Allora non potete perdere questo grande pezzo di Matteo Scapin.
Matteo è un grande amico, nonchè il grafico che, tra le altre cose, ha disegnato il logo del blog e tutti i disegni delle "mitiche" t-shirt che abbiamo venduto ai tempi del Guardaroba.
Ormai è sotto gli occhi di tutti quanto i videogame, a parte l'interattività, non abbiano niente da invidiare al grande cinema, anzi, ne siano talvolta una massima espressione.
Matteo - attraverso tantissimi esempi - prima analizza in generale questo "scambio", ormai sempre più accentuato, tra cinema e gaming, poi si sofferma in maniera più approfondita su 4 titoli, Immortality, Alan Wake 2, Lorelei and the laser eyes e Death Stranding.
Non perdetevelo!
Introduzione
È manifestazione diretta del mezzo artistico quella di instaurare un dialogo con gli altri media creativi, spesso sfumando i confini tra le parti e talvolta dando origine a nuove forme di espressione.
Oggetto di questa analisi sono videogiochi e cinema e, se il secondo è indiscussamente considerato arte, per i primi il dibattito non è ancora chiuso, sia per via della loro definizione ludica sia per un loro inquadramento come intrattenimento per un pubblico che - alla stregua del fumetto, pregiudizievolmente - non è ritenuto alla ricerca di un’esperienza artistica. Eppure è proprio la natura interattiva ed emergente del videogame a renderlo un mezzo di comunicazione unico, distintivo ed estremamente potente nella sua capacità di coinvolgere il fruitore (non più solo spettatore ma partecipante attivo).
Negli ultimi decenni cinema e videogiochi hanno vissuto un rapporto di scambio continuo e crescente, dapprincipio in direzione univoca dal primo verso i secondi e successivamente sempre più intersecato, un continuo confronto tecnico e narrativo che ha mutato e arricchito entrambi.
Dalla trasposizione videoludica di opere cinematografiche alla trasposizione cinematografica di opere videoludiche sono emersi alcuni dei più rilevanti lavori dei rispettivi media, nonostante la traiettoria sia stata per entrambi molto accidentata, soprattutto nelle fasi iniziali. A partire dal videogame E.T. the Extra-Terrestrial del 1982 - considerato uno dei peggiori videogiochi della storia nonchè uno dei primi su licenza filmica - per arrivare a capolavori moderni come Alien: Isolation, The Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay e Star Wars: Knights of the Old Republic, troviamo un percorso quasi parallelo che va dal film Super Mario Bros (1993) - uno scult a tutti gli effetti - e dagli innumerevoli tentativi fallimentari che hanno reso famigerato Uwe Boll (House of the Dead, Alone in the Dark, Postal, Far Cry, ecc.) a lavori notevoli come le recenti serie Arcane, The Last of Us, Fallout, Cyberpunk: Edgerunners; a queste si aggiungono poi film dove l’elemento videoludico diventa un dispositivo narrativo, opere che analizzano il medium e ne inglobano dinamiche e storie: War Games, TRON, eXistenZ, Run Lola Run, Wreck It Ralph, Ready Player One, Hardcore Henry e molti altri lavori di gran rilievo.
E.T. the Extra-Terrestrial
A livello tecnico la convergenza e lo scambio tra i due media sono sempre stati particolarmente vivaci. I videogiochi hanno abbracciato il linguaggio cinematografico adottando tecniche narrative e strumenti espressivi propri del grande schermo per costruire esperienze emotive e coinvolgenti. Tecnologie come il face scanning e il motion capture permettono di riprodurre in maniera iper-realistica le fattezze e le espressioni degli attori, avvicinando l’estetica e la profondità dei personaggi digitali a quella delle controparti reali. Titoli come The Last of Us, Red Dead Redemption 2, Hellblade 2 non si limitano a raccontare una storia: sono dei veri e propri film interattivi in cui il giocatore è chiamato non solo a interpretare ma anche a vivere in prima persona le emozioni dei personaggi rappresentati.
