1.3.21

Recensione: "Paterson" - Passeggiate, il cinema della poesia - 14 - di Roberto Flauto

 

Quattordicesimo appuntamento con Roberto e le sue recensioni "poetiche" su film che lo hanno emozionato.
Stavolta è lo stesso film che racconta in qualche modo di poesia e di un poeta, il Paterson che dà titolo al film (interpretato da Adam Driver, attore magnifico).
Anche questo qua non l'ho visto mannaggia (anzi, a dir la verità di Jarmusch ho visto solo due film...), quindi non posso leggere, lascio il piacere a voi.
----------------------------------------------------------------------------------------

Dissolvenza in blu.
La celebrazione dell’istante.
Una lunga serie di pomeriggi sotto un calicanto.
La bellezza spesso si trova nelle grandissime cose.


Che cos’è Paterson?
(Questo film segue semplicemente la vita di Paterson, un conducente di autobus che vive in una cittadina con lo stesso nome. Lui ama scrivere poesie. Lo seguiamo ogni giorno per una settimana della sua vita. È tutto).
Il fatto è che questo film – dal ritmo estremamente lento, a tratti deliberatamente banale, sostanzialmente sconclusionato e inconcludente, imperfetto, manchevole, prevedibile, fuori posto, pervaso da una involontaria e opaca eco di ardire filosofico, continuamente in bilico tra l’abisso del niente-di-nuovo e quello del del-tutto-nuovo – è in realtà un film da non perdere, che adoro malgrado e grazie a ogni sua insensata delicatezza.
È un film che parla di poesia, ovvero uno dei temi più difficili al mondo, qualcosa che è sulla bocca di tutti ma nei polmoni di pochi.
Paterson è significativo, necessario, importante.
Perché si articola intorno a una delle domande fondamentali della vita:
preferiresti essere un mulo?

Non accade niente che non sia tutto.
Lunedi. Paterson apre gli occhi, una specie di sveglia silenziosa e immaginaria suona nella sua testa, tra le sei e dieci e le sei e mezza, ogni mattina. Bacia e abbraccia Laura, la sua ragazza, che dorme accanto a lui. Accarezza Marvin, il loro cane. Fa colazione. Cammina fino alla stazione dei bus. Si siede al posto di guida e, tirato fuori il suo fedele taccuino, annota dei versi, compone qualche strofa: è la sua quotidiana dose di poesia. Arriva il collega che si lamenta dei mille problemi della vita. Poi il bus parte, e Paterson – che vive a Paterson e che guida un bus chiamato “23-Paterson” – ascolta i discorsi dei passeggeri, affacciandosi in ogni vita possibile. Pausa pranzo. Consuma il suo pasto (nella sua lunchbox fanno capolino una foto della sua ragazza e un ritratto di Dante), scrive altri versi, continua la sua poesia. Torna a casa. Sul vialetto di ingresso riposiziona la cassetta delle lettere che pende da un lato. Cena con la sua Laura. Poi esce a passeggiare con Marvin. Si ferma al solito bar per la solita birra. Torna a casa, è notte, si infila a letto, abbraccia Laura. Il giorno finisce.

E poi di nuovo. Martedì. Sveglia, bacio, colazione, bus, poesia, collega, parole, pranzo, mi piace molto come hai dipinto le tende, cena, passeggiata, bar. E poi di nuovo. Alba, carezza, colazione, camminare, poesia, quante storie custodite nei volti del mondo, cane, birra, notte. E ancora. Luce, sorriso, taccuino, passeggeri, Laura, Marvin, pancake, chitarra, e la pioggia si ferma e mi fermo anche io. E mercoledì e giovedì e ancora e ancora e la bellezza del gesto.

