà in una specie de mega dormita di 18 ore tipo after rave) i miei amici/scagnozzi non si fermano.
E sono lieto di annunciarci questo pezzone (questa è solo la prima parte) che ha scritto Riccardo Simoncini, andato per me a Cannes a godersi l'ultimo Festival (non è vero, c'è andato per sè ma approfittiamo l'uno dell'altro a vicenda).
Sei recensioni, sempre emozionanti ed esaustive, nel suo stile.
E, a Festival finito, arriveranno le altre.


MIROIRS NO. 3 (Christian Petzold, Quinzaine des cinéastes)


Il capitolo conclusivo di una trilogia, il termine ultimo di una sospensione, di un'immanenza sentimentale, ma tra tutti gli amori incompiuti di Christian Petzold Miroirs No. 3, che risuona come l’ultimo movimento di una sinfonia classicheggiante, è anche quello che si apre di più al gotico, al perturbante, ma lo fa sempre con una consapevolezza di leggerezza (che in Petzold è più propriamente leggiadria), breve ed essenziale. I segreti dormono qui nella soffitta polverosa della nostra mente, sgattaiolano fuori guatti guatti mentre fuori c'è la tempesta. Una ragazza giovane, un incidente stradale violentissimo e irrimediabile: il corpo illeso, l'anima martirizzata tra le quattro mura della famiglia di una testimone che l'ha vista salvarsi e così l’ha accolta a casa, quasi amata come se ne fosse stata madre. Laura sopravvive all’impatto, mentre il suo ragazzo muore sul colpo. “Dovrei soffrire lo so, ma non è così” dice lei, la solita empirea e inquieta Paula Beer. Allora l'amore non è più impossibile perché il futuro ce lo porta via ogni istante, traslandolo in tempi e spazi contigui, ma perché il passato l'ha interrotto, ha messo un punto sulle sue immagini, esattamente come accadeva nel colossale Megalopolis di Francis Ford Coppola. Nel lutto irrisolto della moglie l'avveniristico architetto Cesar Catilina depositava il brevetto della sua genialità: il tempo di un amore mutilato, il futuribile del sentire, la materia trasparente dei sogni più grandi. L’assenza stessa è un fantasma (di un ricordo, di una vecchia normalità perduta), anche senza che nessuna entità sovrannaturale si palesi come sua immagine dichiarata. Una visione spettrale, di una routine famigliare che si deve (de)costruire man mano, tra l'invisibile e l'etereo di una casa in campagna che riceve il vento da ogni lato. “Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo” recita Tolstoj in uno degli incipit più noti della letteratura russa. Infelici sono tutti anche se sembrano il contrario. Betty, marito e figlio, due meccanici tuttofare, un po’ loschi, difficilmente criminali, e poi un nome, Yelena, pronunciato continuamente, eppure nella casa, nel concreto, nel presente, assente. Così Laura entra, da miracolata, fuoricampo, in quella casa silenziosa troppo grande e vuota per essere abitata da una persona sola. Improvvisamente però nasce l’urgenza di risistemare tutto, gli elettrodomestici fuori uso, il pianoforte scordato, la bicicletta rotta, come per un’evenienza imminente e rara.
Coincidenze, suggestioni fatali, reminiscenze enigmatiche, incastri troppo perfetti per essere reali, così fortunati da essere stati scolpiti dal tempo per (ri)trovarsi, senza lasciare che nemmeno la più piccola imperfezione di colpo di scena potesse accadere imprevista a rovinarli. Tutto combacia, tutto passa da sguardi penetranti (riflessi, miraggi) che sono in sé potenti presagi, di fine e di inizio.
Rientrerà il vento a spalancare le tende della solita camera esposta. Ed è lì esposti alla vita che ricomincerà il mondo.

THE LOVE THAT REMAINS (Hlynur Pálmason, Cannes Premiere)


Quando l'amore finisce cosa rimane? Un residuo, un avanzo, più spesso una scoria. Ma nella terra dell'Islanda desolata, ricolma di vita e di trionfi di natura, rimanere soli sembra impossibile. Come se quei luoghi, animati da dentro, tenessero prima di noi i fili delle nostre relazioni, attaccati ad un ramo flessibile o alla radice di una betulla, impedendoci di cadere nel baratro della solitudine, magari anche dispersi a galleggiare nell’oceano ghiacciato, ma comunque ancora con qualcosa in mano. Una fantasia, una visione. È impossibile che lì tutto termini in un istante come quei classici amori tormentati raccontati dal cinema americano. Gli avvocati spietati di Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, in perenne lotta per custodia e mantenimento, sono infatti qui la natura stessa: un ceppo conficcato nel terreno che arriva a sfiorare il cielo, la neve scottante e friabile. Quei profili acuminati di paesaggio sembrano cattivi, ma possono esserci amici, se li si sa ascoltare con ironia, quel bizzarro umorismo nordico qui più sciolto che mai, con tanto di inserti onirici e fantasmatici esilaranti, inediti persino per lo stesso Pálmason. 
Funghi, bacche in grappolo da spremere fino all’ultima goccia, la sabbia pesante che vola via. Decostruire l’amore scavando in profondità nel fango, strato dopo strato, scheggia dopo scheggia, vedere cosa si nasconde al centro della Terra, nel nucleo primo di una famiglia, le cui leggi di natura sono quelle della natura stessa e da cui, di conseguenza, passa ogni legge superiore, giuridica, morale, spirituale. Le contraddizioni sono intrinseche per definizione in questa dinamica, nello stesso tempo il sole scalda e brucia, la pioggia disseta e scioglie, “Ti amo ma non ti amo” diceva la protagonista de La persona peggiore del mondo di Joachim Trier. Una famiglia, un padre che dall’oceano profondo tira su vecchi ordigni esplosivi insieme alle reti piene di aringhe, una madre artista della ruggine ma senza pubblico né gallerie, tre figli appresso, un sacco di animali attorno. Le vite si separano, riunite solo dall’occasione di natura. Sembrano le generazioni (mal) intersecate di Alcarràs di Carla Simón, dove ognuno trova autonomamente la sua strada e il suo punto di vista personalissimo in mezzo allo sconfinato paesaggio rurale di raccolto. 
Pálmason torna alle sue stagioni trasformanti, al loro inarrestabile fluire e mutare, tra il gelo e il (ri)fiorire in frutto, daccapo come un ritornello sentimentale. L’uomo è solo personaggio di contorno, un rumoroso ingranaggio meccanico che gira e rigira finché non si inceppa, ridicolo protagonista insignificante rispetto al quadro naturale più grande. Così l'amore finisce, ma come da titolo rimane, con una presenza costante, invisibile ma tangibile di natura. La famiglia cambia, si disgrega, vive per la prima volta una distanza, ma appunto rimane qualcosa. Sicuramente la casa, anche se scoperchiata come nell’incipit del film, da sempre ossessione materica e spirituale di Pálmason, struttura (apparentemente) stabile in mezzo alle più dure ostilità. La casa di Dio in Godland, la casa dei giochi d’infanzia in Nest, la casa familiare da ristrutturare perché resista alle intemperie in A White, White Day, il cuore caldo love after love. Ma come far profumare ancora di casa un luogo in cui non c’è più romanticismo, ma soltanto al massimo qualche fredda e meccanica pulsione sessuale? Attraverso i ricordi, i profumi fuori da quelle mura, in mezzo al niente, dove nuove case devono invece essere costruite, riempite di nuovo amore, più abitabile per tutti.
The Love That Remains è forse un film minore rispetto ai precedenti, ma rimane comunque un pezzo essenziale (inedito nel suo tono più umoristico e spensierato) della natura metamorfica del mondo che ha da sempre caratterizzato tutto il cinema di Pálmason. Perché anche l’amore si trasforma e si riforma. Non si butta via niente.


BRAND NEW LANDSCAPE (Danzuga Yuiga, Quinzaine des cinéastes)


