10.12.19

Recensione: "Selfie" 2019 - Agostino Ferrente - BuioDoc 44


Ferrente, dopo il già bellissimo Le Cose Belle, gira un altro documentario nella sua Napoli.
Anzi, no, lui non gira niente, si limita a dare un cellulare in mano ai suoi protagonisti e lasciargli carta bianca.
Ne nasce un film che è un incredibile montaggio di "selfie mobili", di immagini in movimento riprendendo sè stessi.
Due ragazzi, qualche sogno che forse non si avvererà, tante difficoltà, tanta ironia.
Sullo sfondo l'omicidio di Davide Bifolco, un loro coetaneo sparato alle spalle da un carabiniere che lo scambiò per un latitante.
Regia assente (o presente nel solo montaggio), è la vita che accade.
Si ride, ci si incazza, a volte ci si annoia pure, ci si emoziona.

Avevo già visto il precedente film di Agostino Ferrente, Le Cose Belle.
Anzi, avevo pure contattato Agostino per portare il suo film (compreso il suo "dopofilm", non posso dire in che senso) a Perugia.
Fatto sta però che Agostino in quei mesi era in dolce attesa (perchè mica solo chi li porta in grembo lo è...) e quindi ci perdemmo.
Lo ritrovo adesso con questo nuovo film, anzi, documentario, come tutti i lavori di Ferrente.


Siamo ancora a Napoli e si parla ancora di giovani, di difficoltà, di traumi e di sogni.
Se ne Le Cose Belle (credo che ad un certo punto Ferrente, volontariamente o no, fa citare il titolo del suo vecchio film ai due ragazzi protagonisti di Selfie, in quel bellissimo dialogo su cose brutte e cose belle), dicevo, se ne Le Cose Belle c'erano due temporalità - i sogni da bambini, la realtà da adulti, in un esperimento alla Boyhood in due atti - in Selfie la particolarità è un'altra, talmente "strana" da rendere questo piccolo film quasi unico.
Non è tanto l'esser stato girato tutto con un telefonino, ma il fatto che queste riprese siano state interamente realizzate dai protagonisti del film, a mò, vedi titolo, di selfie.
Quindi cellulare in mano, inquadratura su sè stessi e si gira.
Tutto è così radicale che potremmo quasi definire Selfie un film apparentemente (solo apparentemente) senza regia, una specie di autogestione degli attori.
La mano di Ferrente si vede, ovviamente, ma è rintracciabile quasi interamente nel montaggio di tutto il girato fatto dai ragazzi.
E lì, nel montaggio, la regia di Selfie, la "visione", il ritmo, le scelte.
Tutto prende spunto dall'omicidio di Davide Bifolco, un 16enne ucciso in motorino da un poliziotto (che gli ha sparato alle spalle) perchè scambiato per un latitante.
I nostri due protagonisti erano suoi amici, praticamente coetanei.
Da questa premessa parte un film che è, semplicemente, il racconto della vita di Alessandro e Pietro, uno magro e lavoratore (in un bar), l'altro praticamente obeso e al momento senza una strada, nè scuola nè lavoro.
Lo scenario è difficile, famiglie praticamente inesistenti (non si riesce a capire - o magari non sono stato attento io - dove siano, sempre se ci siano ancora, i genitori dei due ragazzi), vita di espedienti, contesto socio-culturale di bassissimo livello (anche se in una scena da pelle d'oca Alessandro cita L'Infinito di Leopardi traslandolo alla sua realtà), alcune amicizie di dubbio gusto. E poi sigarette su sigarette su sigarette in un film in cui tutti, ma proprio tutti - compresi i due bambini di 11 anni - fumano.
Non si vede un futuro.
I sogni, come in Le Cose Belle, ci sono, sogni perlopiù lavorativi, ma la sensazione di un'esistenza vissuta alla giornata è forte.
Ferrente, lo dice esplicitamente nel film, ha fatto un casting di 16enni, e da lì scelto quelli che riteneva i ragazzi più interessanti. Restano però nel montaggio anche altri personaggi di cui vediamo solo il casting o poco altro, a suggerire un'idea di work in progress anarchico, quello che in realtà Selfie è.
C'è Sara che racconta dell'amore, di come probabilmente se amasse qualcuno lo aspetterebbe anche dopo 20 anni di galera (perchè si dà per scontato che un tuo compagno prima o poi ci finisca), ci sono i due bambini che pensano solo al fumo (straordinario, quasi Alleniano, il dialogo con Ferrente:
"Mi promettere che se vi sceglierò per il film smettete di fumare?"
"Sì, va bene, ma intanto dacci una sigaretta."
"No, perchè vi ho già scelto"),
ci sono Alessandro e Pietro nudi in spiaggia, anzi no, sono nelle sedie di un bar (davvero esilarante), c'è Pietro che imita i camorristi ma invece di ascoltare musica neomelodica mette su la Classica (e che bello che quel brano da diegetico continui poi fuori diegesi per diversi minuti), c'è l'incontro a casa del padre di Davide Bifolco, c'è il funerale di Davide, c'è la drammatica chiamata al 118 di quella notte.