Mi sveglio, sento il suo respiro sulla mia schiena, mi alzo e faccio colazione, devo ricordarmi di fare le fotocopie del taccuino, sì te l’ho promesso le farò questo weekend, l’aria è tiepida e sa di profondità oceaniche, cammino e osservo chiunque, compongo versi, mi siedo, scrivo, accendo il motore, la poesia è un fiore che sboccia dentro un temporale, ascolto i discorsi delle persone, il pomeriggio arriva senza avvertire, il vialetto di casa mia, ma perché questa cassetta delle lettere pende sempre da un lato?, la sistemo, ascolto i sogni della mia ragazza, il suo entusiasmo è un fiume in piena, c’è odore di dolci, le tende colorate, mi chiede oggi cosa ho scritto, ceniamo mentre il tramonto ci attraversa, esco con il nostro cane, mi siedo al bar, la vita scorre, bevo la mia birra, torno a casa, mi infilo nel letto accanto a lei, sento il suo respiro sul mio naso, mi addormento.


Chi è Paterson?
(E chi è il poeta?)
Può un film che non dice nulla parlare di ogni cosa, dell’unica cosa?
Quante domande: quanti demoni.
Il demone che fa più paura è tanto antico quanto affamato, si chiama «chi sei?».
Chi sei, Paterson?
Dove non stai andando?
In questo film non accade praticamente niente di niente, o forse accade proprio il niente di niente.
Qualcosa di stupefacente, meraviglioso e terribile.
Esattamente come la poesia.
Il luogo preferito di Paterson. E quindi la domanda ritorna: chi sei?
(E perché i poeti? – come si chiede Heidegger).
Può un film senza storia, che non ti racconta niente, parlare di te?
Il fatto è che questo film – dal ritmo ripetitivo e circolare, a tratti banalmente dolce, inconcludentemente sostanziale, semplice, complesso, sorprendente, fuori piove, pervaso da una costante e malinconica inquietudine, continuamente in bilico tra l’oceano del non-è-successo-niente e quello del questo-sono-io – è in realtà un film assolutamente da non perdere, che adoro nonostante e a causa di ogni sua delicata insensatezza.
È un film che parla dell’essere poeti, ovvero un qualcosa che chiunque suppone o crede di poter essere, ma che appartiene soltanto ad alcuni.
Paterson è significativo, essenziale, profondo.
Perché in qualche modo ci costringe a chiederci:
preferiresti essere un maiale?

(Sembra tutto bellissimo. E lo è. Allora perché ho sentito un graffio di inquietudine durante tutto il film? Perché ho sempre avvertito un’ondata di malinconia, una vena di tristezza?)

Paterson, piccola cittadina del New Jersey.
Case basse, stradine ordinate, tipiche della provincia americana.
Una cascata, un ponte, una panchina.
Paterson, nato e cresciuto a Paterson. Lui e la dolcissima Laura; lui e l’adorabile Marvin; lui e le sue passeggiate; lui e la sua poesia. Variazioni minime, praticamente inesistenti. In questo film non accade nulla, ma tutto. Del resto, l’invisibile è essenziale agli occhi. E alle orecchie, alla bocca, ai polmoni, alle mani. L’effimero, l’inesprimibile, l’indomito, l’ineffabile: gli ingredienti della poesia. Queste cose in Paterson (film), in Paterson (città) e in Paterson (lui) ci sono tutte.
C’è l’effimera infinità delle “piccole cose”. Di un sorriso totale, autentico, sincero, accennato, che attraversa i muri. Di una pagina bianca che sparisce colpita dall’inchiostro assassino. Di una passeggiata senza fissa dimora.
C’è l’inesprimibile dell’amore a forma di torta, o di fuoco che si avvicina, o di mattina presto. Dell’andarsene così. Del lasciarsi essere e diventarsi.
C’è l’indomito, l’irrefrenabile della poesia che (in)sorge, violenta e distruttrice come solo lei sa essere. Della frammentazione dell’attimo, dell’attesa lacerante della rima, che ogni volta fa una promessa diversa.
C’è l’ineffabile, che è tutto questo tutto insieme. Paterson al cubo. Film, città, lui. L’uno dentro l’altro dentro ognuno di poi: perché la poesia è il divenire.
È per questo che Paterson è un film intriso di una sottile ma pervasiva tristezza, una malinconia di fondo, quasi un senso di angoscia (e il viso di Adam Driver – a proposito: Driver, ovvero autista – lo esprime benissimo).