Tokyo cresce, verticale e prosperosa, occupa angoli di cemento con altro cemento più pesante e acciaio. Sotto i grattacieli, nel punto più basso della loro gravità, le persone girano, si perdono, come in ogni altra metropoli, per trovarsi o lasciarsi, difficilmente per cambiare, “troppo piccole per essere ancora umane” diceva ne La città delle ultime cose Paul Auster, padre della letteratura americana metropolitana, in cui il brulichio di passi è sempre sintomo di un’alienazione più grande. Ren consegna orchidee ornamentali a domicilio, le impacchetta nel bagagliaio con cura e dedizione. Da quando è morta sua madre, suicida, ha perso ogni contatto con il padre, famoso architetto della modernità, landscape designer, autore di imponenti palazzi per gli altri anche a costo di sacrificare le fondamenta emotive della sua casa familiare. Idealmente Ren si ricongiunge a lui nei ricordi, con le vite che non sono mai state, lasciate là ad arrugginire in mezzo ai cantieri, sempre in attesa che qualcuno le riprenda, recuperandole come si fa con il passaporto sgualcito all’ufficio oggetti smarriti. La famiglia di Ren è questo: un’idea, un ricordo, uno spettro remoto che si aggira come comparsa nelle stanze sigillate del passato, una cartolina sbiadita appartenuta per lui a secoli prima, per il calendario ad una manciata di anni appena trascorsi. È la stessa pervasiva nostalgia di 45 Years di Andrew Haigh (ma anche del suo più recente straordinario All of Us Strangers) capace di riportare in vita, come in un paradosso storico, anche i nostri fantasmi più deteriorati. Solo che a differenza di quella coppia anziana in pensione che sta per festeggiare i 45 anni di matrimonio, Ren è un giovane come tanti, che la vita ha appena iniziato a viverla, eppure la nostalgia riguarda anche quei primi fugaci attimi di passaggio sulla Terra, di mani ancora lisce e glabre, le gambe veloci e scattanti, ma gli occhi sono tristi, non entusiasti. Ecco il destino dei giovani d’oggi (il regista, appena 26enne, è il più giovane della storia della Quinzaine): invecchiare nel corpo di un adolescente, accelerare un futuro strabordante, dilatare un passato traumatico incerto e fragile. Torna alla mente il destino della giovane protagonista 22enne di The Cloud in Her Room di Zheng Lu Xinyuan, le ceneri granulose e acri del tabacco che appestano ogni pezzo di appartamento, i miliardi e microscopici granelli di polvere da raccogliere insieme ai ricordi frammentati. “Il passato non conta più” dice la sorella poco più grande a Ren, aggrappandosi ad un trasloco imminente con il futuro marito come rifugio di accordo e distrazione per cancellare di netto quello che è stato. Ma per Ren non basta, si può dimenticare il suono della voce di un padre, ma non i vuoti che le sue assenze hanno portato. Ren crede si possa ancora riallacciare i rapporti, riassemblare i pezzi rotti della propria famiglia come nell’arte giapponese del kintsugi, ma non accetta di vederne le cicatrici dorate in bella vista, i punti più deboli di frattura. Rimane il rumore assordante di solitudine dei grattacieli che grattano via il vuoto dell’infinito cielo interiore. Lo spleen di Baudelaire, lo spaesamento moderno ma composto in un quadro contemplativo di struggente malinconia: è un bivio del (nel) tempo.  
A quale luogo sentiamo allora di appartenere? Quale tempo ci può finalmente contenere? Siamo una rievocazione storica, un’installazione come The Zone of Interest di Jonathan Glazer, ma con i fantasmi personali al posto dei mostri dell’Olocausto. Diceva sempre Auster che i fantasmi muoiono sempre nel sonno. La speranza è di averne ancora qualcuno per ricordo. Il coraggio almeno di immaginarlo.


URCHIN (Harris Dickinson, Un Certain Regard)


Mike è un giovane pigro, scanzonato e vagamente immaturo, ha lasciato la scuola troppo presto, e adesso si è ritrovato in un brutto giro, ma senza un vero e reale motivo. Droga, dipendenza, vagabondaggio, depressione, non siamo nelle periferie di Andrea Arnold, sporche di terra e di lingua, ma nella Londra delle mille opportunità. Il ciclo di Mike è un loop caustico e inarrestabile, si ripete sempre identico, alla stessa maniera: trova un lavoretto stagionale, perde le staffe, ritorna alla droga, a dormire sull’asfalto, qualche furto lo fa rinchiudere in carcere e poi il ciclo riparte, sempre uguale, temporaneo, senza alcun minimo segno di ravvedimento o conversione. Sono infiniti incontri che si susseguono e si perdono sempre attorno agli stessi quattro isolati di terreno. Quei luoghi e quegli spazi metropolitani costituiscono un ecosistema di comparse che via via lo avvicinano, lo allontanano. Uno spettacolo sconsolante degli stessi ultimi che sempre lì chiedono l’elemosina, rubano portafogli, suonano violini per spettatori assenti e distratti. Il ciclo è lo stesso per tutti, con le stesse distanze, tra chi ha tutto e chi non ha niente, gli occhi non si incrociano mai neanche per un istante, sempre con la paura di avere qualcosa da perdere. Così lo sguardo di Harris Dickinson (il volto seducente e provocante di The Square e dell’ultimo controverso Babygirl, qui all’opera prima) si concentra dissacrante sulle idiosincrasie di questa separazione, sul carattere crudelmente sarcastico di quel niente e di come farselo bastare. Non c’è mai un attimo di pietà o commiserazione. Gli ultimi sono lì a prendersi la loro rivincita di sguardi (complici, divertiti), come nel cinema umanista di Sean Baker e in quello filantropico di Mike Leigh, con quel realismo sociale dolceamaro che lo lega fin troppo evidentemente al meraviglioso Naked. Riposizionarsi in un nuovo equilibrio normale, di sbieco al fato avverso, trovando un nuovo centro di gravità permanente, come l’avrebbe chiamato Battiato. L’unica conferma di Mike è però per l’ennesima volta di non aver combinato niente, di averlo fatto consapevolmente. La vita è sempre allo sbando, sfilacciata come chiunque la abiti con un contratto a tempo determinato, come in Diciannove di Lorenzo Tortorici, sfuggevole, adirata, senza però quell'autocompiacimento sedizioso e serio che in quel caso diventava in ogni scena anche il suo limite più grande. Il problema di Urchin è spesso proprio qui, quando il regista vuole fare di più di un racconto semplicemente umano, forzando una visionarietà di fatto assente, un virtuosismo registico che il più delle volte non solo allontana dal racconto, ma risulta anche artificio ridondante e altezzoso. 
Il ciclo ricomincia, di nuovo senza motivo, un altro anno, un anno come tutti gli altri, per parafrasare Another Year appunto di Mike Leigh.
Stavolta ci sarà un unico spettatore. Se stesso.


AMOUR APOCALYPSE - PEAK EVERYTHING (Anne Émond, Quinzaine des cinéastes)


Nel futuristico Her di Spike Jonze la voce incorporea di un'AI era il rifugio alla solitudine del mondo, l'amore perfetto e impalpabile da generare su misura per ognuno. In Amour Apocalypse una voce femminile di assistenza clienti, stavolta umana, corporale, apre le porte all’amore, cerca di tamponare una crisi del futuro che appartiene invece già al presente, con una minaccia ambientale talmente traumatica e irreversibile da essere causa di disturbi di personalità. Adam (Patrick Hivon con l’aura weird di Joaquin Phoenix) non fa eccezione, è uno sfigato responsabile di un rifugio per cani abbandonati, che per tanti versi gli assomigliano, così insicuri, indifesi, spesso anche un po’ ingenui e incoscienti. Con quella stessa leggerezza ansiosa ha acquistato una lampada terapeutica per rilassarsi, uno di quegli oggetti di design eleganti ed essenziali che promettono la salvezza eterna al costo di svendere la propria. Le ha provate tutte per superare la crisi esistenziale di origine climatica: podcast meditativi e motivazionali, psichiatri che anagrammano il suo nome per decidere diagnosi e farmaci, e ora utilizzare il supporto tecnico telefonico di quella nuova lampada miracolosa come aiuto psicologico ed emotivo. Adam così incontra Tina, una voce, la promessa di un’alternativa, la condivisione bilingue al di là della cornetta dello stesso “masso che pesa dentro”. Quando l’ennesima (improbabile) calamità naturale interrompe la telefonata, Adam, ancora una volta preoccupato, si convince a raggiungere quella voce, assicurarsi che sia tutto ok, farla diventare corpo consistente. Insieme inseguono una nostalgia primordiale all’inizio del mondo, fresco di creazione (Adam come Adamo dice lui stesso, “il primo uomo”), quando non c’era nulla di cui preoccuparsi, nel passato, presente e futuro, prima che tutto arrivasse ad un punto di non ritorno, a quella tristezza così invadente da essere anche il primo elemento identitario in cui sentirsi rappresentati.
L'esordio di Anne Émond cavalca tutto quel filone canadese inventivo, anarchico, caotico, ma leggero, a cui per ultimo appartengono anche i meravigliosi film di Monia Chokri da regista (BabysitterSimple comme Sylvain), in cui l'amore non è che una magica follia, un sollievo irriverente e tenerissimo travestito di assurdo (siamo dalle parti del surrealismo di Quentin Dupieux e di quello più esistenzialista di Miranda July - e se proprio bisogna trovargli un difetto è nei risvolti più drammatici in effetti che il film è meno brillante e convincente). Il tempo in cui viviamo non ha nulla della pulizia compositiva levigata e pudica di Her, i colori pastello sono ormai sporchi, riempiti di linee, schizzi, scarabocchi di pensieri. Ci sono complotti, scambi di persona, multiple fini del mondo che si rincorrono, via via più sfacciate e disinibite. Anne Émond gioca, cita, sovverte cliché o li cavalca (zoom veloci, musica pop, slow-motion). Sono lì gli stereotipi nevrotici del nostro tempo, come rifugiati climatici in perenne stato di guerra e di abbandono. 
Tutto sta cambiando. Come cantava Vasco Brondi in Cara catastrofe, preparandoci all’apocalisse “Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci / Ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile”. Prima dell’ultima, vera e definitiva fine del mondo sarà meglio innamorarsi per un’ultima e prima volta.


