6.12.23

Torino Film Festival 2023 - SECONDA PARTE

 

Ed ecco a voi la seconda parte!


BIRTH di Ji-young Yoo (Corea del Sud)


GAIA BARUSCOTTI

Se è vero che “tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia è infelice a modo suo”, lo stesso si può dire anche delle società. E sicuramente una delle cause dell’infelicità della società coreana è il tasso di natalità, che, dati del 2023 alla mano, si attesta allo 0.78, il più basso al mondo. È dello scorso settembre la dichiarazione del presidente Yoon secondo cui il governo abbia speso più di200 miliardi di dollari negli ultimi 16 anni in programmi a supporto delle nuove madri, soltanto per vedere crollare il tasso di natalità del 25%. Ma come conciliare le assillanti pressioni sociali a concepire con il diritto all’auto determinazione dei singoli?
I protagonisti del secondo film di Yoon Ji-young, vincitore del Premio Fipresci, hanno, apparentemente, tutto ciò che la società moderna reputa appetibile: Yoon Jae-yi (Han Hae-in) ha appena ricevuto un’offerta da parte della sua editor per un nuovo romanzo dopo il precedente bestseller, Kim Geon-woo (Lee Han-ju) è un insegnante di inglese in un’accademia privata, apprezzato e rispettato tanto dai colleghi quanto dal direttore, che, infatti, gli propone di dirigere la succursale della scuola. I caratteri dei due fidanzati si completano a vicenda: se lei assume dei comportamenti autodistruttivi, lui è, invece, responsabile e ordinato; se lei è ossessionata e mai completamente soddisfatta della sua scrittura, lui è concreto e preoccupato della gestione quotidiana della casa; se lei ritiene (a torto o a ragione, anche se la regia sembra propendere maggiormente per la seconda opzione) che una gravidanza possa avere un impatto distruttivo sulla sua capacità di produrre arte, lui è contento quando apprende della gravidanza inaspettata della compagna. La notizia incrina un equilibrio già precario.
Non potendo abortire, a causa di problemi di salute, Jae-yi acconsente, a malincuore, a portarla a termine, senza riuscire a mascherare la sua sofferenza, fisica e mentale, oltre che il fastidio e il disgusto nei confronti della vita che le cresce in grembo, tanto da definirla “aliena”. L’attrice riesce a rappresentare in maniera estremamente convincente una donna che non soltanto non è più a suo agio nel suo stesso corpo, ma anche nella società in cui ha sempre vissuto e nei ruoli che tradizionalmente vengono imposti alle donne: nella scena forse più significativa del film, Jae-yi scoppia in lacrime quando la editor chiede a lei come si senta, invece di preoccuparsi del bambino. Alla ricerca di una qualche continuità con la vita precedente, la donna continua a bere alcolici e a utilizzare la scrittura come valvola di sfogo: alla domanda, durante una conferenza, sul tema del prossimo libro, Jae-yi risponde che è “su una donna che non vuole diventare madre” e che è “a metà opera”, tracciando un parallelismo tra la sua vita e la sua arte (e forse, visti i nomi simili, tra finzione cinematografica ed esperienza autobiografica della regista).
L’altra faccia della medaglia è Geon-woo: se alle donne è richiesto di essere madri e desiderare e gioire della gravidanza, così agli uomini è richiesto di saper provvedere alle esigenze della famiglia, mostrandosi forti e risoluti tanto a casa quanto sul lavoro. Purtroppo, per quanto il ragazzo si sforzi di essere all’altezza della situazione, gettandosi anima e corpo nella gestione della casa, per poter dare un seppur minimo sollievo alla compagna incinta, e nella preparazione della succursale, per dimostrare il proprio valore al superiore, inevitabilmente fallisce. E questo lo porterà ad un’estrema e drammatica decisione.
Il film è uno scarno ed essenziale studio sui ruoli sociali, e quali sacrifici impongano sul singolo. È possibile essere felici senza conformarsi alle norme convenzionali? O, al contrario, trovarvi soddisfazione e realizzazione? Domande che non trovano risposta ma che interrogano l’intimo di ognuno di noi.


