1.12.24

Torino Film Festival 2024 - Recensioni di 15 (!!!) film - di Gaia Baruscotti e Riccardo Simoncini


Io sti ultimi due anni sto saltando Torino sia per quanto riguarda il ToHorror che il TFF (entrambi molto a malincuore) ma continuo sempre ad avere scagnozzi per coprire tutto (altro che scagnozzi, tempo due mesi me rubano il posto).
Non so se in rete esista un reportage così completo dell'ultimo Torino Film Festival, non credo.
15 film, 15
E non con poche righe l'uno eh, perchè Riccardo e Gaia (grandi penne) si sono superati, riuscendo a fare recensioni esaustive per ogni film.
Appuntatevi i titoli perchè spessissimo questi articoli nascondono perle che vedremo qui da noi nel biennio successivo.
Grazie Riccardo, grazie Gaia e grazie Gianluca per il solito straordinario aiuto nell'impaginare tutto.
Buona lettura!

THE SUMMER BOOK di Charlie McDowell  (Fuori Concorso)


RICCARDO SIMONCINI

Esistono tante storie estive: quelle, come in Chiamami col tuo nome, di amori sbocciati come margherite e poi recise con violenza nel primo giorno di temporale, ma anche quelle di bambini in crescita che nel tempo sospeso delle vacanze decidono di diventare grandi tutto in una volta, in fretta e furia velocizzano esperienze, primi baci, prime innocenze perdute, come l’iconico quartetto anni ’80 di Stand by me. Esiste anche però un’estate da ricordare, come quella poetica di Aftersun e Petite Maman, di tragiche cartoline familiari da scolpire e conoscere per la prima volta prima che sia troppo tardi. The Summer Book recupera soprattutto quest’ultimo orizzonte intimista, integrando però anche i primi due: un’estate, una bambina, sua nonna (due performance attoriali di Glenn Close e Emily Matthews tra le migliori dell’anno). Un rapporto familiare che ha la stessa intensità dell’amore (passeggero ma indimenticabile) e la stessa spensieratezza dell’infanzia (dove non esiste nulla a parte un sole illustrato), ma inevitabilmente ha anche lo stesso preludio mortale e tombale. Come se l’estate intrinsecamente contenesse già l’inizio e la fine, il partire e il ritornare, come ogni famiglia sulla sua macchina ricolma di valigie e cibo in viaggio con destinazione mare. Qui il paesaggio non è però riempito di turisti, di palle svolazzanti in cielo insieme ai gabbiani cigolanti e i secchielli colorati colanti cocco e sabbia mischiati. È la Finlandia insulare dei fiordi a strapiombo, dai profili spigolosi e scavati, del verde che il vento ingiallisce, delle casette di legno isolate che dominano ogni orizzonte oceanico, con le assi così irregolari da lasciare sempre aperte sottili feritoie attraverso cui spiare il mondo circostante. Con la pioggia che fa capolino e i fuochi d’artificio artigianali che non funzionano mai del tutto, la festa di mezza estate sembra più la festa di mezzo inverno. Ma è solo una sensazione, perché in mezzo alle alghe aggrovigliate, alle barche a remi attraccate e agli aghi di felce da stringere in bocca, la Natura si compie al disgelo all’ennesima potenza. Panorami dell’anima e di atmosfera che sembrano usciti dalle lunghe descrizioni incantate di Cime Tempestose di Emily Brontë («Credo che in tutta l'Inghilterra non avrei mai potuto trovare un luogo così discosto da ogni rumore mondano»): anche lì il paesaggio dell’aspra brughiera superstiziosa dello Yorkshire era presagio di un racconto di formazione che doveva inevitabilmente avvenire.