LA DANSE DES RENARDS - WILD FOXES (Valéry Carnoy, Quinzaine des cinéastes)


Camille contempla allo stesso modo le vittorie sul ring e il suo corpo snello da adolescente, anche quando lo vede sconfitto e perdente. Ha 17 anni, frequenta una scuola sportiva d’élite immersa nella natura in cui ogni classe è specializzata in una disciplina diversa, la sua è la boxe, e come tanti altri ragazzi della sua età, a prescindere dal tipo di carriera agonistica intrapresa, vive tensioni, rivalità, prime cotte serie e meno serie. Tra i tanti però è uno dei più promettenti atleti della sua generazione, con un futuro medagliato pressoché già scritto, che già lo fa ben posizionare tra i candidati più favoriti dei prossimi Europei. Un giorno, però, durante una delle sue tante uscite nell’ampia foresta vicina ad attirare e inseguire volpi (che danno il titolo al film), Camille cade giù da un dirupo. Il suo migliore amico lo salva, ma la cicatrice morale che si porta dietro da quel giorno lo cambia per sempre. Per la prima volta Camille si sente vulnerabile, fallibile, perso più che perdente. Sente per la prima volta la paura e ora teme di riprovarla di nuovo, ossessivamente. Così è meno performante, più debole, suscettibile. “È sempre il braccio” ripete come scusa. Eppure persino un amore adolescenziale (che qui è più simile ad una forma matura di affetto) accarezza tutte le cicatrici, anche le più recenti. Quel dolore non è fisico, ma mentale, e quegli episodi di nero, di deconcentrazione palpitante, hanno la fisionomia di attacchi di panico ricorrenti. Camille si allontana progressivamente dai suoi amici, si isola, si sabota, conferma lo stigma della psicologia come forma inaccettabile di disagio.
Al netto di interpretazioni attoriali anche molto efficaci (di Samuel Kircher in primis) l’approccio di Valéry Carnoy è però fin troppo convenzionale e scialbo. A parte le premesse drammaturgiche onorevoli (la rivalsa dell’archetipo maschile del giovane campione che deve performare ad alto livello e che invece fieramente è fragile e piange), non c’è mai un’analoga visione filmica capace di valorizzarle. Manca cioè uno sguardo, compiuto, soppesato, che renda lo sport, anche lontano dal ring, più di una semplice competizione con ansie collegate, vedere, cioè, in quella lotta esasperata, nel sudore che cola, nel sacrificio rabbioso della disfatta, quello che facevano, tra i tantissimi, Martin Scorsese con Toro Scatenato e per ultimo in ordine di tempo Luca Guadagnino con Challengers: sfruttarne i dispositivi linguistici (di tensione, di montaggio) per costruire un’iconografia, una forma di ossessione (per Scorsese la violenza inaudita, per Guadagnino il desiderio ubiquitario).
Al di là della forza, della velocità, della resistenza, lo sport è sempre questione di testa. Anche dopo aver vinto si può avere paura. La storia di un’amicizia (mancata) con se stessi.



19.3.25

Recensione: "Red Rooms" (Les Chambres Rouges)




Un film straordinario, uno dei più belli visti questi ultimi anni (ai tempi del Guardaroba l'avrei amato e sponsorizzato come pochi altri).
Vorrei scrivere il meno possibile perchè il mio averlo visto senza sapere nulla (sono due anni che mi dicono di vederlo dopo che ha vinto il ToHorror) ha sicuramente reso la mia visione ancora più bella, ancora più misteriosa e stimolante.
Quindi, se potete, non leggete in giro, nemmeno le trame, alcune svelano molto.
Dico solo 3 righe innocue.
Siamo in Canada.
C'è il processo a un presunto mostro, un pedofilo autore di crimini indicibili.
Tre ragazzine violentate, uccise e smembrate, tutto poi ripreso da una telecamera per avere degli snuff movie da vendere nel dark web.
Una bellissima ragazza, modella, partecipa a tutte le udienze.
Perchè?

Un film in cui la violenza non viene MAI mostrata, senza una goccia di sangue, senza scene minimamente esplicite ma che mette a disagio lo spettatore per tutta la sua durata, grazie soprattutto alla scrittura di devastante bellezza della una protagonista, misteriosa, ambigua, magnetica.
Uno di quei film che non se ne vanno più via.

 La macchina da presa si muove nella sala d'udienza.
Comincia il processo a Ludovic Chevalier, un presunto pedofilo autore di atti indicibili, che solo a scriverli tremano le mani.
Violenza, torture, omicidio, mutilazioni - tutto con annessi filmati video - a 3 minorenni, 2 delle quali bambine.
La macchina da presa si muove per la stanza seguendo prima l'Accusa, poi la Difesa, intente a presentare il caso alla giuria.
Parte un piano sequenza magistrale, formidabile, che non poteva che essere l'opening ad un film che formidabile e magistrale lo è praticamente tutto.
E' un piano sequenza che nella mia testa è diventato geometria, tanto che avrei voluto disegnarlo.
Per una decina di minuti l'inquadratura si sposta in modo pulito e al tempo stesso confuso, andando qua, andando là, curvando, tornando indietro, allargando il campo e stringendolo, cercando di farci percepire il totale della stanza e le posizioni di tutti i partecipanti.
Ci sono gli avvocati, c'è la corte, c'è il banco dei giurati, c'è quello dei semplici visitatori.
Ci muoviamo qua e là "cullati" dalle voci dei due avvocati, avvocati che, come fanno con la giuria, tentano di iniziare a farci entrare nell'orrore del caso.
Poi, ad un certo punto, la macchina di presa si ferma (ma non finisce ancora l'inquadratura).
Ho subito detto a mio fratello "Ora va dritta verso di lei, sicuro".
Lei è la nostra protagonista ed è lì, in fondo in fondo, sulla panca dei visitatori.
E sì, avevo ragione, dopo tutti quei giri, dopo tutti quei ghirigori, adesso la macchina da presa va dritta, in una lentissima carrellata avanti verso di lei.
Ma lo sguardo di lei è sghembo all'inquadratura, è uno sguardo fisso verso il presunto colpevole, in questo momento fuori campo.


Quindi abbiamo prima 10 minuti di movimento in ogni direzione, poi una linea diretta verso di lei mentre proprio lei "disegna" un'altra linea diretta, invisibile, verso il colpevole.
So che sembro malato a scrivere 20 righe di questo incipit ma mi ha emozionato troppo.
E su, ci faccio il disegnino, di pura memoria eh, e ovviamente solo esemplificativo, non sono quelli i movimenti reali.


Ora...
Visto l'intero film questa prima scena, questo primo sguardo di lei incapace di smettere di guardare lui, diventa ancora più importante, più emozionante.
E, attenzione, non è "solo" lo sguardo di qualcuno che sente il bisogno/voglia/fascino di guardare l'altro (non scrivo ancora i motivi, dando tempo a chi sta leggendo ma non ha visto il film di abbandonare prima che può) ma quello, probabilmente, di qualcuno che vuole essere visto dall'altro.
Ma no, Chevalier non alza mai la testa, Chevalier quella ragazza che non riesce a staccargli gli occhi di dosso, quegli occhi, quindi, non li incrocia mai.

Questa ragazza, bellissima, fa la modella ma, in qualche modo, è ossessionata dal caso.
Vive in un attico, alquanto spoglio (ci torneremo) ma, incredibilmente, tutte le notti esce di casa per dormire per strada, come una homeless.
Lo fa, lo spettatore può capirlo subito, presto, tardino, tardi o mai, per essere il più vicina possibile al Tribunale, e quindi non perdersi quel posto - limitato - tra i visitatori del processo.
Insomma, quel processo, e forse quell'uomo processato, sono in questo momento della sua vita l'esatto senso della stessa.
Noi abbiamo avuto una fortuna, ovvero arrivare al film senza aver letto nemmeno una riga di trama (ma nemmeno una eh, che poi ieri notte leggendole anche soltanto due ti spoileravano mezzo film) e quindi è stato meraviglioso cercare di capire perchè quella ragazza fosse là, quale fosse il suo passato, quale il suo collegamento con il caso, quale quello con il presunto colpevole, quale il suo fine ultimo.
Tante teorie abbiamo fatto, per questo film che proprio in questo suo lato misterioso, reticente, lentamente rivelatorio, nasconde gran parte della sua grandezza.

Abbastanza presto scopriamo che Kelly (Kelly-Anne in realtà, ma abbrevierò) fa sì la modella ma la sua attività principale (o comunque la sua ossessione e impegno principale) sia fare "cose" al pc (anzi, ai 2 pc, emblematico).
Gioca a poker online (guadagnando moltissimi soldi) e si percepisce essere anche molto dentro a pratiche misteriose non legali, sia nel deep web che nel dark web (c'è profonda differenza tra i due mondi ma, insomma, le cose terribili e difficilmente raggiungibili dagli utenti normali accadono nel dark web).
Insomma, non ci vorrà molto a capire che Kelly è una hacker e che frequenta - non possiamo saperne ancora i motivi - il dark web con assiduità.