GRACE di Ilya Povolotsky (Russia)


RICCARDO SIMONCINI

Un road movie atipico a bordo di un furgoncino scassato su cui padre e figlia (dai nomi imprecisati) tengono tutta la loro vita, vagano nel niente, si spostano senza mai raggiungere nessuna meta, lì nelle regioni più remote della Russia meridionale dove tutto è identico a se stesso, brutale desolazione sull’orlo forse di un’apocalisse senza estate in cui i pesci muoiono uno dopo l’altro. Nelle tappe del loro inutile vagabondare allestiscono un cinema ambulante e itinerante, uno schermo all’aperto a cui i (pochi) locali disperati accorrono, di fronte all’indifferenza spietata della povertà più estrema, per sfuggire ad una noia dilagante persino negli stessi bambini, che sognano invano di andare a giocare alle giostre in città da cui tutto arriva quando ce n’è bisogno.
Per il resto non c’è nulla, tra le praterie e la steppa, anche le stelle sono semplici proiezioni sul soffitto di una sfera planetaria giocattolo, non c’è futuro (“è un paradosso, no? Conoscere il futuro lo rende inevitabile” dice il padre), solo lingue, dialetti ed espressioni vernacolari che si incrociano nel niente topografico tra le frequenze radio distorte e sovrapposte.
L’esordio di Ilya Povolotsky, già documentarista, si rivela però più una soporifera dichiarazione d’amore a Sokurov, Tarkovskij e Béla Tarr che al cinema che sta cercando di fare, vorrebbe essere esperienziale e sensoriale, ma manca completamente di un impianto narrativo, tematico e persino percettivo che possa sostenerlo. Quello che con diversi gradi di sperimentazione riuscivano a fare invece magistralmente da Reygadas (con il suo perturbante Post Tenebras Lux) al recente A Russian Youth (qui recensito dal sottoscritto, la storia di un bambino-soldato troppo candido per la Prima Guerra Mondiale) fino all’italianissimo Una sterminata domenica (anti-narrativo al suo estremo), ma anche semplicemente quel Nomadland trionfatore degli Oscar che tutto ruotava attorno al disabitato umano errare. Grace risalta sicuramente per una fotografia affascinante e ammaliante, sommersa (più che immersa) tra i campi lunghi a camera fissa e i grandangoli materici in 16mm disallineati e disorientati, con cui la protagonista subisce silenziosamente la grandezza travolgente dell’infinito nulla attorno, rotto solo dalle imponenti pale eoliche che scendono roboanti sfiorando il terreno. Ma manca il resto, manca qualcosa per cui emozionarsi, qualcosa che vada oltre alle immagini estetizzate.
Rimane un’istantanea, come le polaroid che la quindicenne scatta agli sconosciuti nel suo cammino desolato, manca il seguito, necessario.


ELENA PACCA

Lontano da dove.

Estremizza la lezione di Andrei Zvjagincev e percorre una Russia innominata, desolata, abbandonata a una solitudine esistenziale che definisce ben più dell' abbattimento delle statue, il crollo di un sistema e di un' identità sovraestesa tra speranza di cambiamento e disillusione feroce. I paesaggi spogli, aridi, inospitali accompagnano un padre e sua figlia quindicenne in un esilio nomade su un furgone che è anche la loro precaria dimora itinerante lungo un viaggio che pare non portare a nulla, in un identico perpetuarsi frustrante e asfittico - sia nell'angusto vano chiuso, sia nella vastità degli spazi aperti - soprattutto per la ragazza.
Una fotografia sporca aggiunge malessere a un'ambientazione di brutalismo architettonico che accentua la decadenza dei ruderi abbandonati, enormi vestigia di monumentale incombenza nella loro progressiva devastazione strutturale. La scarnificazione eccessiva dei dialoghi, appesantisce un'idea che poteva trovare spunti più intensi se sviluppati. Il cinema - letteralmente montato e portato dai due in giro per il nulla sconfinato, e lo sfogo (o la necessità) della ragazza di scattare fotografie a sviluppo istantaneo simil polaroid, avrebbero meritato qualcosa di più di un'elegia muta e così deprivata di tutto da non essere bastevole a sé stessa.


ALESSIO NENCIONI

Il mio miglior film visto al TFF 2023.