Il piccolo e dolcissimo caschetto biondo di Sophia si muove rapido, curioso di scoprire quel luogo in cui ad ogni angolo e zolla di terra il passato ha lasciato un oggetto del suo passaggio, dove sulle rocce calde è rimasta ancora l’impronta dei piedi candidi del padre bambino che da lì si è tuffato e ancora aleggia l’ombra di una nonna giovane che è stata tra le prime donne scout. Sophia riempie di natura l’innocenza curiosa tipica della sua età. “Esistono le formiche in paradiso?” chiede teneramente come si chiede qual è il senso della vita, perché mamma non c’è più, perché papà sta sempre per i fatti suoi. Dopo la morte della madre, Sophia è infatti legata intimamente più alla nonna che al padre, serioso e solitario sempre intento a disegnare. “La puzza del dolore”. Con la nonna Sophia scopre il mondo, risolve i suoi dubbi e le sue paure, le intaglia nel legno per gettarle in mare aperto, ritrovando la serenità dopo un lutto in cui la Natura rigogliosa ma brutale non ne ha rispettato le sentite condoglianze. Persino quando prega Dio è come se Sophia parlasse con sua nonna, gli (le) domanda di far succedere qualcosa, ma ritira subito la richiesta quando compare la tempesta. “Perdona il disturbo” gli (le) dice con senso di colpa. Quella nonna, energica e vigorosa nonostante un decadimento fisico e mentale ormai irreversibile, è l’esatta personificazione e della natura, Madre-Natura, Nonna-Natura, in quel paesaggio che è lei stessa, da 47 anni a questa parte un unico respiro e carezza fuso nello stesso immutato locus amoenus, nudo e vivo, l’Ogigia salvifica e paradisiaca in cui la ninfa Calipso accoglie (e trattiene) Ulisse nell’Odissea («in un’isola cinta dalle acque, dove è l’ombelico del mare» – Canto I). Quella nonna ti guarda, sorride e ti vede non crescere mai, anche se là fuori il sole taglia i suoi baci uno ad uno, il tempo li conta e glieli restituisce come rughe e rantoli, in mezzo giro di tramonto scivola via. Il presagio è definitivo, il sentimento inafferrabile, come in Afire di Christian Petzold, che sempre di un’estate di amori immanenti e sospesi parlava, il cielo brucia, sembra ci sia ancora tempo per innamorarsi e salutarsi un’ultima volta, anche se non esiste più nessun domani.
Ma tutto è percezione ed esperienza, immagine materica e granulosa in cui le parole scorrono comunque a fiumi (nei piani d’ascolto più che nei piani d’azione - che è già in sé cifra stilistica) aiutando a ricordare quello che non si può sentire più, come quella sensazione conquistata ma ormai dimenticata di dormire in tenda, la sicurezza di sapere con precisione e dettaglio tutto quello che sta accadendo al di fuori. C’è la metafisica contemplativa di Terrence Malick (A Hidden Life), la terrestrità del sentire di Josephine Decker (Thou Wast Mild and Lovely), il tempo geologicamente inarrestabile di Hlynur Pálmason (Godland). Sembra pure di ascoltare la Rêverie di Debussy (qui rivisitata dal pianoforte malinconico e primordiale di Hania Rani), l’atmosfera sognante in Fa maggiore che negli arpeggi progressivi prende corpo e materia in una rincorsa soffice e cotonosa come nuvole. “Rallentando e perdendosi” come recita la notazione sullo spartito.
Un’isola, che come tutte le isole è circondata in ogni angolo dal mare, ma al centro c’è la vita. Il cuore singhiozza come una barca a motore in avaria al largo. Prima della fine, prima di andare via, pianteremo un albero, quel pioppo che mamma amava tanto. I suoi rami toccheranno le stelle. E sarà sempre estate.