Dark web che è anche al centro dello stesso processo visto che l'indizio principale di colpevolezza verso Chevalier sta in due video per l'appunto usciti dal dark web.
Video dove si mostrano le torture, la morte e le mutilazioni di due delle tre ragazzine morte (di una, invece, il video non è stato ancora trovato).
Il tutto avviene nelle "red rooms" che sono, in gergo, le stanze dove vengono filmati questi snuff movie, video che poi, ovviamente, vengono venduti a peso d'oro nel dark web.
L'assassino ha il passamontagna ma gli occhi, la corporatura e le movenze sembrano proprio quelle di Chevalier, Chevalier che - tra l'altro - abitava proprio nella casa nel cui giardino sono stati trovati i corpi.
Quindi abbiamo un processo i cui indizi principali sono nel dark web e la nostra protagonista hacker, sempre più affascinante.
Qual è, quindi, il legame tra le vicende?



Allora, innanzitutto, Red Rooms è un film girato magistralmente.
Elegante, chirurgico, pieno di inquadrature, movimenti di macchina e location di grande "esattezza", minimali e perfette.
Comincia con questa ragazza che si sveglia per strada, in una fotografia sui toni del blu (probabilmente non naturale ma bellissima) e con una prima colonna sonora favolosa che accompagna la nostra protagonista in tribunale, tribunale dove sta per cominciare il processo Chevalier e dove avremo quella prima scena lungamente descritta prima.
Probabilmente a livello puramente visivo e registico queste due prime scene resteranno le migliori, vero, ma senza che il film perda poi nulla perchè
 già dopo 10 minuti iniziamo ad avere un'atmosfera densissima e una sceneggiatura che tiene il film in altissimo, anche quando, per buona parte della sua durata, non avremo altre scene visivamente notevoli.

Attrice principale favolosa (mi ha ricordato, per bravura e tipo di film, quella di Starry Eyes) e, in generale, anche gli altri tutti in parte, in un film dove però - inutile dirlo - tutto è "lei", non solo per il suo magnetismo, non solo per il suo ruolo ovviamente predominante, ma anche perchè la grandezza di Red Rooms sta nel fascino, nel "lavoro" e nella voglia di scoprire che ha lo spettatore riguardo Kelly.
Kelly, quello che è, quello che pensa, quello che vuole, quello che nasconde, quello che cerca, è Red Rooms, ennesima prova di come il cinema più bello e perturbante sia quello del non detto e manifestato, quello che al tempo stesso ti arrovella il cervello e ti muove dentro qualcosa.
E il capolavoro del film di Pascal Plante sta nel fatto che anche quando è finito, anche quando ti ha praticamente dato tutte le risposte, comunque ti lascia mille dubbi e mille zone grigie.
Son queste le sceneggiature, queste.

Ora, prima di addentrarci, come mi piace fare, in analisi contenutistiche e psicologiche parliamo di quello che, forse, è l'unico difetto che ho riscontrato nel film o, più che difetto, un aspetto che avrei preferito fosse trattato in altra maniera o, comunque, avesse un altro finale.
Mi riferisco alla coprotagonista, la ragazza "fan" di Chevalier, Clementine.
Intendiamoci, è un personaggio ottimo e funzionale.
E' l'unico, infatti, che riesce a interagire con la nostra Kelly e "serve" al film più di una volta in modo convincente, specialmente quando Kelly gli fa guardare i primi due snuff movie di Chevalier.
E' molto interessante anche per il fatto che, a ben pensarci (ovviamente queste considerazioni sono a film finito), entrambe le ragazze sono ossessionate da Chevalier e attratte da lui ma mentre Clementine lo è per il semplice fatto di ritenerlo innocente Kelly, se vogliamo, lo è per l'esatto opposto, perchè sa quello che Chevalier ha fatto, perchè l'ha visto, perchè sa che è un mostro.
E proprio in quanto mostro lo ama.
Quindi in sceneggiatura questa coppia così vicina e così lontana è perfetta.

Però non convince del tutto Clementine, leggermente resa macchietta, esagerata, esaltata, forse troppo stereotipata.
E non mi è piaciuta nemmeno l'intervista finale a film finito.
A che pro?
Non migliora il film, anzi, è una cosa posticcia, "buonista" e abbastanza inutile.
Ma vi dirò di più, vi dirò una mia suggestione avuta per tutto il film che secondo me avrebbe reso quel personaggio grandioso.
Guardate gli occhi di Chevalier, guardate le sue occhiaie.
Guardate gli occhi di Clementine e guardate le sue occhiaie.
Identici.
Ecco, io ho pensato fino alla fine del film che lei fosse sua figlia (magari illegittima, mai vista da lui) e questo oltre a rendere quel personaggio (e il film con lei) ancora più bello avrebbe spiegato in maniera clamorosa tutto, quel bisogno assoluto di difenderlo, quell'affetto verso di lui e, all'opposto, lo shock di vedere nello snuff movie quegli occhi, "riconoscerli" e per questo piangere e sparire per sempre.
Ovviamente io non sono nessuno rispetto a qualsiasi sceneggiatore vivente, men che meno a quello di Red Rooms, ma questa scelta avrebbe - per me - elevato il film.

In ogni caso Clementine resta personaggio molto funzionale non solo per il rapporto con Kelly ma anche perchè esponente di una categoria di persone realmente esistente (anche se di solito queste "groupie" lo sono proprio perchè gli adulati sono assassini, non perchè li credono innocenti).

Kelly....
Kelly, lo scopriremo nella mezz'ora finale (sempre che non ci sia arrivati prima) è una ragazza apparentemente "sana", perfetta, stabile che, invece, ha questo terribile disturbo, ovvero l'essere affascinata e ossessionata dalla violenza estrema, inumana e devastante.
Credo che la sua vita "di fuori" (fuori dalla sua mente) sia in un certo modo non tanto per "copertura" (quello lo è, semmai, il lavoro da modella) ma perchè le serve proprio per "contrastare" il caos, lo schifo e il casino che ha in testa.
Per questo mangia sanissimo (toglie anche gli avocado dal poke), pratica costantemente due sport (il fitness e lo squash), ha una vita, una casa e delle abitudini talmente sane e "pulite" da far paura.

24.2.25

Recensione: "Strange Darling" - Al Cinema 2025

 

Strange Darling poteva essere bellissimo.
Due bei personaggi principali, una storia torbida e malata, un punto di vista ribaltato, una regia molto pop e tante belle cose da vedere.
La storia dell'incontro tra una ragazza e un ragazzo, la notte di (non)sesso e droga in un motel e tutti i terribili accadimenti che avverranno poi.
Eppure c'è come la sensazione che tutti gli ingredienti di primissima qualità che aveva - con merito - messo dentro, vengano usati in un modo sbagliato o poco soddisfacente.
E così Strange Darling si rivela uno di quei film che stimolano da morire lo spettatore, tanto da costringerlo a farsi "molti film in testa" ma avere poi la delusione che la maggior parte di quei film fatti in testa avevano sviluppi migliori di quello nello schermo.
Davvero un mezzo peccato.
 


A volte credo sia importante come si arrivi al risultato finale.
Gli ultimi due film che ho visto al cinema, ovvero questo qua e Companion (saltata la recensione, al solito) hanno per me lo stesso giudizio finale, un 7 pieno, ma due iter completamente diversi.
Perchè mentre uno - Companion - arriva a quel livello salendo sempre di più durante la sua durata e non potendo, per costituzione, ambire ad essere migliore di quello che è, Strange Darling tutto l'opposto, ha tutte le carte in tavola per essere molto più grande, ha tutti gli ingredienti giusti ma non riesce ad usarli al meglio.
Insomma, uno al 7 ci arriva, l'altro ci scende.
Uno usa al meglio le non grandi potenzialità, uno quasi al peggio quelle altissime.

Strange Darling è un thriller molto pop (ormai l'horror e thriller di questo tipo la fanno da padrone, a discapito di quelli più oscuri, sotto le righe e dolorosi), con una sceneggiatura scarnissima, attori super convincenti e, come dicevo, gigantesche possibilità messe sul piatto.




E' la storia di una ragazza (The Lady) che incontra un ragazzo (The Demon) ed ha con lui una notte di (non)sesso e droga in un motel, notte che finisce malissimo, con lei che scappa in un bosco inseguita da lui.
Il film è diviso in 6 capitoli non cronologici, con balzi avanti e indietro nel tempo (tutto nell'arco di circa 12 ore comunque).

DA QUI SPOILER

Iniziamo dai difetti, ovviamente per me eh.
Parlavamo di grandi ingredienti (che comunque mettere nel piatto rappresentano sempre un merito) non usati benissimo.
Prima di tutto la divisione in capitoli.
E' una cosa che amo molto, moltissimo, perchè oltre all'effetto straniante e spesso di sorpresa presuppongono un lavoro non indifferente che deve fare spettatore per mettere poi tutto in fila.
Credo che il film più grande che io abbia visto questi ultimi 6-7 anni con questa tecnica sia Too Late, perla gigantesca dove il racconto non cronologico oltre che intellettualmente stimolante causava allo spettatore anche molte emozioni.
Strange Darling, invece, ci presenta 6 capitoli "compressi" in pochissime ore che praticamente servono a poco e niente, visto che dopo 20 minuti di film lo spettatore sa già perfettamente quello che vedrà o succederà (o cosa è già successo) nei capitoli mancanti (a parte l'epilogo ovviamente).
Certo l'incipit (fuori dai 6 capitoli) con lei che corre nel prato insanguinata è davvero bello e, sì, svia completamente lo spettatore.
Ma ci vorrà veramente poco poi per capire quale sia la verità e, a quel punto, godersi davvero poco la struttura non cronologica.
Intendiamoci, è sempre un tipo di narrazione stimolante e "divertente" eh, ma secondo me quando viene scelta in una sceneggiatura deve essere fatto con due motivazioni, o sconvolgerci continuamente le carte o renderci "complessa" la visione, visione che solo quando hai tutti i pezzi del puzzle puoi mettere insieme.
In Strange Darling la non cronologia nè regala sorprese nè complica le cose.