C’è la costante sensazione che nulla abbia davvero senso, che sia tutto un palliativo, tutto un gioco in attesa della morte. Paterson è un poeta (lo è davvero?) e il suo mondo, la sua vita, i suoi giorni, hanno tutti una natura circolare, in cui il tempo sembra non esistere. E una vita senza tempo non è possibile, non ha vita: perché ha rinunciato a una direzione, qualunque essa sia. Paterson non sta andando da nessuna parte. Ha rinunciato alla vita. Non esiste. Scrive poesie come una ragazzina di dieci anni. Anche l’amore sembra non avere direzione (e quindi senso), perché non porta la felicità (la rima non ha mantenuto la promessa). Non è amore, ma un continuo arrendersi. E quindi si finisce per compensare la propria solitudine interiore con l’entusiasmo infantile e sognatore di lei. Barattare i propri personali gusti per la torta ai cavoletti di Bruxelles. Convivere con un cane che non si sopporta per far felice lei («I don’t like you, Marvin»). Accettare l’idea folle di un futuro insieme, di colorare casa, di costruire una famiglia, di andare a lavoro, uscire di casa per passeggiare, scrivere versi che resteranno prigionieri di un taccuino anonimo. Svegliarsi ogni mattina facendo finta che ci sia uno scopo. Mentendo a te stesso, a lei, al tuo taccuino. E poi, continuamente, fare l’equilibrista: stare attenti, fare bene i conti, limitare qui per aggiungere lì, sfumare questo per colmare quello. Per far quadrare il cerchio, tutti i cerchi. Come quelli che Laura dipinge sulle tende.
Perché Paterson è l’uomo che si è arreso alla vita.
Questo amore assomiglia al deserto.
Non riesco a respirare.
Sono un pesce.

Però ha ragione l’uomo nel bar: «senza amore, avrebbe senso qualcosa?».
Perché non è finita qui. Perché non è così semplice. Perché ogni meraviglia, in quanto tale, contiene in sé il seme della sua estinzione. Perché, come direbbe Kobayashi Issa, ogni poesia contiene un eppure.

Eppure Paterson è un poeta (lo è davvero) e il suo mondo, la sua vita, i suoi giorni, hanno tutti una natura in divenire, senza tempo ma con tutti i temporali. Una vita dove tutto accade, ma per davvero. Dove i minuti vengono vissuti e non solo attesa dei successivi, dove il tempo è soprattutto tempio: altare sul quale celebrare l’esistenza. Allora, nell’oscurità della selva, ecco che emerge un sentiero, la direzione che ognuno cerca: la strada che guida verso casa. Dove c’è odore di biscotti e di mattine in piena notte, perché Paterson è l’uomo che celebra la vita in ogni momento. Scrive poesie come un poeta di dieci anni. Anche l’amore sembra essere l’unico senso (e quindi direzione), perché è porta della felicità (si compie la promessa della rima). Non c’è sconfitta, nessun fallimento, ma un continuo rendersi. E quindi si finisce per cominciare a nascere: il tuo cuore che batte nel mio petto: tu mi completi. Perché non è il sapere a rendere liberi, ma il sapore: quello del suo respiro, dei suoi baci, della sua pelle, della sua torta, anche se ha quei cazzo di cavoletti di Bruxelles. Non vorrei essere da nessun’altra parte. Sorridere e dare un senso al rapporto con Marvin: amiamo la stessa persona. Accettare l’idea folle di un futuro insieme, di edificare una casa nel vento con i nostri fiammiferi indistruttibili, di costruire la nostra famiglia, di tornare a casa dal lavoro e trovare i tuoi sogni sulle pareti, sulle tende, nel forno, sulle tue dita che non vedono l’ora di accarezzarmi. Svegliarsi ogni mattina facendo finta che non ci sia uno scopo. Dicendo a te stesso, a lei, al tuo taccuino «questo sono io». E poi, continuamente, fare il poeta: stare a tanti, eccedere con precisione, naufragare qua per inondare là, colorare questo per sbocciare quello. Per far esplodere il tuo sogno, tutti i sogni. Come quelli che Laura dipinge sui tuoi occhi appena ti svegli.
Perché Paterson è l’uomo che vive ogni vita.
Questo amore assomiglia all’oceano.
Non mi serve respirare.
Sono un pesce.