Road movie dalle atmosfere dilatate come le infinite lande russe che attraversa. Un padre e sua figlia adolescente vivono su un furgone che è la loro casa, ma anche cinema ambulante con il quale racimolare qualcosa per sopravvivere.

Cinema allo stato puro.


LE RAVISSEMENT di Iris Kaltenbäck (Francia)


ELENA PACCA

Le vite degli altri.

La regista dice di aver avuto a mente Il rapimento di Lol V. Stein di Marguerite Duras. Le Ravissement è una discesa lungo un precipizio di autoinganno che perde via via ogni appiglio con la realtà e con la possibilità di aggrapparsi a qualcosa per tornare indietro, senza danni. La menzogna che innesca il tutto si autoalimenta e, sia volontariamente, sia per forza inerziale, si ingrossa sino a imboccare una strada di quasi non ritorno. Fondato massimamente attorno al volto portentosamente cangiante nella compostezza e nella profondità di sguardo di Hafsia Herzi, che è Lydia ostetrica a Parigi, si avvale anche della invisibilità mimetica di Alexis Manenti, che è Milos conducente di autobus. Sono gli eventi apparentemente banali, minimali, quelli capaci di segnare il destino di una persona e anche di quelle attorno a lei. Così come le decisioni, basta un attimo. Irretiti da un'iniziale facilità nel perpetrare l'inganno, ci si illude di poterlo portare avanti senza troppe conseguenze. Lydia si trova ben presto in un vortice esistenziale dove le sliding doors che si aprono sono sempre tutte sbagliate e dove la solitudine urbana, affollata soltanto di "estranei familiari", è una pessima amica. La dominante fredda ben rende il senso di alienazione, di disperazione silente, di smarrimento e poi di accerchiamento, che pervadono la protagonista. Un buon esordio, nonostante la sceneggiatura un po' "telefonata" e un finale che concede uno spiraglio di luce forse di troppo; ma siamo a Parigi, la Francia è un altrove sentimentale dove l'amore, se non fa rima con cuore, è un vuoto a perdere.

RICCARDO SIMONCINI

Tra i grandi temi di quest’edizione del TFF uno dei più ricorrenti è sicuramente rappresentato dalla maternità, quel magico e simbiotico rapporto che lega indissolubilmente una donna alla piccola creatura nata dal suo corpo, donne in procinto di diventarlo, donne che diventandolo mutano completamente pensiero e forma, anche allargando vuoti di per sé incolmabili.
L’esordio di Iris Kaltenbäck ne racconta qui il desiderio morboso e quindi la sua frustata negazione.
Lydia è un’ostetrica eccellente, si occupa delle mamme più che dei loro bambini, come puntualizza a più riprese, eppure vorrebbe tanto diventare lei stessa mamma e occuparsi così di un suo bambino (amarlo ed essere amata). Nel giorno in cui Lydia scopre di essere tradita dal suo ragazzo la sua migliore amica Salomé, il suo “vaso comunicante”, con cui condivide un’unica dose di felicità, le rivela di essere incinta. Tutto cambia da quel momento. Il desiderio si fa ossessione, la maternità possesso, unica possibilità per sfuggire all’insonnia di vite senza direzione, come Milos, l’autista di bus che Lydia conosce in una notte, in una Parigi urbana irriconoscibile che come anche la metropoli antropomorfica di Robot Dreams annulla corpi e sogni nella solitudine estrema, in “estranei familiari”, tra cui vagare apolidi della felicità semplicemente da un turno all’altro.
Con uno stile delicato ed elegante accompagnato occasionalmente da un voice-over di Milos a volte fin troppo invasivo, Le Ravissement si affida tutto alla sua magnifica attrice sempre stretta nel suo caldo cappotto rosso, la magnetica Hafsia Herzi del Cous cous di Abdellatif Kechiche, al suo bisogno viscerale di ospitare e dare vita, sfiancandosi nel volto, nel corpo e nel respiro come i muscoli pelvici dell’amica, atrofici e incontinenti per essere stati portati all’estremo proprio per mano di Lydia in un parto inutilmente sofferto (“Non volevo deluderla”). Un thriller alla Dardenne per certi versi, perché dietro il voler essere madre c’è il segreto più grande di quella vita che deve ancora nascere. E mentre le menzogne si accumulano Lydia inizia così a scrivere la storia inesistente della sua maternità, ostinandosi ad ogni costo ad arredare una vita di fatto inventata, costruita sull’egoistica fiducia manipolata e manipolativa.
Lydia ha fatto venire al mondo centinaia di bambini, eppure nessuno. La colpa più grande, la follia più intima: non essere madre. E da lì ripartire.