Altro grande ingrediente poi un pochino insipido è l'aver girato il film in pellicola.
Bella, bellissima cosa, ma per quanto strombazzata nei titoli iniziali poi abbastanza deludente.
Paradossalmente il momento in cui viene più esaltata la grana della pellicola è proprio l'incipit, con quella corsa.

Terzo grande ingrediente potenziale usato male, i sottotesti e i possibili sviluppi che il film poteva avere.
Strange Darling ci racconta la storia di una pazza (lei, Willa Fitgerald, convince davvero, è il plus del film) che, sia sotto l'effetto di droghe che di "visioni" (vede demoni), perde completamente la testa, uccidendo persone.
E', a tutti gli effetti, una serial killer ricercatissima dalla polizia (Electric Lady).
Il problema è The Lady è l'esatto opposto dei comportamenti di una serial killer mai presa.
Lascia tracce ovunque, si fa vedere ovunque, lascia testimoni ovunque (la ragazza di colore dell'albergo a cui ruba i vestiti, l'anziana della casa in campagna (ok, poi l'uccide perchè questa ricompare, ma l'aveva lasciata volutamente viva e libera di andarsene), la poliziotta nel finale.
Ora, l'unica soluzione è pensare che Electric Lady avesse deciso di consegnarsi, altrimenti niente ha senso.
E come giustificazione non possiamo nemmeno dire quella che "era sotto gli effetti della droga" perchè è semmai l'esatto opposto, sono proprio le droghe, le visioni e forse una latente schizofrenia a farne una killer.
Quindi l'errore gigantesco per me in sceneggiatura è quello di raccontarci sin dai titoli iniziali la storia di un(a) grande serial killer per poi mostrarci la storia di una ragazza disturbata che commette crimini nel modo più grossolano possibile.
A mio parere errore imperdonabile.

Mentre le tante altre scene che possono far storcere il naso (lei che in pericolo di morte si ferma su un albero e fuma, lei che si nasconde in una ghiacciaia buttando fuori polli congelati e tutte le altre scene con mood volutamente ai confini del ridicolo) alla luce dei fatti sono inattaccabili, siamo davanti ad una mente completamente bruciata, ad una ragazza al confine della capacità di intendere e volere e che quindi fa cose o inspiegabili o poco lucide.
Ed è proprio per questo, ovvero per questa - secondo me - perfetta caratterizzazione di lei, che Strange Darling doveva avere una cornice e degli sviluppi completamente diversi.
Riguardo la prima intendo soprattutto - come detto - l'evitare la storia della serial killer, riguardo gli sviluppi puntare molto di più sulla faccenda della malattia mentale.




Durante la visione mi ero immaginato 3/4 scenari secondo me tutti migliori di quello che poi prende il film (ovvero quello di un realismo che, però, è pieno di crepe), primo fra tutti il ricalcare un grande cult horror francese dal colpo di scena magnifico (ma inaccettabile per come fu raccontato), ovvero Alta Tensione.
Non leggere le prossime righe in corsivo.

5.2.25

Il meglio dell'Invisibile, edizione 2024 - 10 film bellissimi non ancora distribuiti in Italia




Terminato il sondaggione sul Miglior Film distribuito in Italia nel 2024 ecco che arriviamo all'ormai classico appuntamento sull'altra faccia della Luna, ovvero il post in cui tanti valorosi e competentissimi amici vi presentano il meglio che potete trovare sul non distribuito, sul non ancora legalmente visibile.
10 bellissimi film, raccontati da 5 voci diverse.
Ovviamente  si spera che tutti questi film possano trovare una distribuzione.
In caso contrario dovrete cercarli in altri modi.



RICCARDO SIMONCINI

THE SUMMER BOOK di Charlie McDowell

Esistono tante storie estive: quelle di amori sbocciati come margherite e poi recise con violenza nel primo giorno di temporale, ma anche quelle di bambini in crescita che nel tempo sospeso delle vacanze decidono di diventare grandi tutto in una volta, in fretta e furia velocizzano esperienze, primi baci, prime innocenze perdute. Esiste anche però un’estate da ricordare, di tragiche cartoline familiari da scolpire e conoscere per la prima volta prima che sia troppo tardi. The Summer Book recupera e integra tutti questi orizzonti intimisti: un’estate, una bambina, sua nonna (due performance attoriali di Glenn Close e Emily Matthews tra le migliori dell’anno). Un rapporto familiare che ha la stessa intensità dell’amore (passeggero ma indimenticabile) e la stessa spensieratezza dell’infanzia (dove non esiste nulla a parte un sole illustrato), ma inevitabilmente ha anche lo stesso preludio mortale e tombale. Come se l’estate intrinsecamente contenesse già l’inizio e la fine, il partire e il ritornare, come ogni famiglia sulla sua macchina ricolma di valigie e cibo in viaggio con destinazione mare. Qui il paesaggio non è però riempito di turisti, di palle svolazzanti in cielo insieme ai gabbiani cigolanti e i secchielli colorati colanti cocco e sabbia mischiati. È la Finlandia insulare dei fiordi a strapiombo, dai profili spigolosi e scavati, del verde che il vento ingiallisce, delle casette di legno isolate che dominano ogni orizzonte oceanico, con le assi così irregolari da lasciare sempre aperte sottili feritoie attraverso cui spiare il mondo circostante. In mezzo alle alghe aggrovigliate, alle barche a remi attraccate e agli aghi di felce da stringere in bocca, la Natura si compie al disgelo all’ennesima potenza.
Il piccolo e dolcissimo caschetto biondo di Sophia si muove rapido, curioso di scoprire quel luogo in cui ad ogni angolo e zolla di terra il passato ha lasciato un oggetto del suo passaggio. Sophia riempie di natura l’innocenza curiosa tipica della sua età. “Esistono le formiche in paradiso?” chiede teneramente come si chiede qual è il senso della vita, perché mamma non c’è più, perché papà sta sempre per i fatti suoi. Dopo la morte della madre, Sophia è infatti legata intimamente più alla nonna che al padre, serioso e solitario sempre intento a disegnare. “La puzza del dolore”. Con la nonna Sophia scopre il mondo, risolve i suoi dubbi e le sue paure, le intaglia nel legno per gettarle in mare aperto, ritrovando la serenità dopo un lutto in cui la Natura rigogliosa ma brutale non ne ha rispettato le sentite condoglianze. Quella nonna, energica e vigorosa nonostante un decadimento fisico e mentale ormai irreversibile, è l’esatta personificazione e della natura, Madre-Natura, Nonna-Natura, in quel paesaggio che è lei stessa, da 47 anni a questa parte un unico respiro e carezza fuso nello stesso immutato locus amoenus, nudo e vivo, l’Ogigia salvifica e paradisiaca in cui la ninfa Calipso accoglie (e trattiene) Ulisse nell’Odissea.
È tutto percezione ed esperienza, immagine materica e granulosa in cui le parole scorrono comunque a fiumi (nei piani d’ascolto più che nei piani d’azione - che è già in sé cifra stilistica) aiutando a ricordare quello che non si può guardare più. C’è la metafisica contemplativa di Terrence Malick, la terrestrità del sentire di Josephine Decker, il tempo geologicamente inarrestabile di Hlynur Pálmason. Sembra pure di ascoltare la Rêverie di Debussy, l’atmosfera sognante in Fa maggiore che negli arpeggi progressivi prende corpo e materia in una rincorsa soffice e cotonosa come nuvole. “Rallentando e perdendosi” come recita la notazione sullo spartito.
Un’isola, che come tutte le isole è circondata in ogni angolo dal mare, ma al centro c’è la vita. Il cuore singhiozza come una barca a motore in avaria al largo.
Prima della fine, prima di andare via, pianteremo un albero, quel pioppo che mamma amava tanto. I suoi rami toccheranno le stelle. E sarà sempre estate.


FRANCO CAPPUCCIO

EXERGUE - ON DOCUMENTA 14 di 
Dimitris Athiridis


“Nei tempi bui / si canterà? / Si canterà. / Dei tempi bui.”, scriveva Bertolt Brecht nel 1939. Queste parole sono acutamente apposte al documentario osservazionale di 14 ore di Dimitris Athiridis - un resoconto tentacolare della realizzazione di documenta 14, la divisiva edizione 2017 della mostra d’arte quinquennale che si è svolta sia a Kassel, Germania, che ad Atene, Grecia. exergue è da un lato uno studio su un personaggio realizzato attraverso uno sbalorditivo livello d’accesso, con Athridis che ha seguito il direttore artistico Adam Szymcyk attraverso incontri curatoriali, visite studio, eventi pubblici, problemi di budget, e fazioni. È anche un’anatomizzazione di una istituzione in bilico. Il materiale di Athridis mostra quanto critica e creatività possono arrivare dall’interno della pancia della bestia, senza mai lasciar dimenticare allo spettatore che c’è un prezzo da pagare lungo la via.