EDEN di Ron Howard


GAIA BARUSCOTTI

Trasferirsi su un’isola deserta e poi avere problemi con i vicini di casa potrebbe semplicemente essere una battuta - e invece è l’idea alla base del nuovo film di Ron Howard, Eden, frutto di una gestazione di 15 anni e della sceneggiatura di Noah Pink.
Nel 1929, in un mondo sull’orlo del collasso economico e destinato a scivolare, lentamente ma inesorabilmente, nel fascismo (impossibile non vedere in controluce una metafora dei tempi che corrono), il misantropo dottor Frederich Ritter (Jude Law) decide di abbandonare il consorzio umano, con l’unica compagnia dell’amante Dora Strauch (Vanessa Kirby), per trasferirsi nella remota e disabitata isola di Floreana, nelle Galapagos. Luogo ideale dove mettere alla prova le proprie capacità di sopravvivenza, oltre che scrivere il trattato filosofico destinato, nelle intenzioni del medico, a cambiare la storia dell’umanità - alla prova dei fatti, un’accozzaglia di luoghi comuni e frasi fatte. La solitudine e il desiderio di veder riconosciuti i propri sforzi porteranno Ritter, come si scoprirà in seguito, a scrivere ai principali giornali dell’epoca, attirando, così, la coppia composta dal veterano di guerra Heinz Wittmer (Daniel Bruhl) e dalla sua giovane sposa, Margaret (Sydney Sweeney), giunta sull’isola nella speranza che l’aria possa curare il tubercolotico figlio di primo letto Harry. Sì, perché a quanto pare Floreana è in grado di far sparire le malattie: ne è la prova vivente Dora che, affetta da sclerosi multipla, ha riacquistato le forze tanto da essere l’unica ad occuparsi delle piante e degli animali necessari al sostentamento, mentre il compagno si dedica alle sue elucubrazioni.
Ad ogni modo, dopo un’accoglienza non particolarmente calorosa, la famigliola viene trasferita, volente o nolente, nella zona più desolata, dove, miracolosamente, riesce a vincere la natura inospitale, raggiungendo un certo grado di agiatezza. Il precario equilibrio delle due micro comunità viene definitivamente sconvolto dall’arrivo della “Baronessa” Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas), auto definitasi “incarnazione della perfezione” e “Imperatrice di Floreana”, fermamente intenzionata a costruire un hotel extra lusso sull’isola con l’aiuto dei suoi due amanti-scagnozzi. Come nel racconto biblico da cui prende il titolo, è proprio la sensuale tentatrice a far precipitare la situazione, in un clima da cane mangia cane dove nessuno è al sicuro dai tradimenti del suo prossimo. Il dottor Ritter, lungi dall’essere in grado di indicare all’umanità la strada per la salvezza, non riesce neppure a ristabilire una parvenza d’ordine tra i pochi, sporchi, affamati isolani perché, in una sorta di rilettura “adulta” de Il Signore delle mosche, l’animo umano è viziato, sin dalla nascita, da un peccato originale e inestirpabile da qualunque sovrastruttura, sia essa sociale, filosofica o religiosa. È proprio questa tara primigenia che spinge gli umani a sopraffarsi e umiliarsi vicendevolmente per mero tornaconto personale o semplicemente perché la semplice possibilità e volontà di compiere il male ne è una giustificazione sufficiente.
Il film, che non presenta particolari sorprese dal punto di vista registico e della sceneggiatura, dà una sferzata di novità nella filmografia di Howard, in cui si presenta come la pellicola forse più cupa. La forza dell’opera è la recitazione, in particolare delle interpreti femminili: l’interpretazione camp di Ana de Armas, quella enigmatica di Vanessa Kirby e una Sydney Sweeney che, per una volta, abbandona i toni urlati a favore di una performance compassata ci portano a chiudere un occhio (o entrambi) su alcuni difetti - una certa ripetitività negli schemi narrativi, una ricerca di pathos talvolta eccessiva, alcune scene involontariamente comiche. A ciò aggiungete una natura indifferente e desaturata, lontanissima dalle immagini patinate dei documentari, e la colonna sonora di Hans Zimmer, che accompagna discretamente i momenti più drammatici, e sarete pronti a uscire dal cinema esclamando “Floreana è un bel posto, ma non ci vivrei”.