Hellblade 2: a sinistra il modello 3D ottenuto con il face-scanning di Melina Juergens, a destra
D’altro canto è rilevante sottolineare una recente inversione di tendenza che vede il cinema utilizzare software (es.: Blender, software open source di modellazione 3D utilizzato per la realizzazione di Flow) e tecnologie nate per i videogiochi (es.: Unreal Engine, motore grafico utilizzato nel cinema per la creazione di mondi digitali fotorealistici e set virtuali, come nel caso del Volume inaugurato con The Mandalorian). In questa sovrapposizione tecnica e visiva, i due media si influenzano e si arricchiscono a vicenda, al punto da sembrare, a tratti, interscambiabili.
Le pareti di schermi LED del Volume di ILM abbinate all’Unreal Engine 5 durante le riprese di The Mandalorian
Tuttavia, come anticipato in apertura, i videogiochi possiedono un elemento distintivo: l’interattività. Mentre il cinema tradizionale è un’esperienza lineare che lo spettatore vive passivamente, il videogioco offre una dimensione esperienziale che coinvolge il giocatore in modo diretto e immersivo. Questo tipo di fruizione è destinata a cambiare ed evolversi e già oggi, grazie anche alla diffusione delle piattaforme di streaming e dei visori di realtà virtuale (VR) e mista (MR), il cinema ha tentato di sperimentare con l’interattività. Tra gli esempi troviamo Black Mirror: Bandersnatch, che ha introdotto un approccio narrativo in cui il pubblico può influenzare gli eventi attraverso scelte multiple durante lo streaming, e le esperienze in realtà virtuale come Human Within e Submerged, dove lo spettatore viene proiettato in prima persona all’interno dell’opera e in cui l’interazione con l’ambiente e l’esplorazione libera dello spazio virtuale circostante diventano parte integrante del racconto, incarnando un passaggio verso una nuova forma espressiva in cui i confini tra visione e azione si dissolvono.
Human Within su Meta Quest
All’interno di questo contesto ibrido e mutevole emerge un nuovo tipo di videogioco: quello che, oltre a utilizzare il linguaggio filmico, riflette attivamente sul cinema come forma d’arte e mezzo espressivo. Questo articolo esplorerà quattro esempi recenti – Immortality, Alan Wake 2, Lorelei and The Laser Eyes e Death Stranding – che vanno oltre i confini del medium videoludico per intessere un dialogo profondo con l’arte del cinema: questi titoli non si limitano a ispirarsi a quest’ultimo, ma lo analizzano, lo decostruiscono e lo omaggiano, creando un intreccio affascinante di narrazione, linguaggio visivo e interattività che pone al centro l’ispirazione artistica e le sue sfumature più complesse e oscure.
Immortality - Il cinema tra ispirazione e possessione
Immortality, diretto dal britannico Sam Barlow, è un gioco in FMV (Full Motion Video, ovvero composto da filmati interamente pre-registrati) che esplora il mistero di un’attrice scomparsa, Marissa Marcel, attraverso un archivio di filmati provenienti da tre film fittizi dove la stessa era protagonista. Il gameplay al cuore di Immortality immerge i giocatori in un found-footage che ricorda la ricerca archivistica, permettendo loro di recuperare nuove clip video utilizzando una moviola per scandagliare i documenti e, selezionando un qualsiasi elemento presente nel fotogramma, ottenere un nuovo frammento di filmato attraverso la tecnica del match-cut sul soggetto scelto. Il cinema su Immortality non è solo una scelta narrativa ma un dispositivo estetico e interattivo.
I tre film che il giocatore si trova a svelare - ricostruibili tramite sequenze degli stessi, provini, interviste e filmati di backstage - rappresentano ognuno un’era distinta del cinema: il gotico anni ‘60, il noir anni '70 e il thriller psicologico anni '90. Ogni epoca non è solo uno sfondo ma riflette atteggiamenti in evoluzione verso l’arte, la fama e il ruolo delle donne nello spettacolo. Immergendo i giocatori in questi cambiamenti stilistici, Immortality suggerisce che il cinema è uno specchio culturale, che cattura ambizioni, tabù e visioni mutevoli di ogni generazione.