MARCO MACCHINI

SKUNK di Koen Mortier


Ogni anno ormai inizia con la solita, inscalfibile, consapevolezza: sono troppo vecchio. Sono troppo vecchio per il calcetto del giovedì sera, sono troppo vecchio per riuscire a costruirmi una vita anche solo lontanamente dignitosa e sono troppo vecchio per i coming of age. Se per i primi due punti è ormai impossibile trovare una soluzione, non resta infatti che dichiarare la resa, accettare l’ignominiosa sconfitta contro il tempo, per il terzo esistono delle scappatoie perfettamente delineate da un film come Skunk. Un coming of age sicuramente diverso e tutt’altro che formativo. C’è del marcio in Belgio e Koen Mortier ce l’aveva già mostrato in Ex Drummer, anche se in Skunk il pattume è ancora più triste e avvilente. Il povero Liam, adolescente dallo sguardo malinconico, ha infatti i genitori peggiori del mondo che quotidianamente lo picchiano, lo seviziano e lo torturano psicologicamente. Il padre (“metal fun fact”: interpretato dal cantante degli Amenra) gestisce addirittura un giro di prostituzione nella loro lercissima abitazione dove la protagonista assoluta è, ovviamente, la madre di Liam. Un quadretto famigliare così irreprensibile non poteva che trascinare il ragazzo in un istituto correttivo per minori dove, guarda un po’, la situazione non migliora affatto tra risse, botte da orbi, gattini assassinati, stupri e assistenti inadeguati. Skunk è un film asfissiante e deprimente, capace di caratterizzare alla perfezione un protagonista imperdibile. Impossibile non empatizzare con Liam durante le sue mille sventure, impossibile non provare un brivido nelle scene dove ripensa ai suoi genitori, trascinato dall’irrazionale speranza che questi possano davvero cambiare. Skunk è un viaggio marcio e violento, arricchito da alcuni fugaci lampi di quell’amore tossico e non corrisposto che tanto piace. Perlomeno a me.


GIANLUCA CAFAGGI


RED ROOMS di Pascal Plante


Pur non essendo arrivato ufficialmente in Italia, Red Rooms, film del regista canadese Pascal Plante, ha fatto molto parlare di sé durante il 2024, anche grazie al premio ricevuto al ToHorror 2023 e alla splendida interpretazione dell'attrice protagonista. È stato appellato dai più come un grandissimo film, elogiandone regia e contenuto ma, se tecnicamente è meraviglioso, la sceneggiatura presenta ahimè più di un incertezza, pur rimanendo a suo modo un gran film, ma ci arriveremo.

La storia parte immediatamente con un primo piano della protagonista Kelly-Anne, appena risvegliata all'angolo di una strada; passano un paio di minuti e siamo catapultati in aula di tribunale, non abbiamo la minima idea di cosa ci aspetti, ne perché la ragazza sia lì.

Assisteremo a un'apnea di 20 minuti, di cui almeno la metà raccontati attraverso un unico piano sequenza, che ci accompagnerà lungo i sermoni di accusa e difesa; finiti i monologhi, nell'aula cala il silenzio, la macchina da presa si ferma due volte, prima si sofferma sul presunto killer e dopo, con un lento zoom, il campo si restringe verso il volto della protagonista, ha lo sguardo vuoto, attonito, come il nostro dopo aver compreso la terribile vicenda in cui saremo coinvolti.
Il prologo, se così possiamo definirlo, è magnifico sia per la tecnica con cui è girato, sia per le emozioni che trasmette; si ha la sensazione di essere davanti ad un qualcosa di grande.

Il tema del processo ruota attorno all'omicidio di 3 ragazze, accomunate dalla giovane età (tutte minorenni) e dai tratti fisici (bionde e occhi azzurri), avvenuto in un contesto riconducibile al fenomeno delle "Red Rooms", ovvero dirette illegali in cui la gente pagherebbe per assistere a torture/omicidi di ogni tipo, proprio ciò che è capitato alle nostre vittime.
Per dare un po' di contesto, le fantomatiche Red Rooms, sono da anni una leggenda del web; pur non essendoci veri casi di cronaca riconducibili a fatti di questo tipo (viene pure detto esplicitamente sul film, con un po' di furbizia), sono state spesso oggetti di varie storie e racconti horror; il film cerca chiaramente di sfruttare a proprio vantaggio il "fascino" legato a tali storie, sfruttando tale appellativo e cercando di portarci, man mano che la storia avanza, in quella parte oscura del web dove tali dirette avverrebbero.

Tornando al film, ci ritroviamo a questo punto dentro casa di Kelly-Anne, da quel poco che (non) ci viene detto è una sorta di hacker/genio informatico e si guadagna da vivere attraverso poker online, trading e facendo da modella per un sito web.
Sempre per quel poco che ci viene fatto capire, l'intuito ci porta a supporre che la nostra protagonista non sia una pura e semplice spettatrice del processo.

In aula, ad assistere alle sedute, è presente un'altra ragazza, Clementine, ferma sostenitrice dell'innocenza dell'imputato, pur non conoscendolo. Ben presto entrerà di prepotenza nella vita di Kelly-Anne, portando lo spettatore a credere che anche quest'ultima possa appoggiare tale linea di pensiero.
Il personaggio di Clementine è il primo vero limite del film; pur dando una certa continuità e vivacità alla storia, per buona parte del film risulta piuttosto fine a sé stesso, non portando un vero valore aggiunto all'idea che lo spettatore si fa del processo, ne sembrando utile a scalfire il guscio di mistero che avvolge Kelly-Anne.

Tornando a parlare di lei, ci viene mostrato attraverso la sua routine l'effettivo interesse che sembra avere verso il processo; il regista ci mostra gradualmente Kelly-Anne scavare, attraverso le sue doti informatiche, nella vita della madre di una delle ragazze e, man mano che scopriamo informazioni con lei, il processo continua così come i dettagli macabri e orribili legati alla vicenda.
Ben presto emergerà la natura ambigua dell'animo di Kelly-Anne, i suoi sguardi vuoti e i suoi comportamenti bizzarri ci cattureranno; in questo il regista è bravissimo ad alimentare tali sensazioni, evitando di darci il minimo dettaglio sul perché essa sia legata alla vicenda e quale sia il suo scopo.
Ciò favorisce nello spettatore un profondo disagio, non sapendo come porsi nei confronti della protagonista, finendo per farci dubitare del bene come del male.

Purtroppo alcune delle trovate volte ad alimentare tale ambiguità sono quanto meno discutibili e altre davvero poco ispirate.
In primis le sequenze di hacking al PC sono sì utili a fin di trama, ma piuttosto inverosimili, così come le parti in cui naviga nel "dark web" e in pochi secondi ottiene tutte le informazioni di cui ha bisogno; senza contare le sequenze in casa (ma pure fuori dal telefono) dove in pochi secondi guadagna soldi col poker e col trading...fossero state poche e sporadiche sarebbero state tranquillamente passabili, ma essendo parti integranti della vicenda, soprattutto nel finale, non è un aspetto su cui si può soprassedere. 
Così come il lavoro da modella, che sembra essere una sorta di attività che Kelly svolge in totale contrasto con la sua vita strettamente fuori dai riflettori ma che, di fatto, alla fine non porta assolutamente a nulla e risulta essere solo un'ulteriore trovata per provare a dare più profondità al personaggio.

Riprendendo la vicenda, si arriva ad un punto di svolta quando al processo è finalmente l'ora di mostrare i video degli omicidi, visone che viene preclusa a Kelly e Clementine.
Si scoprirà che Kelly possiede tali video sul proprio PC; in una sequenza magnifica le due ragazze vedranno i video al computer, con il rosso del sangue sparato sui loro volti attraverso i monitor.
Qua verrà fuori un netto contrasto durante la visone, con Clementine sconvolta e Kelly fredda e glaciale, quasi priva di qualsiasi empatia, quasi come se quei video fossero stati visti così tante volte da conoscerli a memoria.
Cominciamo a capire la morbosità che si cela dietro alla protagonista, sorgono ulteriori dubbi, si ha come la sensazione che tutto possa accadere e che quel tutto non sia nulla di positivo.
Clementine deciderà di andarsene, uscendo di scena e di fatto tagliando fuori il personaggio dalla vicenda (ricomparirà poco prima dell'epilogo giusto per dovere di narrazione) ; capiremo alla fine che oltre a contribuire per la splendida sequenza descritta poco fa, esso sia servito solo a farci conoscere anche un lato buono di Kelly...troppo poco per quanto mi riguarda.

Di qui in avanti ci avvicineremo alla conclusione. 
Kelly finalmente viene allo scoperto e lo fa nel modo più scioccante possibile, comparendo in aula vestita e travestita come una delle ragazze al momento della morte; ci viene mostrato un lato mai visto fino ad adesso, sul momento non capiamo.