TENDABERRY di Haley Elizabeth Anderson (Concorso)



RICCARDO SIMONCINI

Una metropoli effervescente, cinetica, convergente, che vuole sempre portarti e farti perdere al centro dell’universo, lontano dalla periferia e da tutto ciò che rappresenta. In All of Us Strangers Adam guardava fuori dalle imponenti vetrate di una Londra qualunque, in un’alba che era anche tramonto, un tempo che era inizio e fine nello stesso riparo, nella stessa galera chiamata casa. Qui invece si esce in strada, ci si culla vorticando attaccati ai pali delle insegne stradali, come in Mary Poppins, ma senza sognare più, cantando in metro (e non in un musical con Julie Andrews) per racimolare qualche mancia in più. Si cammina tanto in Tendaberry a sfiorarsi in un unico respiro, con quella frenesia ansiogena che ad ogni angolo di strada ti chiama e ti trascina via per una nuova avventura o sogno. Ma poi di fatto ti rimane ben poco. Storie perse ed erranti, liquefatte in quella tempesta di immagini che ogni palazzo, cartello o ponte (sotto cui baciarsi) possono portare. In un momento alle ringhiere sono appesi ingialliti scheletri per Halloween, il tempo di girarsi, un colpo di clacson e la città ha già messo gli addobbi di Natale. L’euforia di una suggestione, non di una visione. I disordinati pezzi di un puzzle che ci si è stufati di dover assemblare.
La ventenne Dakota vaga nell’arco temporale di quattro stagioni, in una Brooklyn post-pandemica mutevole e liminale dove le reali stagioni sembrano invece infinite nella città, altrettanto infinite ma impossibili per l’animo interiore. Dopo che il fidanzato Yuri è tornato in Ucraina per assistere il padre malato, la metropoli senza fare domande raccoglie Dakota sciolta a terra e la porta con sé senza chiedere nulla in cambio. Una generazione prima di quella della protagonista indecisa de La persona peggiore del mondo, Kota/Koda come la chiamano (perché anche i nomi nella velocità di una corsa di tram sono contratti come le esistenze) vive la stessa incertezza di cosa fare della sua vita, sincopata, frammentata, interrotta e mai finita. Tra autunno, inverno, primavera, estate, cambia tutto come dopo un pasto, neanche molto abbondante, si cambiano le posate. Con una presenza sempre più discontinua al lurido e malandato minimarket dove ha sempre lavorato, Dakota inizia a rubare, smette di cantare. Insieme a lei le amicizie si perdono, sempre più scalfite dalla ruggine metropolitana come nell’animazione silenziosa di Robot Dreams. Tra i truffatori dispersi e ritrovati perversi ai night club, persino una gravidanza è una delle tante cose che possono capitare. Le treccine di Dakota fluttuano nell’aria come la giostra dei calcinculo nell’ennesimo luna park. “Io con questo non c’entro nulla” dice la stessa “bambina carina e pungente” che molti anni prima era felice e spensierata nella Repubblica Dominicana.