AUGURE di Baloji Tshiani (Belgio, Congo, Belgio, Olanda, Germania, Sud Africa)


ALESSIO NENCIONI

Koffi torna in Congo con la moglie bianca dal Belgio, svelando le dinamiche di una famiglia segnata da superstizioni e pregiudizi.

Realismo magico, leziosità stilistica… ad un certo punto però mi sono addormentato e non saprei dire di più.


LA PALISIADA di Philip Sotnychenko (Ucraina)

RICCARDO SIMONCINI

Una verità impalpabile come nel processo soggettivato e manipolativo di Anatomia di una caduta, nascosta tra le infinite versioni inaffidabili messe in scena. La palisiada diventa però la criptica anatomia di uno sparo, ripetuto a distanza di 25 anni nella stessa dinamica senza complici e colpevoli (se non dei padri, e dei padri dei padri), in un’Ucraina che nel frattempo ha cambiato completamente volto e politica, ma non forse la corrotta violenza perpetuata e nemmeno l’asettica freddezza del grilletto premuto. Cos’è accaduto e cos’è rimasto. Dove siamo andati e dove andremo. Un’indagine anti-storica a cavallo dell’URSS, delle sue atmosfere familiari anni ‘90, del suo prima e del suo dopo, non sempre però del tutto decifrabile e comprensibile. Partendo (o meglio arrivando) da una delle ultime esecuzioni capitali del Paese. Ma il centro del “racconto” non è quella pena di morte di cui già Cesare Beccaria nel Settecento esponeva l’assurdità con lucidità anacronistica, quanto più la sua imperturbabile visione e rappresentazione, la stessa che, scevra della riflessione storica qui invece imprescindibile, aleggiava fatale nella telecamera di Michael Haneke in Benny’s Video. Una violenza inaudita, le immagini l’unica e diretta possibilità di raccontarla, anche quando nulla è effettivamente mostrato sullo schermo. Perché non basta guardarla quella rappresentazione (guardare gli oggetti imballati in una stanza, guardare dei tatuaggi sulla pelle, guardare una ripresa video) è il ricostruirla più che il verificarla il vero atto che attende lo spettatore, quell’ambiguità del guardare che permea perturbante proprio appunto tutto il cinema di Haneke. Non sappiamo nemmeno chi abbia girato e (ri)montato le immagini che vediamo in questo film, figuriamoci stabilirne l’autenticità.
La “palisiada” del titolo è infatti un modo di dire, indica una ridondanza nel parlato, un gioco linguistico di reiterazione, ma qui assistiamo più ad un gioco (furbissimo) della Storia, un gioco formale radicale della messa in scena, figura retorica e teorica di puro linguaggio cinematografico, dove tra perquisizioni, confessioni, perizie e controperizie tutto è rappresentazione, mai realtà, tantomeno verità, un gioco solitario, orrorifico, di costruzione e rimaneggiamento, nell’occhio disturbante del diavolo della Storia, non un gioco di società quindi, perché la Storia la fanno i vinti, mentre gli altri tacciono sepolti nell’oblio eterno, lasciando un’eredità senza responsabilità alcuna.
Vicino alla tradizione del cinema rumeno, Philip Sotnychenko imbastisce infiniti dialoghi e matrioske, telecamere e nastri che si sovrappongono e si parlano estenuanti in multipli livelli narrativi uno dentro l’altro, uno davanti all’altro (“Queste storie sembrano tutte diverse, ma ne ricordano un’altra”). Perché ogni ripresa audiovisiva, soprattutto se di famiglia, diventa fonte preziosa per chi verrà dopo, pronta per essere analizzata, decifrata, rievocata, rimessa in scena (e quindi in discussione) attraverso un televisore, per riempire i vuoti di un’universale amnesia storica (“Ti ricordi quando l’Ucraina è diventata indipendente?”). Di nuovo come in Retratos Fantasmas non c’è nostalgia, ma la testimonianza di uno scorrere fatale in cui della verità non c’è nemmeno l’ombra, di un “vecchio mondo” che brucia sotto i propri piedi prima che sia ancora calpestato.
Ad un certo punto c’è un personaggio che dice “per tanti anni ho suonato un telescopio chiedendomi perché non uscisse musica”, ecco a volte si ha la sensazione che anche il regista abbia usato la macchina da presa come telescopio, stiamo ancora aspettando che esca il film. “Il nastro è finito”.