Quello che sembra ormai il folle piano di Kelly prende vita; siamo di nuovo nel "dark web", l'obbiettivo è entrare in possesso dell'unico video "inedito" dei 3 omicidi, in una sequenza che, come già detto, purtroppo è forzatissima così come tutte quelle al PC.
La tensione è comunque alta, poiché il fine dell'entrare in possesso di quel video ci è totalmente sconosciuto.
L'acquisto va a buon fine, leggiamo in volto l'eccitazione di Kelly, apre il video, lo fa partire.
Vediamo di nuovo il suo volto dipinto di rosso, ecco ancora lo sguardo attonito, con un accenno di sorriso, i dubbi tornano, l'ansia ci pervade.

Siamo giunti alla fine; Kelly copia il video in una penna USB, in piena notte si introduce in casa dei genitori della ragazza uccisa, vestita di nuovo come lei; si siede sopra il letto della tredicenne morta, si scatta una foto sorridendo; va in camera mentre loro dormono e lascia la USB sul comodino.

Il giorno seguente il lieto fine, la penna USB conteneva, oltre al video, le prove della colpevolezza dell'imputato, che confessa. Giustizia è stata fatta grazie a Kelly.

Dal nostro punto di vista sarà però tutt'altro che un lieto fine, perché sappiamo bene che Kelly non ha fatto tutto questo solo per un senso di giustizia.

A mente fredda tutto è più chiaro; una parte di Kelly era estasiata alla vista di quei video, forse una parte di lei voleva essere una di quelle ragazze, una parte di lei voleva a tutti costi attirare anche solo uno sguardo di quel killer così spietato, una parte di lei voleva quel saluto che egli le rivolge quando si presenta in aula vestita come la bambina uccisa, una parte di lei è morbosamente compiaciuta da tutto quel dolore.
Come in ogni dualismo che si rispetti però, c'è anche la parte di Kelly che forse non è del tutto immune a sentimenti nobili, una parte di lei forse non è ancora pronta a condannarsi a tale dolore, allora tanto vale rinchiuderlo quel dolore, tanto vale lasciare quella penna USB sul comodino.


FRANCESCO

CHIME di Kiyoshi Kurosawa




Paura e incomprensibilità. Bastano queste parole per riassumere Chime di Kurosawa (kiyoshi), presentato alla Berlinale del 2024. La trama segue Matsuoka, ex chef di fama che ha trovato lavoro come insegnante di cucina. Nella sua classe è presente Tashiro, ragazzo isolato e particolare, che fará sprofondare la vita dell'insegnante in un vortice di angoscia. Chime è un opera di una complessità mastodontica riassunta in soli 45 minuti con lo scopo principale di farti sentire continuamente un senso di instabilità, di paura e di incredulità. E ci riesce in diversi modi.
Forse quello più importante è proprio il sonoro, elemento già sottolineato dal titolo stesso: Chime (scampanellio/rintocco). In tutto il film, ad eccezione del finale, è assente la musica ma sono presenti vari suoni che vanno da uno scampanellio metallico (già citato) a dei suoni striduli e ciclici come il passaggio del treno, rumoli di ventole, lattine buttate, etc. che si ripetono per tutto il film. Tutti questi rumori aiutano a farci entrare nella prospettiva del protagonista, come se ci fosse qualcosa nella mente del nostro protagonista dal quale non può scappare, che lo perseguita, che lo insegue. Come se l'ambiente e la mente del professore fossero una cosa sola, indistinguibile.
E questa sensazione ci viene trasmessa anche grazie alla macchina da presa stessa. Spesso e volentieri nel film ci sono movimenti di macchina precisi, che ci fanno sentire la presenza di qualcuno e qualcosa ma che non ci viene mai rivelato. Ad esempio: in una delle prime scene del film Matsuoka sta cucinando da solo, incominciamo a sentire lo scampanellio con la macchina da presa che si avvicina a lui come se fosse una soggettiva. Il cuoco alza lo sguardo verso l’obiettivo, e lo stacco successivo lascia la domanda aperta: cosa, o chi, stava guardando? La potenza del film sta nel farti sentire la presenza dell'assente/dell'interiore, nel farti immergere più che nella mente del protagonista nelle sue emozioni. Il farti percepire un'assenza di coordinate è il vero fulcro del film.
E infine anche la narrazione aiuta a farci entrare in questo mood. La mancanza di una linearità narrativa riesce ad unire il realistico con il delirante. Il tutto progredisce sempre di più fino ad un finale che non da risposte nette ma solo ulteriori domande spaesanti riuscendo quindi a creare un opera intelligente ma emotiva, stratificata ma impattante.
P.s. Guardando il film ho avuto varie idee su come leggere l'opera. Avviso che sono interpretazioni molto libere, possono ovviamente cambiare da spettatore a spettatore e essere considerate assurdità da taluni (come è normale e giusto che sia).

(Opinioni con spoiler):

Riusciamo a vedere Matsuoka nella sua dimensione "reale" solo nel finale, quando sente suonare il videocitofono da cui vediamo una luce che forse simboleggia proprio quel reale e quella verità che lo risveglia dal suo mondo interiore e dalle sue fissazioni. E si, tutto quello che abbiamo visto potrebbe essere stata semplicemente una sua proiezione mentale per superare dei lutti o delle scomparse/degli allontanamenti. Difatti il suicidio del suo studente e l'omicidio della studentessa nella sua proiezione mentale potrebbero simboleggiare la morte, in ordine, del figlio e della moglie. Come dice anche il nostro protagonista la cucina per lui è un posto dove toccando e assaggiando gli ingredienti si può trovare la pace, anche se ci sono oggetti pericolosi come coltelli. Quindi in qualche modo la cucina per lui è una zona franca, forse la sua stessa mente dove può essere felice e tranquillo ma dove ad una certa si intrufola la realtà. E quindi la morte/scomparsa della famiglia. Dovuta a cosa? Non ci è dato saperlo. Forse la stessa sorte che ha seguito lo studente è toccata pure al figlio: suicidio. Magari dovuto ad una mancanza di attenzioni del padre e un concentrarsi solo su se stesso.
Difatti durante il colloquio per diventare il cuoco di un ristorante (proiezione mentale nella quale punta al successo?) non fa che parlare di se stesso e il suo possibile datore di lavoro gli fa notare che non sta facendo altro che essere egoriferito. A quel punto gli chiede: invece di parlare di te mostrami, crea dei piani concreti. E Matsuoka non ci riesce, balbetta e ritorna a puntare i riflettori su se stesso. Magari anche questo suo ego è una delle ragioni che ha portato il disgregamento della famiglia.
La studentessa, e quindi anche la moglie in questa ricostruzione, viene uccisa quando non riesce a sezionare un pollo, a recidere simbolicamente con il proprio passato. Inoltre nel pollo ritrova un aspetto umano/reale, e proprio allora viene uccisa. È come se in quel momento avesse costretto anche il marito a confrontarsi con la realtà, distruggendo la sua illusione.
Però l'ultima inquadratura, con i ciliegi in fiore da sempre simbolo di brevità della vita ma anche di rinascita, forse in qualche modo ci indica un possibile lieto fine/una possibile presa di coscienza del protagonista? O la porta, chiusa dal protagonista mentre la macchina da presa resta all'esterno della sua abitazione, simboleggia una definitiva chiusura mentale nel suo mondo interiore? A ogni spettatore la propria teoria