Con la sua ipnotica opera prima Haley Elizabeth Anderson recupera la tradizione del cinema più indipendente americano, Larry Clark, Andrea Arnold ma soprattutto il Tangerine di Sean Baker, di quelle sex workers trans che vagano per una Los Angeles natalizia ma senza neve alla ricerca di un pappone-fidanzato traditore. Non esistono schemi, mappe, geografie esistenziali. Infinite dita di scrolling di distanza fino a poter vedere il planisfero intero. Come dice Baudrillard, che al paese stelle e strisce ha dedicato un libro già negli anni ‘80: «L’America non è né un sogno, né una realtà, è una iperrealtà. Ed è una iperrealtà in quanto utopia vissuta fin dall’inizio come realizzata.» Basta crederci insomma e anche il più squallido pub potrà diventare nobile ed elegante.
In una versione cresciuta e sbriciolata di Aftersun, di poesie in movimento inarrestabile, gli archivi visivi a cui attingere sono moltiplicati, le parole da vedere infinitesimali. Uno sterminato rapporto e resoconto multimediale di cui YouTube (e la sua estetica) è solo l’ultimo tassello da cui attingere. La semeiotica dei click, dei riquadri di videochiamate con la connessione instabile, i TG che fanno a gara per avvistare il primo (o l’ultimo) coyote tra i neon e i rave improvvisati. Così il racconto di una New York spaesante e disorientante è inframezzato da inserti di video-diario, l'archivio sconfinato di Nelson Sullivan, precursore visuale del contemporaneo, che proprio a Coney Island ha raccontato tutto dal 1980 per oltre 2000 ore di filmati, quelli privati, pubblici, in super 8 o VHS. Ma il tempo passa e ricicla tutto. Così le nostre immagini svaniscono prima ancora di noi stessi. Ci siamo conosciuti come amanti, e dopo 5, 6, 10 anni non sapremo neanche di esserci incontrati. Quei video-diari sono invecchiati nell’esatto momento in cui si è finito di registrarli, i ricordi di una tappezzeria strappata di cui Brooklyn è perennemente affollata. Un po’ come i cinque volumi di diari, lettere e saggi che ci ha consegnato Virginia Woolf prima di lasciarsi affogare nell'Ouse, a coprire l’intero arco di vita di oltre tre decenni (dal 1915 al 1941). La Woolf stessa parlando della vita metropolitana londinese diceva che «Mentre le strade hanno una loro carta, le nostre passioni rimangono non descritte» e ancora che «Il fascino della Londra moderna risiede nel fatto di non essere costruita per durare, ma per scomparire.» Gli stessi moments of being, i flussi di coscienza ininterrotti, che poi confluiranno nel suo capolavoro letterario Mrs Dalloway, l'eterno movimento tra le strade, gli incontri fugaci, il perdersi dietro semplici fiori. Una festa.
La macchina di Anderson allo stesso modo esaspera nervosamente movimenti, distorsioni, percezioni, non sa dove posarsi in quel turbinio di dettagli. Come in Diciannove di Giovanni Tortorici e Una sterminata domenica di Alain Parroni è la città stessa che fornisce il primo appunto sperimentale di un vagare senza forma, di sospensione anti-narrativa: la vita avviene senza direzione, senza eroi e risoluzioni.
I nostri claustrofobici e compatti appartamenti su cui ci siamo permessi con arroganza di appiccicare il nostro nome saranno presto demoliti per diventare altissimi condomini e centri commerciali.
Maledetto caos, benedetta armonia.
Il colpo di fulmine di questo TFF.