Alle immagini in selfie dei due ragazzi si alternano altre ci circuiti chiusi su luoghi desolati.
La sensazione che lo spettatore ha è di divertimento, poi di malinconia, poi di rabbia, poi a volte pure di commozione (mai urlata, sempre sussurrata), poi ancora risa e poi ancora occhi lucidi.
Come in quasi tutti i documentari "lunghi" non mancano momenti di calo d'attenzione, di stanchezza del ripetersi, ma Selfie saprà sempre riprendersi e catturarci di nuovo.
Il film diventa un piccolo miracolo, la dimostrazione di come quasi sempre la vita, di per sè, sia già cinema, anche senza andare a ricercarne i momenti più significativi.
Da apprezzare il concept di Ferrente, questo suo "nascondersi" in favore del soggetto, di ciò che vuole mostrare.
I due ragazzi si sentono veramente registi, parlano più volte di "film", organizzano "scene" che alla fine scene non sono mai, solo spezzoni di vita, anche i più banali.
Gli si vuole bene, come si vuole bene alla fine a tutti gli adolescenti che oltre all'oggi non possono pensare a nulla, senza un futuro, senza certezze, senza serenità.
Forse l'unico intervento cinematografico è in quel racconto dell'incubo di Alessandro, in quel motorino che va indietro invece che avanti.
Poi si torna alla realtà, alla lettera di compleanno scritta da Alessandro a Pietro (divertente e profonda insieme) e a quell'ultimo selfie, che più che selfie è un videomessaggio, che più che videomessaggio è ricerca e grido d'aiuto, un modo di parlarsi.
"Guarda babbo, sono un regista"
Magari, in futuro, questa diventerà la sua cosa bella

2 commenti:

  1. 1/2

    Che strano che non ci siano commenti a un film come "Selfie". Allora rompo io il ghiaccio, e lo faccio riportando la recensione che ho scritto per FilmAmo (alla fine lascio anche il link). Spero di fare bene a condividere anche qui le recensioni che scrivo sul "nostro" sito, dato che finora ho fatto soprattutto il contrario.

    Un abbraccio, Giuse, e grazie ancora per avermi coinvolto in questo splendido progetto e per tutto lo spazio che mi concedi qui sul Buio :)


    "Possibile infinito"
    Le prime tre parole pronunciate in Selfie racchiudono l’intero film.
    Tutto il mondo che racconta. Tutti i mondi che abitano quel mondo.
    Che poi si assomigliano tutti, e ognuno è assoluto e irripetibile.
    Perché sono come le famiglie infelici di Tolstoj: ognuno dei ragazzi che qui si racconta è a suo modo perduto. Eppure sono tutti così simili. Stessi capelli, stessi discorsi, stesso futuro. E il medesimo sguardo, rivolto verso un orizzonte che sanguina continuamente. Non è il rosso del tramonto che colora il cielo, nelle sere d’inverno e d’estate. È il rosso del sangue dei sogni che non sono mai sbocciati.
    Perché sei un bambino di dieci anni e tutto quello che vuoi è una sigaretta.
    Perché sei una ragazza di sedici anni e sai già che sarai madre e moglie di un uomo che andrà in galera, forse a vita.
    Perché tuo padre non si sa dove sia.
    Perché hai visto un tuo amico morto ammazzato.
    Perché con la droga i soldi arrivano “facili”.
    Perché abiti nel rione Traiano di Napoli.