WHITE PLASTIC SKY di Tibor Bánóczki e Sarolta Szabó (Ungheria, Slovacchia)


ELENA PACCA

Soffrendo per il male del mondo.

Una graphic novel distopica, ci trasporta fra cent'anni. Budapest è una sorta di avamposto in cui la vita è resa possibile perché si è sotto una cupola protettiva trasparente. Tutto attorno il mondo non esiste più, devastato e distrutto, probabilmente dalle scellerate scelte ambientali perpetrate nel tempo. Il patto stretto con i cittadini è che a 50 anni si concluda la vita umana e, impiantando un seme all'interno dei corpi, si continui a vivere sotto forma di albero in grado di fornire l'ossigeno necessario per le generazioni future e garantire la riproduzione della specie. Stefan e Nora sono i protagonisti, una coppia in cui lei, ancora profondamente provata dalla morte del figlio decide, a insaputa del marito, di concludere la sua vita volontariamente anzitempo, a 32 anni. Una volta scoperta, inizia l'odissea in fuga nel mondo al di fuori - la classica corsa contro il tempo - e il tentativo dell'uomo di "salvare" la moglie espiantando il seme che, già immesso nel cuore, ha iniziato il processo trasformativo. Oltre al tema ambientale e a quello di un'imposizione dall'alto di scelte draconiane non sempre condivisibili (siamo pur sempre nell'Ungheria di Orban) si snocciolano vari temi che, con la tempistica filmica, risultano dei sassi lanciati in uno stagno di propagazione sempre più estesa, che ci raggiungono a più livelli. Il rapporto di coppia, le lacerazioni, l'accorgersi dell'importanza di cose e persone nel momento in cui stiamo per perderle, cosa si è disposti a sacrificare di noi e della nostra vita per gli altri, il concetto di bene universale che spesso non collima con quello personale, il sacrificio individuale e quello collettivo, un rinnovato rapporto con la natura, la discussione sulla proprietà dei nostri corpi, l'eutanasia, la presa d'atto che certe risoluzioni siano necessarie per prevenire la catastrofe, il desiderio che le cose rimangano come sono, nonostante tutto, e l'afflato tipicamente connaturato alla natura umana di sperimentare, di varcare nuove frontiere e nuove possibilità, di contrastare, combattere o di rinunciare, lasciare andare. E l'amore, così vasto e così eterno che, forse, al pari di altro meriterebbe una rifondazione, una rinascita in un luogo che magari non è il paradiso, magari non è quel mare che abbiamo sempre desiderato vedere, ma è pur sempre un nuovo diverso eden, se solo lo vogliamo.
Realizzato attraverso l'animazione in 3D e il metodo del rotoscopio, il risultato è un alternarsi riuscito tra tagli di luce che riscaldano e cupezza densa e piatta, tra speranza e desolazione.


Vincent doi morir di Stéphan Castang (Francia, Belgio)


ALESSIO NENCIONI

Film che da commedia nera scivola verso un horror depressivo attraverso una spirale di violenza gratuita ai danni di Vincent, un grafico vittima di una serie di aggressioni prima da parte dei colleghi e poi di tutte le persone con le quali incrocia lo sguardo.

Metafora sociale sull'aggressività contemporanea, sui rapporti malati nel mondo del lavoro, nella coppia e più in generale con l’altro.
La prima parte votata alla commedia funziona, quando si trasforma in horror “serio” il film perde ogni tipo di slancio e idea.