 

HIGHER THAN ACIDIC CLOUDS di Ali Asgari - Vincitore menzione documentari


GAIA BARUSCOTTI

C’è vita sotto la cappa di smog che pesa come un macigno sui grattacieli di Teheran? Se sì, di che tipo? È la vita dei censori che frugano le intimità delle case alla ricerca di prove di ogni minima infrazione? O è quella del regista che, nell’impossibilità di girare, si rifugia nei ricordi d’infanzia?
In un mondo privato dei colori da una brutale repressione, il regista iraniano Ali Asgari ritorna alla regia dopo Kafka a Teheran con un ipnotico documentario, delicato come una trina ed enigmatico come una poesia, che esplora la sua interiorità, unico spazio al sicuro dalle grinfie dei moralisti che, nella prima scena del film, gli confiscano degli hard disk necessari a svolgere il suo lavoro perché sospettano che possano contenere del materiale proibito, oltre al cellulare e al passaporto. Dove non arriva la resistenza politica e sociale, forse è quella del libero pensiero e della memoria che può uscire vincitrice dalla lotta impari: ecco quindi che il regista, impossibilitato a lasciare la propria abitazione in seguito al suo ritorno dal Festival di Cannes nel 2023, ci conduce in un viaggio a ritroso nelle reminiscenze della vita famigliare, nella lingua materna ormai quasi dimenticata, nelle suggestioni di una Roma notturna, unico luogo in cui, nelle parole del regista, si sia innamorato e abbia camminato mano nella mano con la persona amata - come se la dittatura impedisse ai cittadini perfino la possibilità di provare emozioni, rendendoli delle figure spettrali che vagano senza meta per una città altrettanto grigia. Teheran è una dei protagonisti, per quanto lontana dalla città di cui Asgari ha fatto esperienza da bambino: un nonluogo privato di ogni coordinata spazio-temporale, un essere tentacolare e informe, fiaccato da degrado e dalla confusione, letteralmente soffocato dalla stretta letale dell’inquinamento e della dittatura. Il secondo personaggio è l’amatissima famiglia, composta da madre, padre e sorelle, unico porto franco nelle tempeste personali e storiche che si abbattono sul regista. Impossibile per chiunque abbia la possibilità di vedere il film non vedere qualcosa di sé e della propria storia nelle splendide immagini, in cui emerge prepotente la lezione di Kiarostami e Panahi, maestri della commistione tra finzione e reale, tra cui possiamo ormai annoverare, meritatamente, lo stesso Asgari.
Al vertice di questo triangolo immaginario c’è il regista, che, in un dialogo con gli spettatori al tempo stesso intimo e pubblico, traduce la memoria personale e l’osservazione critica del presente in un grido di speranza, tanto urlato quanto silenzioso, che si concretizza nell’immagine del volo, prima solo sognato e poi effettivamente realizzato.
L’unica possibile liberazione è, infatti, librarsi sopra la città e le sue miserie, sopra la piccolezza della tirannide, sopra la nuvola di smog con un drone. Ma dietro quel drone c’è un occhio ancora capace di commuoversi vedendo la propria madre, un cervello pronto a correre il rischio di pensare, un cuore che ancora sanguina per le sofferenze del popolo iraniano.