C’è un ulteriore livello interpretativo e narrativo che Immortality trasmette attraverso delle oscure sequenze nascoste su cui il giocatore si imbatte durante l’investigazione: un effetto sorprendente che spiazza e vira le tonalità del racconto verso tinte decisamente horror. In questa lettura più esoterica il cinema funge da veicolo per una forza ultraterrena per incarnare, attraverso storie ed emozioni umane, l’ambizione e l’ossessione che impregnano l’arte: viene messa in discussione la nozione romantica dell’ispirazione, rivelando come essa possa tanto elevare quanto consumare l’artista e suggerendo come il cinema stesso possa diventare una ricerca che distorce e sfuma i confini tra creazione e possessione.
Alan Wake 2 - Il cinema come deformazione della realtà
Alan Wake 2, gioco finlandese sviluppato da Remedy e diretto da Sam Lake, è un survival horror che cala il giocatore nei panni di due protagonisti: Alan Wake è un’autore di romanzi noir intrappolato nella sua mente e capace di deformare la realtà tramite la scrittura; Saga Anderson è un’agente dell’FBI che indaga su una serie di omicidi apparentemente correlati a un culto legato allo scrittore.
Alan Wake 2 è fortemente ispirato dalle opere di David Lynch (Twin Peaks in particolare) e ai classici crime con serial killer (Se7en e True Detective su tutti), e il linguaggio cinematografico è integrato sia nella storia che nel gameplay: Il gioco utilizza scene in live-action che si fondono in modo omogeneo con le ambientazioni 3D durante l’esplorazione, per intensificare la suspense e amalgamare l’esperienza del guardare e del partecipare ad una storia horror.
Il cinema in Alan Wake 2 diventa esso stesso un protagonista attraverso il personaggio di Thomas Zane, un regista cinematografico che rappresenta una sorta di alter ego di Alan Wake: una dualità che suggerisce la potenza di cinema e letteratura nel creare impressioni durature in grado di influenzare e deformare la percezione del mondo reale; un commento meta-narrativo sul cinema come forma d’arte che trascende il suo momento culturale immediato, sopravvivendo nella memoria, persistendo e influenzando la realtà.
A rafforzare ancora di più la crasi tra cinema e videogiochi, Alan Wake 2 include anche un cortometraggio completo proiettato in un teatro virtuale che il giocatore esplora durante uno dei capitoli, portando l’atto del guardare il cinema all’interno dello spazio videoludico e invitando l’utente a riflettere sulla natura del controllo narrativo nei videogiochi rispetto ai film (è il giocatore che decide se soffermarsi per i 20 minuti di durata del corto o se proseguire liberamente il livello).
Lorelei and The Laser Eyes - Il cinema come identità e memoria
Lorelei and The Laser Eyes è un puzzle game indie sviluppato dallo studio svedese Simogo e diretto dal fondatore Simon Flesser, che omaggia videogiochi classici come Alone in the Dark e Resident Evil fondendone meccaniche e stile a puzzle game di esplorazione come Myst e The Witness. Il giocatore assume i panni di una misteriosa ragazza invitata da un ancor più misterioso signore (un regista italiano evocativamente chiamato Renzo Nero) a prendere parte ad un progetto artistico strutturato negli spazi di un’antico hotel tedesco. Questo titolo prende ispirazione dal cinema d’avanguardia noir e surrealista, proponendo la risoluzione di un mistero che combina enigmi, immagini inquietanti e una retrospettiva sul medium videoludico, sull’arte e sull’intrattenimento.
Le influenze cinematografiche sono evidenti innanzitutto nella sua struttura onirica con una narrazione frammentata - da ricomporre, è l’enigma che racchiude tutti gli altri puzzle -, nel bianco e nero atmosferico e nelle inquadrature che creano una sensazione di ambiguità e disorientamento. L’ispirazione più esplicita è il film francese del 1961 L'Année dernière à Marienbad (L'anno scorso a Marienbad - l’hotel dove è ambientato il gioco si chiama Letztes Jahr, tedesco di “anno scorso”) di Alain Resnais, famoso per la sua narrazione labirintica e ripetitiva (il “labirinto” è uno dei tanti motivi ricorrenti nel gioco) e l’esplorazione sconnessa della memoria e dell’identità. La struttura astratta e circolare del gioco rispecchia la natura del film e come quest’ultimo sfuma abilmente presente e passato, realtà e illusione, spingendo i giocatori a riflettere criticamente su come i ricordi siano manipolabili e la memoria fallace.