Vorrei dire tante cose.
Penso alla poesia, all’essere poeta.
Penso alle “piccole cose” che piccole non sono affatto.
Innamorarsi a ogni risveglio è una cosa enorme, difficilissima. Essere veri e provare a rivelarsi, a essere e lasciarsi essere, anche questo è qualcosa di grandissimo, probabilmente l’impresa più ardua che un umano è chiamato a fare. La stessa frase (lo stesso demone) che ha permesso alla nostra specie di sbocciare è la stessa che ci annienta e fiorisce ancora oggi, ogni giorno, a ogni livello.
«Questo sono io».

Penso al fatto che siamo esseri duali. Siamo poesia e prosa, amore e morte, razionalità e follia, bianco e nero, come i cerchi di Laura sulle tende, come i gemelli, metafora duale che percorre tutto il film. Penso al fatto che siamo armonie di opposti, conteniamo la scintilla creatrice e l’estinzione, siamo esseri che corteggiano l’infinito, capaci di far danzare le stelle, e che annientano la bellezza, capaci di far abortire lo splendore.
Tutto questo, tutto insieme.
Come Paterson. Che è l’uomo che non vive, perché si è arreso.
Come Paterson. Che è l’uomo che vive, perché si è acceso.

Penso alle contraddizioni che siamo.
La tentazione del silenzio e la necessità del canto.
La voglia di fermarsi e il bisogno di proseguire.
Perché la verità è che siamo Orfeo nell’attimo in cui sta per voltarsi.
È esattamente questo il momento in cui sorge la poesia.

Penso alla ripetizione e all’immobilità di Paterson (sia lui sia il film).
Se la prima, la ripetizione (non ho detto ripetitività) è uno degli elementi fondamentali della poesia, la seconda, l’immobilità, non le appartiene affatto. Perché la stasi è una prerogativa divina, non appartiene a noi, esseri imperfetti, non appartiene alla poesia, che è la natura della nostra specie, l’unica dimensione esistenziale possibile, che contiene e definisce il cosmo intero.
Paterson celebra la poesia della vita quotidiana, ma io e lui, io e Jarmusch, seppure condividiamo alcuni importanti elementi, abbiamo visioni differenti a proposito di poesia (ammesso che esista una visione “giusta”), per esempio a proposito della traduzione e della traducibilità («la poesia in traduzione è come fare la doccia con l’impermeabile» diranno alla fine, ma non è così). Così come abbiamo visioni decisamente opposte riguardo alla “tecnologia”: Paterson non usa computer né altro, non ha nemmeno un telefono («il cellulare è un guinzaglio»), ha soltanto il suo fedele taccuino, carta e inchiostro, e va benissimo così. Ma, ancora una volta, eppure. Jarmusch non sopporta la “tecnologia” (uso le virgolette perché è un concetto – esattamente come quello di “poesia” o anche come quello di “natura” – oltremodo abusato e misconosciuto) e lo fa dire espressamente a Paterson, cercando di far passare, non so quanto volutamente, l’idea secondo la quale la poesia sia qualcosa di “puro”, sognante, lieve, dolce, custode della bellezza minacciata dal mostro tecnologico (certo, per fortuna qui non si tocca la retorica de I morti non muoiono), ma la poesia è altro, soprattutto altro: è l’unico modo che homo sapiens ha di essere sé stesso. E quindi è (anche, forse soprattutto) impurità, incubo, violenza, ossessione, semplice (complessa) espressione del nostro stare al mondo.
La poesia è la cosa più umana che ci sia.