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    1. 2/2

      A volte passo da quelle parti. Voglio dire, non puoi ritrovartici per caso: devi andarci di proposito. Ma a volte mi capita di dover attraversare quelle strade, perché sono diretto altrove, per esempio, e da lì si fa prima. Ecco, quei volti, quei colori, quel sangue nel cielo, io l’ho visto. E non soltanto lì. Selfie restituisce in maniera impeccabile certe sfumature esistenziali. Un film che ha alcuni momenti che ricordano quasi l’inchiesta etnografica. E ha dentro il cuore selvaggio e violento della prospettiva poetica. E il senso di tutto ciò, secondo me, è racchiuso nelle prime tre parole pronunciate nel film.

      “Parla della morte”.

      È così che dice Pietro. Lui si riferisce evidentemente alla musica che sta per ascoltare. Ma Selfie parla di morte. E non soltanto quella di Davide Bifolco, sedicenne morto per mano di un carabiniere che lo aveva scambiato per un latitante. La morte raccontata da Selfie è quella dei sogni, morti per asfissia. La morte del futuro, morto per dissoluzione dell’anima. La morte della speranza, dilaniata dalla rassegnazione, azzannata al collo dal demone della rinuncia, dalla sconfitta, dell’addio al possibile infinito.

      [Dunque cos’è Selfie?
      È la storia di Alessandro e Pietro, due sedicenni che non vanno più a scuola, il primo lavora come “barrista”, mentre il secondo – obeso – non riesce a trovare lavoro come barbiere.

      Dove ci porta Selfie?
      In alcuni angoli del cuore di questi due ragazzi. E negli angoli del rione Traiano, nei volti dei suoi abitanti, nei palpiti del cuore di ragazzi, ragazze, bambini e uomini che cercano di sopravvivere, come facciamo tutti, del resto. Come fa soltanto chi non può permettersi il lusso di fermarsi.

      Vabbuò, ma quindi di che cosa parla Selfie?
      Parla della morte]

      E parlare di morte vuol dire celebrare la vita.
      Vuol dire parlare d’amore e di speranza.
      Significa entrare nel tramonto e sporcarsi di sangue.
      Perché non c’è Thanatos senza Eros.
      E quindi questi stessi identici volti unici sono come le stelle di Confucio: buchi da cui filtra la luce dell’infinito.

      Eccolo che ritorna, l’infinito.
      A un certo punto Alessandro cita la meravigliosa poesia di Leopardi, tracciando quasi un parallelo con la realtà nella quale è nato e cresciuto, dove vive e lavora, e dalla quale dà per scontato di non poter mai andare via. E forse è per questo che ci tiene a raccontare nel “suo” film soltanto le cose belle.

      L’infinito di Leopardi è un manifesto poetico di immane potenza. Celebra l’assenza, che è e resta il luogo prediletto in cui sorge la poesia (Brodskij lo chiamerebbe il "vuoto", la Merini il "nulla"). Il poeta di Recanati, cioè, proclamava – come farà qualche tempo dopo Baudelaire, per esempio – l’escludere e il togliere come fonte del procedimento poetico. Perché fare poesia vuol dire scolpire: togliere il superfluo, eliminare l’inutile. Fare poesia è un’operazione di sottrazione, che è l’unico modo per elevare a potenza. Ed è la stessa sottrazione che vorrebbe fare Alessandro: eliminare quel muro che lo separa dal resto del mondo, dal resto di sé stesso. Perché è al di là del colle che si può naufragare nell’oceano sconfinato del proprio cuore.

      Parla della morte, Selfie, perché è una storia d’amore.
      Quella di due ragazzi che sono innamorati della vita.
      Ma lei, però, ama un altro.


      https://www.filmamo.it/scheda/selfie-2019#recensione-302

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