NINA di Andrea Jaurrieta (Concorso)


RICCARDO SIMONCINI

Sotto la pioggia torrenziale si staglia in primo piano un fucile a canne mozze. I due buchi affiancati riempiono lo schermo. Nessuno sparo. Da lì inizia un revenge movie che di spari non ne vedrà quasi nessuno. L’opera seconda di Andrea Jaurrieta sembra continuare dove As Bestas di Rodrigo Sorogoyen si interrompeva, dai malumori in un piccolo e degenerato villaggio del Nord della Spagna in cui il tempo ha provato, invano, a ricostruire un’apparente normalità. Dopo una carriera come attrice a Madrid, Nina (liberissimo adattamento della Nina de Il gabbiano di Cechov) torna in abiti rosso rubino nella cittadella basca affacciata sul mare in cui ha sempre vissuto, dove i bracconieri scompaiono nel nulla lasciando sulla corteccia degli alberi ostinate macchie di sangue. Torna, non si sa per quanto, non si sa (all’inizio) perché. Il montaggio si muove tra due piani temporali in parallelo, tra la sua versione di oggi e quella spensierata di quando era solo un’ingenua e semplice ragazzina del posto. In tutti quegli anni le vie sono però rimaste sempre le stesse, con la stessa costante paura che davanti ad uno sguardo di troppo nessun luogo possa farla sentire davvero al sicuro e che qualcosa di tragico sia sempre sul punto di accadere. “Non mi ricordo le cose belle” dice Nina al vecchio fidanzatino dell’epoca ormai sposato con figli. In ogni angolo c’è un trauma, non la nostalgia. Losche figure che riempiono nascoste ogni angolo di nostra inquadratura. Così ogni donna vorrebbe avere come colore preferito il verde speranza, ma è stata costretta a vestirsi di rosso per essere sempre identificabile, indimenticabile, come il giallo fluo de La Sposa in Kill Bill. All’erta.
Nina cerca vendetta per i suoi ricordi, per quelle immagini allucinatorie che non riesce più a togliersi dalla testa, scolpite nella memoria a riemergere a galla come cadaveri che l’omicida non si è nemmeno premurato di far debitamente affondare. Lettere dell’abbandono anzi perfettamente conservate. Era lei inseguita in un perverso gioco di gesti e non consensi, è lei ora ad inseguire con la maturità di chi ha dovuto conoscere fin troppo bene il paradosso dei suoi stessi sensi.
Così, appena sedicenne, era stata travolta di attenzioni e consigli letterari esotizzanti da un ben più stagionato famoso scrittore locale, manipolatore di storie e sentimenti (un Darío Grandinetti viscido e glaciale). Promesse, regali, segreti: la drammaturgia di un uomo che nei suoi monologhi distrugge qualsiasi altra storia, figuriamoci se di corpo e di donna (“Che cosina bella che sei”). Con il costante alibi di essere apparentemente una persona rispettabile, a cui tutti chiedono una foto o un discorso memorabile.
Jaurrieta avvicina la macchina da presa al noir di Hitchcock e al melò di Almodóvar di cui è stata anche assistente alla regia, con le lente carrellate a stringere sui volti e il contrappunto musicale a richiamare quello anni ’50-’60 di Bernard Herrmann (l’ostinato ritmico per soli archi nel tema memorabile di Psycho, le dissonanze ridondanti e politonali del preludio di Vertigo). Rispetto ai suoi altisonanti riferimenti magistrali il risultato è però ben più programmatico e privo di quel ritmo frenetico e martellante che nel cinema spagnolo ha reso il già citato Sorogoyen il massimo interprete e rappresentante.
Come in May December di Todd Haynes gli scandali sono l’oro delle metropoli e dello show business («Al di sotto di un certo reddito, un caso giudiziario è sempre un semplice fatto di cronaca» diceva Roland Barthes), ma sono anche la condanna a morte dei piccoli villaggi in cui tutti sanno, ma nessuno ha visto, in cui tutti si conoscono, ma nessuno parla. In un’omertà che è il tratto caratteriale e patologico di ogni piccola città è facile dimenticare finché il corpo violentato non è il tuo. Tra gli sguardi girati dall’altra parte nessuno cancella le proprie cicatrici. Perché “le cose fatte male finiscono male e ti crescono dentro”.
La sensazione è di non essere la sola, e chissà quante altre ce ne saranno. Dimenticate.
Un piccolo appunto finale:
Ho visto questo film il 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e credo che, al netto dei difetti, sia per questo ancora più speciale.