Penso che in questo film in cui non accade niente, c’è un solo vero evento significativo, un solo vero gesto.
A Paterson (città) il tempo non esiste, appare sospeso (ecco, la sospensione, come e più della ripetizione, è un altro tratto distintivo del fare poetico) e niente sembra compiersi: l’uomo al bar si presenta con una pistola, può compiere una strage (per amore, of course) ma è un’arma giocattolo. I due uomini sul bus: entrambi raccontano di aver incontrato una ragazza bellissima, che addirittura gli si vuole concedere, ma declinano, rinunciano, perché «mi sarei dovuto alzare presto la mattina dopo». I ragazzi in auto, quelli che sembrano dei bulli, che gli si avvicinano di notte, neanche loro adempiono alla “promessa”, anzi gli dicono di stare attento al cane e vanno via. Non si compie niente. Non c’è rima. Eppure (eppure) Paterson è pater-son: padre e figlio. Quindi c’è genesi, qualcosa nasce. Ma dove? Come? In che modo? E perché la cassetta delle lettere è sempre inclinata?
In Paterson (lui) c’è immobilità, è vero, c’è smarrimento, forse (perché devi sapere dove stai andando per poterti perdere), ma ci sono anche la capacità di osservare e osservarsi, di astrarsi dal fluire tranquillo del così-è per entrare nel flusso caotico del così-potrebbe-essere. Orfeo sta per voltarsi. La poesia si compie. Qualcosa di straordinario emette un vagito.
Ecco allora che trova un senso (o forse glielo trovo io) quel costante senso di malinconia, di angoscia e tristezza: perché non si può che nascere soffrendo, sporchi di sangue, bagnati dalle lacrime. Però poi la pioggia si ferma e mi fermo anche io. Il fiore sboccia dentro il temporale.
Perché poi arriva, in questo film in cui non accade niente, il vero evento significativo, il solo vero gesto: Marvin distrugge il taccuino.
Così. È un sabato sera, Paterson e Laura vanno al cinema, quando rientrano trovano brandelli di poesia ovunque. E no, le fotocopie non le aveva più fatte.
Adoro Marvin. Adoro la poesia.
Distruzione creativa, ecco che cos’è.

Io vedo in Marvin la sintesi perfetta tra l’esuberante vitalità di Laura e la serafica dolcezza di Paterson. Lei e i suoi sogni quotidiani (dipinge pareti, tende, abiti; suona la chitarra senza saperla suonare; «diventeremo ricchi con i pancake!»), lui e la sua poesia di dettagli, le sue passeggiate, la sua circolare quotidianità. Lei che vuole essere tutto e sogna senza sosta, e lui che pare accontentarsi di tutto e sogna senza forza. Lei che però non esce mai di casa e lui che non esce mai da sé stesso. Questo amore è oceano, sì, con tutti gli eppure, tutti progetti e tutti i biscotti del mondo. Marvin, è lui che sposta, ogni giorno, la cassetta delle lettere. Proprio così: esce di corsa sul vialetto e va a inclinarla, poi torna in casa, osserva e aspetta. E Paterson, quando rientra, ogni giorno, si ferma un attimo, si guarda intorno, tentenna qualche istante, poi la rimette a posto. Che cosa vuol dire? Non lo so, credo che tutte le cose che ho detto abbiano senso solo per me, temo di averle viste soltanto io. Marvin sposta l’equilibrio, ecco, costringe all’azione, mette in scena, mantiene la promessa, a prescindere da ogni rima. Perché i brandelli di poesia sparsi sul tappeto sono i semi dai quali sbocceranno, come direbbe Daumal, frutti di luce, stavolta però consapevoli e maturi.
Perché ora quando ti guardi negli occhi sai che c’è una sola domanda che devi porti:
preferiresti essere un pesce?