Il cinema nel gioco è presente anche come paesaggio onirico - con sequenze espositive rappresentate come scene di film muti - e come sorta di collezionabile durante l’esplorazione - in cui il giocatore raccoglie pagine di sceneggiatura di un lungometraggio fittizio che si interseca con il passato reale dei protagonisti -, fondendosi in un racconto in cui gli eventi sono fluidi, i significati elusivi e i ricordi inaffidabili. Questo punto di vista sul cinema suggerisce che l’arte non rappresenta semplicemente la realtà: la riflette (lo “specchio”, altro leitmotif del videogioco) e la distorce, catturando la natura sfuggente e soggettiva dell’esperienza umana.
Death Stranding - Il cinema e la creazione di connessioni
Diretto dal giapponese Hideo Kojima, Death Stranding è definito dal suo autore come un nuovo genere, uno strand-game, ovvero un videogioco incentrato sulle connessioni umane e sulla necessità di collaborare per costruire un futuro: a livello di gameplay si presenta come un ibrido di action e open-world dove la componente di attraversamento del mondo di gioco è il cuore dell’esperienza, impersonando una sorta di fattorino in un mondo post-apocalittico da ricostruire, coadiuvato da un sistema multiplayer asincrono che vede i giocatori collaborare per rendere la traversata dell’ostica ambientazione più agevole.
Death Stranding integra il cinema in maniera diretta, con la partecipazione di attori di alto profilo (Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Léa Seydoux, Margaret Qualley, Lindsay Wagner scannerizzati in 3D fino all’ultimo poro e interpretati da loro stessi in motion-capture) e scene d’intermezzo lunghe e ricche di dialoghi, creando un ritmo distintivo e un’esperienza meditativa che - anche qui - pone il giocatore sia nei panni dello spettatore che del partecipante.
Death Stranding omaggia e feticizza il cinema attraverso l’inclusione di registi come Guillermo del Toro e Nicolas Winding Refn (nel sequel, in sviluppo, si aggiungeranno George Miller e Fatih Akin), che appaiono come personaggi nel gioco. L’inserimento di queste figure evidenzia il ruolo dei registi come architetti di mondi che connettono emotivamente le persone, riflettendo il ruolo di Kojima stesso come “regista” nel medium videoludico. Questi autori portano non solo la loro immagine ma anche l’essenza dei loro stili, fondendo horror, surrealismo e temi esistenziali nell’atmosfera cupa ma pregna di speranza del gioco.
Il gioco ruota attorno al tema del collegamento di spazi isolati, un tema che si allinea al ruolo del cinema nel connettere il pubblico a prospettive, emozioni e mondi diversi. La venerazione di Kojima per il cinema e i suoi autori diventa una meditazione sul potere dei film di unire le persone tramite viaggi narrativi condivisi, suggerendo che l’arte, in qualunque forma, serva come un “cordone” - uno “strand” - per connettere l’umanità attraverso le divisioni.
Conclusione
Questi quattro titoli dimostrano come il rapporto tra cinema e videogiochi possa superare la somma delle loro singole parti, offrendo esperienze che esplorano e arricchiscono entrambi i media. Immortality, Alan Wake 2, Lorelei and the Laser Eyes e Death Stranding portano avanti una riflessione profonda sul cinema come linguaggio, arte e strumento di esplorazione umana, e invitano il giocatore a entrare in una conversazione sull’identità, la memoria, il potere evocativo del racconto e la sua influenza sulla percezione.
Guardando al futuro e speculando sull’impatto della tecnologia, il legame tra cinema e videogiochi sembra destinato a evolversi in direzioni ancora più immersive e interattive. Già oggi la realtà virtuale permette esperienze più coinvolgenti e, con la crescente integrazione dell'intelligenza artificiale generativa, entrambi i media potranno beneficiare di narrazioni adattive che rispondono in tempo reale allo spettatore/giocatore, come una sorta di collaboratore artistico che contribuisce a creare ambientazioni e personaggi che si modificano dinamicamente sulla base delle interazioni.
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