RICCARDO SIMONCINI

TENDABERRY di Haley Elizabeth Anderson


Una metropoli effervescente, cinetica, convergente, che vuole sempre portarti e farti perdere al centro dell’universo, lontano dalla periferia e da tutto ciò che rappresenta. La ventenne Dakota vaga nell’arco temporale di quattro stagioni, in una Brooklyn post-pandemica mutevole e liminale dove le reali stagioni sembrano invece infinite nella città, altrettanto infinite ma impossibili per l’animo interiore. In All of Us Strangers Adam guardava fuori dalle imponenti vetrate di una Londra qualunque, in un’alba che era anche tramonto, un tempo che era inizio e fine nello stesso riparo, nella stessa galera chiamata casa. Qui invece si esce in strada, si cammina tanto a sfiorarsi in un unico respiro, con quella frenesia ansiogena che ad ogni angolo ti chiama e ti trascina via per una nuova avventura o sogno. Ma poi di fatto ti rimane ben poco.
Storie perse ed erranti, liquefatte in quella tempesta di immagini che ogni palazzo, cartello o ponte possono portare. Kota/Koda - come la chiamano (perché anche i nomi nella velocità di una corsa di tram sono contratti come le esistenze) - vive l’incertezza di cosa fare della sua vita, sincopata, frammentata, interrotta e mai finita. Tra autunno, inverno, primavera, estate, cambia tutto come dopo un pasto, neanche molto abbondante, si cambiano le posate. In mezzo alle amicizie scalfite dalla ruggine metropolitana, le sue treccine fluttuano nell’aria come la giostra dei calcinculo nell’ennesimo luna park. “Io con questo non c’entro nulla” dice la stessa “bambina carina e pungente” che molti anni prima era felice e spensierata nella Repubblica Dominicana.
Con la sua ipnotica opera prima Haley Elizabeth Anderson recupera la tradizione del cinema più indipendente americano, Larry Clark, Andrea Arnold ma soprattutto il Tangerine di Sean Baker, di quelle sex workers trans che vagano per una Los Angeles natalizia ma senza neve alla ricerca di un pappone-fidanzato traditore. Non esistono schemi, mappe, geografie esistenziali. Infinite dita di scrolling di distanza fino a poter vedere il planisfero intero. Un’America iperreale come dice Baudrillard. Una versione cresciuta e sbriciolata di Aftersun, di poesie in movimento inarrestabile, di archivi visivi a cui attingere moltiplicati, parole da leggere infinitesimali. Il racconto di una New York spaesante e disorientante è inframezzato da inserti di video-diario. Ma il tempo passa e ricicla tutto. Così le nostre immagini svaniranno prima ancora di noi stessi.
Ci siamo conosciuti come amanti, e dopo 5, 6, 10 anni non sapremo neanche di esserci incontrati. Quei video-diari sono invecchiati nell’esatto momento in cui si è finito di registrarli, i ricordi di una tappezzeria strappata di cui Brooklyn è perennemente affollata.
La macchina di Anderson esaspera nervosamente movimenti, distorsioni, percezioni, non sa dove posarsi in quel turbinio di dettagli. È la città stessa che fornisce il primo appunto sperimentale di un vagare senza forma, di sospensione anti-narrativa: la vita avviene senza direzione, senza eroi e risoluzioni. I nostri claustrofobici e compatti appartamenti su cui ci siamo permessi con arroganza di appiccicare il nostro nome saranno presto demoliti per diventare altissimi condomini e centri commerciali.
Maledetto caos, benedetta armonia.


FRANCO CAPPUCCIO

LÀZARO AT NIGHT di Nicolás Pereda


Lázaro at Night di Nicolas Pereda sonda i parametri della creazione artistica. Questa non è una linea d’indagine completamente nuova per il regista messicano-canadese (il suo film del 2020 Fauna è una divertente decostruzione dei cliché della cultura pop relativi al narcotraffico), tuttavia Lázaro si erge per i suoi innovativi - seppur ancora più scivolosi - strati di autoriflessività. Di nuovo alle prese con un budget stringatissimo con la sua troupe di attori abituali, Pereda inizia nella Città del Messico contemporanea, dove numerosi fili vengono attraversati e le identità mescolate. Dove inizia e finisce un personaggio (o una performance)? Che autonomia abbiamo, se ne abbiamo, sulle nostre identità? Le questioni esistenziali sono trattate con umorismo asciutto e pause imbarazzanti tipiche del recente lavoro del regista, e i suoi attori espandono delle messinscene apparentemente semplici attraverso un linguaggio corporeo espressivo. Per Pereda, ci sono echi di altri lavori ed identità contenute nei gesti più essenziali - sorseggiare, mangiare, lavare i piatti - che il suo cinema di déjà vu e sogni lucidi ci permette di comprendere.


MARCO MACCHINI

HUMANIST VAMPIRE SEEKING CONSENTING SUICIDAL PERSON di Ariane Louis-Seize


C’è qualcosa di terribilmente tenero in una vampira incapace di uccidere. Specialmente in giorni come questi dove il vampiro più chiacchierato è un tamarro palestrato, col baffo da hipster e una parlata fin troppo macchiettistica. Sasha è una giovane vampira, ma è troppo buona e sensibile per riuscire ad ammazzare qualcuno. Caratteristiche senza dubbio lodevoli, che diventano però problematica concreta quando la tua unica forma di nutrimento è rappresentata dal sangue umano. Sasha è motivo di preoccupazione per i suoi famigliari (tutti vampiri), costretti a sfamarla con sacche di sangue, dotate di apposita cannuccia, ricavate dalle loro vittime. Quando questi decidono di chiudere il rubinetto del sangue, Sasha si trova nei guai. La soluzione? Trasformare questo spiacevole impasse in una situazione win-win, trovando un aspirante suicida ben contento di farsi scannare. Sarà così che avverrà l’incontro con Paul, ragazzo solo, emarginato e con una torbida fascinazione per la morte. In un coinvolgente viaggio notturno, parecchio cool e sufficientemente dark, i due impareranno a scoprirsi e a conoscere meglio sé stessi e gli ostacoli della vita. Humanist Vampire Seeking Consenting Suicidal Person riesce a toccare molti nervi scoperti di giovani e meno giovani come la solitudine, il sentirsi perennemente inadeguati e l’incapacità di soddisfare le aspettative famigliari. Lo fa attraverso una narrazione guidata da uno sguardo sensibile e divertente, mai banale o troppo smielato. Insomma, tutto molto bello. Ma non ero troppo vecchio per i coming of age?


RICCARDO SIMONCINI

SISTER MIDNIGHT di Karan Kandhari


Un imbarazzante matrimonio combinato nei sobborghi di Mumbai. Un neo-marito inetto incapace di dire di no (nemmeno all’alcol), rifiutato da tutte le ragazze del paese, e una neo-moglie che ne è l’esatto opposto (e per questo considerata pazza dalla gente): forte, impavida, carica forse di tutto quello che un intero genere ha dovuto subire nel corso della Storia dell’umanità. Si contano i giorni passati senza che quel matrimonio viva del suo processo fisiologico, senza neanche conoscersi, senza che il marito si comporti come tale, tra le primissime esilaranti e silenziose scene di attese che sembrano appartenere alla migliore tradizione di cinema muto. “Non ho mai incontrato una donna così volgare” la rimprovera lui. Lei, dietro quel nervosismo aggressivo, vorrebbe una vita normale, paritaria e appagante, quella che il deludente matrimonio avrebbe dovuto garantire. Invece le cicatrici del passato si riverberano con urgenza in una rabbia viscerale ed esasperata, nell’irrequietezza facciale di un volto assetato di vendetta che non riesce a stare fermo, si corruga, si distende, con gli occhi spalancati si inferocisce imbarazzato ad ogni fotogramma. Così Radhika Apte, l’indimenticabile protagonista Uma, offre un’interpretazione mimica e mimetica vicinissima a Buster Keaton e Toshirō Mifune, un compendio di divertentissime espressioni disarticolate e impazienti.
In realtà questa è solo la premessa per un film che scombina tutte le carte e i generi, una squilibrata commedia punk - come recita la sinossi - che si reinventa più e più volte senza mai annoiare. Con continui colpi di scena, imprevisti, assurdità e improbabili rimedi Uma affronta il “suono della frustrazione” mutando e tramutando in una versione destrutturata e vitalistica del classico vampiro, alla ricerca di un sangue che la renda viva dall’interno, che la faccia sentire di nuovo reale. Un esordio indiano ma di produzione inglese che tanto infatti guarda ad Occidente nel ritmo e nello stile, dall’indimenticabile colonna sonora pop-rock fino ai jump cuts che in montaggio suddividono tutto in spassosissime vignette umoristiche. Ricorda tanto di quel modo ormai iconico di Wes Anderson (più ancora dei colori pastello e della geometria compositiva) di costruire l’ironia per situazioni e gesti esagerati ed enfatizzati, con movimenti di macchina in asse ed effetti speciali in stop motion, ma anche di quello humor disilluso alla Kaurismaki, semplice ma assurdamente esistenziale.
Sister Midnight lancia un grido di libertà al di fuori di ogni regola, convenzione, morale e contratto, nel cinema come nei personaggi, per sostituirlo con un linguaggio spregiudicato che non teme nulla e nessuno, tantomeno gli uomini.
Nel cielo notturno le nuvole hanno inghiottito le stelle. Ma ora è tornata la luna.
Sister Midnight è destinato a diventare un cult.


FRANCO CAPPUCCIO

BLUISH di Lilith Kraxner e Milena Czernovsky


L’opera seconda di finzione di Lilith Kraxner e Milena Czernovsky segue due giovani donne senza nome - una studentessa universitaria e un’artista - appena dopo gli anni della loro adolescenza, che sembrano imparare nuovamente i ritmi della connessione sociale e del vivere urbano, dopo una pausa che non è mai spiegata ma che evoca vividamente la pandemia. Il desiderio ribolle dietro il comportamento placido della studentessa mentre con cautela esplora le opportunità per il contatto che sono prevalenti negli spazi pubblici, dal fare gli occhi dolci ad un bambino in una sala d’attesa all’appoggiare la testa sulla spalla di uno sconosciuto su un bus. Persino il tocco clinico di un dottore viene incorniciato come qualcosa di prezioso. Più avanti, l’altra protagonista del film, una nuova arrivata a Vienna, zigzaga su un marciapiede, i suoi occhi incollati al telefono, la sua piccola danza facilmente riconoscibile come quella di un pedone che segue le direzioni su una mappa GPS. Per tutti gli effetti intorpidenti dell’uso perpetuo del cellulare, il nostro comportamento digitale è semplicemente troppo umano. bluish si interroga sulle possibilità per lo stare insieme in un’età in cui l’esistenza collettiva spesso viene sentita appena fuori portata.