Perché poi la giostra della vita compie sempre il suo giro. E poi di nuovo. Lunedì. Apro gli occhi e ti vedo dormire bambina accanto a me, sei bellissima, l’odore del sole inonda la stanza, sfioro il tuo profilo e penso alla scritta sulla scatola dei nostri fiammiferi, penso che mi piace la parola “nostro” perché fa rima con mostro e con poesia, faccio colazione e tu arrivi e mi abbracci da dietro, il nostro cane ci guarda e sorride, passeggio fino alla stazione dei bus, scrivo, ascolto, osservo (che poi sono lo stesso verbo), faccio mille giri su una parola, pioggia, nuvole, sole (che poi sono lo stesso tempo), non vedo l’ora di tornare a casa per leggerti le mie poesie, di realizzare i tuoi sogni, di costruire il nostro futuro, anche la parola “futuro” mi piace, anche se fa paura, perché fa rima con questo-sono-io, cammino sul vialetto di casa, ma perché questa cassetta delle lettere pende sempre da un lato?, la rimetto a posto, il cane sorride, chissà a cosa pensa, che belle queste tende, conquisteremo il mondo con i tuoi dolci, voglio scrivere, andiamo a diventarci, esco a passeggiare col cane, andiamo dove vuole lui, i volti delle persone, le loro storie, la vita di chiunque nella mia, passo attraverso trilioni di molecole, i disegni dentro i sogni dentro i baci, la creazione del mondo, big bang, colpito al cuore, mi siedo sulla panchina e guardo la cascata, il ponte, il bar, gli amici, i ricordi, le parole, la ripetizione, la neve, i baci dentro i sogni dentro l’universo nei tuoi occhi di pittrice, disegnatrice, pasticcera, cuoca, sarta, stilista, ricamatrice di dettagli, scintilla creatrice, e bianco e nero e tutto e noi, il mio taccuino, la mia agenda, andiamo sulla luna, i colori dentro il bianco della luce, i miei silenzi, le mie parole, l’odore di casa nostra, solo nostra, e scusa se mi nascondo dentro me stesso, se chiudo gli occhi per spegnere il sole, grazie per aver dato un nome a ogni cosa, per aver domato e dato senso a ogni mio mostro: questo sono io.
Sento le cose grandinare in continuazione dentro di me.



4 commenti:

  1. La finezza più fine è Adam Driver che interpreta un driver...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, l'ho detto anche nella rece ;)

      E Driver che interpreta un driver e come Paterson che vive a Paterson: un gioco di rimandi che può trovare un senso se si guarda alla natura delle domande ("giuste") che il film si pone e non alle risposte ("sbagliate") che fornisce. Un film che, al netto di ogni cosa, mi sento di premiare.

      Elimina
  2. Adam comunque è bravo. Peccato che si sia impelagato con quel personaggio ridicolo di quella famosa saga che sta diventando ridicola pure lei...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Adam Driver è davvero bravo, concordo. Uno di quegli attori dalla "faccia giusta". In questo caso, interpreta il personaggio di Paterson perfettamente, restituendo tutte le emozioni e le sensazioni nel modo più efficace.

      La trilogia sequel di Star Wars non l'ho vista, quindi non ho elementi per giudicare. (Non sono mai stato un fan di Guerre stellari, ho visto solo il primo film).

      Elimina

due cose

1 puoi dire quello che vuoi, anche offendere

2 metti la spunta qui sotto su "inviami notifiche", almeno non stai a controllare ogni volta se ci sono state risposte

3 ciao