LOS DELINCUENTES di Rodrigo Moreno (Argentina)

RICCARDO SIMONCINI

Tra i tetti soleggiati di Buenos Aires la vita si ripete ogni giorno sempre uguale a se stessa. Alzarsi, vestirsi, salire in metro, un caffè al volo e subito ripartire in banca a contare banconote, emettere assegni, incassarli. A volte qualche contrattempo, che sembra però non sconvolgere mai quelle vite grigie come i completi indossati. “C’è gente che ha la stessa vita” – viene precisato ad inizio film. Almeno fino a quando non capita di attuare l’idea del secolo. Perché forse “è meglio passare 3 anni e mezzo in carcere che 25 in banca.” Così un modesto impiegato ruba un’ingente quantità di denaro nell’istituto di credito in cui lavora, una somma equivalente allo stipendio fino alla pensione, un compromesso ideale per sfuggire alla monotonia di un lavoro (del lavoro) alienante e mai appagante, quel disequilibrio tragico e obliante già ottimamente raccontato anche nella recente serie tv Severance (Scissione in italiano) su quella speranza mutilata di un impiegato scisso appunto nel (e dal) mondo capitalista.
Una rapina insomma che trasforma tutto in altro, sicuramente non un poliziesco e nemmeno un thriller, anzi forse più la sua lentissima negazione, un film umanissimo e umanista sulla ricerca disperata di libertà, al di fuori di ogni confine. Morán e Román: colleghi e complici inconsapevoli, delinquenti da titolo più per aver attentato la quotidianità abituale che la banca in cui lavorano, anagrammi paralleli di vite ordinarie che cambiano e sconvolgono l’ordine delle lettere di sempre, riconteggiando sarcasticamente con la calcolatrice il punto geografico della propria esistenza. Dai freddi e asfissianti caveau senza finestre ai paesaggi sconfinati dell’Argentina in cui tornare a respirare. Dalle strade affollate in cui correre (“viviamo per lavorare”) alla lenta contemplazione della natura. Guidati entrambi da una terza figura anagrammatica e paradigmatica di cui innamorarsi: Norma, che nella terra libera e agreste si dedica al cinema.
Con un’operazione che a volte risulta fin troppo esplicita e sovrabbondante nelle immagini e nei dialoghi (dilatati su 3h e 3 atti), Los Delincuentes recupera tutta la malinconia più tipica del Nuovo Cinema Argentino, immergendola con un pizzico di ironia (tra coincidenze, fraintendimenti e stessi attori che interpretano personaggi diversi) nel bucolico sognare futuro, ovviamente ora in completo di jeans e a cavallo. Ma per raggiungere davvero quella libertà tanto bramata servirà forse cambiare del tutto le lettere della propria vita, non basteranno anagrammi, non basteranno palindromi, e forse non basterà nemmeno un film. “Dove sta la libertà?”

Distribuito prossimamente su MUBI.


DANCE FIRST di James Marsh (USA)


ELENA PACCA

A journey to your shame.

L'accademia di Stoccolma lo ha appena proclamato vincitore. E allora si dà alla fuga Samuel Beckett, si inerpica, rischia di cadere, si incunea e raggiunge una specie di cripta. E' al sicuro, ha evitato la catastrofe. No, non è in salvo perché con lui è scappato anche il suo alter ego, la sua coscienza, cattiva o no chissà, che lo inchioda a fare i conti con il suo passato, con chi era e chi è diventato. Inizia un excursus a ritroso, interiore ed esistenziale in cui vediamo Samuel bambino vessato dalla madre, rimasto presto orfano dell'amato padre e poi Parigi, perché Parigi è il centro del mondo. Il legame con Joyce e sua figlia Lucia matta da legare che voleva solo ballare, e l'incontro con Alfred Péron compagno di ideali che morirà per essi e con Suzanne sprone e compagna di e per una vita. La guerra, la resistenza, scrivere scrivere scrivere perché hai talento, non arrenderti dice Suzanne e la spunta e all'insegna del no matter, try again, fail again, fail better, dopo i rifiuti lui ce la fa. E poi arriva Barbara un altro amore, redattrice e traduttrice prima a Londra e poi in condivisione, a Parigi. E poi c'è la vita che va avanti nonostante tutto, nonostante i demoni, i compromessi e gli affanni del vivere. E la felicità, quel momento irripetibile che giunge quando lui ancora non lo sa. Glielo dice Suzanne guarda, è qui, è ora. Non ce ne sarà mai un'altra così grande, così intensa così unica come adesso, anche se dobbiamo scavare la terra per trovare un po' di patate da mangiare. Essere insieme è tanto, ma non è tutta felicità. La resa dei conti è servita. La vecchiaia è un incedere lento e pesa quanto le borse della spesa da portare su con fatica lungo le scale e sopra ci sarà lei, Suzanne ad attenderlo che gli dirà ancora una volta che così non va, che si fa infinocchiare dai commercianti, che le pesche sono dure, perché più che un legame il loro è "una saldatura infelice". La vita come un nastro srotolato e ripreso in mano dall'inizio, venato dai ricordi, la nostalgia, i sensi di colpa e i rimorsi. Il bilancio di un uomo che si è preso il mondo a modo suo e ne ha pagato le conseguenze morali, intellettuali e sentimentali, infliggendo a chi gli stava intorno il carico ineludibile delle sue scelte.
Il pavimento di un appartamento vuoto, dismesso può contenere un abbraccio gigantesco, l'ultimo saluto, un addio imperativo e struggente e un amore che ha sconfitto il tempo e le convenzioni? Coricandosi vicini può.
Gabriel Byrne è pasta di vetro che si soffia, prende forma, si compone e si frantuma. Gli altri attori incarnano accuratamente le età che si susseguono senza soluzione di continuità. Il risultato è un commovente ma sobrio - a tratti ironico - ritratto che illumina un uomo per cui lo scrivere pericolosamente è equivalso al vivere intensamente.
Aspettando la vita, dance first, think later.


Visitors - Complete edition di Kenichi Ugana (Giappone)


ALESSIO NENCIONI

Possessione di demoni violenti e splatter, ma anche un’interrogazione sulla convivenza e la comprensione reciproca… probabilmente.

Del film però ricordo solo un demone con due motoseghe al posto delle braccia e fiotti copiosi di vomito infetto.


MAMÁ, MAMÁ, MAMÁ di Sol Berruezo Pichon-Rivière (Argentina)


RICCARDO SIMONCINI

Una famiglia tutta al femminile, nonna, zia, madre, figlie, sorelle e cugine, a cui un tragico incidente in piscina toglie un pezzo, una figlia, una nipote, una sorella, una cugina. Esseri multi-organici (“sei l’essere multi-organico più giovane della famiglia”) capaci di sentire multiple realtà, lacrime di mare labili nel trauma, magiche nella risposta. Mamá, Mamá Mamá ha la sincerità di un diario nelle piccole mani delicate di una bambina che sta crescendo, di primi baci dati per esercitarsi a pomodori troppo maturi, del menarca come un neonato morto a cui dare un nome e un funerale, di candeline immaginarie perché gli adulti si sono dimenticati del proprio compleanno, di cerotti da appiccicare con la colla vicino ai ritagli dei sogni più impossibili, di principesse tristi insomma, in cui di Alice nel paese delle meraviglie è rimasto solo più il coniglio, non c'è traccia di Alice, non c'è traccia delle meraviglie, un velo di malinconia che l’aria del ventilatore non porta via. Come anche nella sua opera seconda, la giovanissima regista argentina classe 1996 indaga in una prospettiva sensoriale e incantata l’inevitabile tempo della crescita: quello che in Nuestros días más felices sarà poi il rivedersi anziani con occhi bambini qui diventa il rivedersi ancora bambini anche se il corpo e la realtà ci vogliono far crescere troppo in fretta. I paradossi emotivi di Petite Maman (anche se qui forse un po’ troppo frammentari ed episodici) si accumulano in quell’ambiguità percettiva in cui il corpo cambia e i propri occhi vedono troppo, la morte, il dolore, gli occhi degli altri che desiderano il proprio. “Non sono cose per te” viene detto. Eppure quegli occhi ormai hanno visto, hanno capito, hanno accumulato, quanto può essere brutale il mondo, tra traumi, mostri e paure, come quella di essere rapiti, in mezzo al niente e senza niente. Nessun rewind è possibile. La crescita procede inarrestabile.
Un cerotto copre il vuoto di tutte le ferite invisibili.
Un cerotto tiene insieme tutti i pezzi della nostra infanzia.
Un cerotto ci tiene insieme, tutte, come sorelle.

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