THE ASSESSMENT di Fleur Fortune


GAIA BARUSCOTTI

In quanto insegnante ho sempre sognato un futuro in cui i genitori debbano possedere un patentino prima di procreare, ma penso che la soluzione proposta dalla regista Fleur Fortuné nel suo film d’esordio, The Assessment, sia un tantino esagerata. In un futuro distopico, una sorta di Blade Runner à la Yorgos Lanthimos, una casta di burocrati senza nome e senza volto impone alle coppie che desiderano avere un figlio una rigorosa valutazione (da cui il titolo) della durata di una settimana, in nome della salvaguardia delle scarse risorse ancora esistenti dopo un periodo di rivolte sociali e disastri naturali dovuti al surriscaldamento globale.
Ecco quindi che la botanica Mia (Elizabeth Olsen) e il compagno, il genetista Aaryan (Himesh Patel), alla ricerca di una gravidanza, ricevono la visita di una “valutatrice”, Virginia (Alicia Vikander, qui nel ruolo migliore della sua carriera, insieme con quello di Ex machina), che, durante un soggiorno di sette giorni nella loro splendida casa sulla spiaggia, deciderà se possiedono i requisiti giusti per dare alla luce una nuova vita. Ciò che in apparenza dovrebbe essere soltanto un test oggettivo, si rivelerà una sorta di esperimento umano in cui ogni personaggio vedrà sconvolta la propria vita. Le domande invasive, i metodi non ortodossi e gli strani “giochi di ruolo” (se così possono chiamarsi) di Virginia metteranno alla prova non soltanto la stabilità della relazione dei due padroni di casa, ma anche la loro sanità mentale.
La recitazione degli attori è ciò che rende questa pellicola così affascinante. Da una parte abbiamo Olsen e Patel, duo di stimati professionisti che sicuramente possiedono le capacità per allevare un bambino ma forse non quelle per sopravvivere a una settimana di prove via via sempre più assurde, che riescono con pochi gesti e parole a manifestare la loro crescente insoddisfazione l’una per l’altro e la loro sofferta necessità di trovare risposte al di là e al di fuori della loro relazione, e dall’altra Vikander, perfettamente in grado di gestire il passaggio senza soluzione di continuità dal personaggio freddo e metodico che tira le fila della simulazione, una sorta di Intelligenza artificiale calata in un corpo di carne e ossa, a quello idiosincratico ed esplosivamente caotico che distrugge, letteralmente e metaforicamente, ciò che gli aspiranti genitori hanno costruito in una vita intera.
Le performance eccellenti dei principali interpreti si fondono con una regia meticolosa, scientifica, simile allo sguardo di uno scienziato che guarda un vetrino. Fortuné non lascia nulla al caso ed è in grado di creare un mondo al tempo stesso famigliare e alieno, dove persino le architetture e le luci riflettono il senso di straniamento dei personaggi non solo negli spazi che abitano quotidianamente ma anche nella loro stessa pelle - anche qui la lezione di The lobster è evidente. L’unico difetto di una certa entità è la gestione del finale, dove la regista fatica a far convivere il privato e il pubblico, il personale e il sociale, il contingente e lo storico, e dunque le motivazioni dei gesti conclusivi dei personaggi risultano parzialmente inspiegabili al pubblico.
I temi toccati nell’opera sono numerosi, profondi e anche di straordinaria attualità. Oltre a quello più evidente della maternità in un mondo ormai inospitale e irregimentato, dove anche i desideri più intimi devono essere regolamentati e addomesticati, uno su tutti è il rapporto con la natura ormai impossibile sul piano reale ma ricostruito virtualmente, appannaggio delle classi più abbienti. Mia e Aaryan possono fare il bagno in mare quando lo desiderano e superare il secolo d’età grazie ai medicinali forniti loro dal governo perché hanno la fortuna e i mezzi per vivere nel “Nuovo Mondo”, mentre i dissidenti (come la madre del personaggio interpretato dalla Olsen) vengono deportati in una landa desolata, dove è quasi impossibile respirare e non ammalarsi. Inoltre il genetista, per sopperire alla quasi completa estinzione di animali domestici e selvatici a causa di sconvolgimenti naturali e non solo, ha messo a punto una sorta di ologramma che permette di interagire con diverse bestiole, insoddisfatto però di come appaia al tatto la pelliccia, mentre la compagna si dedica alla cura di piante e allo sviluppo di cibi sintetici.
È quindi per concludere: quale mondo stiamo lasciando ai nostri figli? E quali figli stiamo lasciando a questo mondo?


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PONYBOI di Esteban Arango (Concorso) - Vincitore miglior interpretazione


RICCARDO SIMONCINI

«Essere, o non essere, questo è il dilemma.» Una delle frasi più celebri e abusate della storia del teatro, che dall’Amleto di Shakespeare è arrivata davvero ovunque. Essere o non essere, bianco e nero, buono o cattivo, giorno o notte, testa o croce: gli opposti esclusivi, disgiuntivi, mai coordinati. Uomo, donna, o forse no. Perché nel genere, come in tutto, non esistono solo opposti, ma eterne e infinite sfumature. Ma l’intersessualità non è solo un fatto di scelta, non si localizza solo in mezzo “agli altri due”, è essa stessa la terza condizione che anche biologicamente annulla le altre, il gatto di Schrödinger, la moneta che non cade. XXY: i cromosomi in sovrannumero, i diritti in sottonumero.
Come nel recente nuovissimo capolavoro di Jacques Audiard Emilia Pérez, un musical infuocato su un boss del cartello messicano che cambia genere perché mai si è sentito rappresentato dall’immagine virile che gli hanno affibbiato, anche qua il cinema queer incontra il mafia movie. Quegli incontri / scontri di genere (filmico e sessuale) che, come detto prima, escludono tutto e lo riaffermano. Come lo deve fare la medicina nel considerare autonomi tutti gli esseri umani, lo deve fare il cinema, aggiornare la sua semiotica a quella attuale del vedere, del guardare e quindi anche del sentire. La premessa infatti è la più classica dei crime: una lavanderia a gettoni, qualcosa va storto, muore la persona sbagliata (un mafioso obeso durante un rapporto sessuale a San Valentino) e tutto ciò che lì attorno gravitava prende analogamente la piega sbagliata. L’unica grande e sostanziale differenza è che di mezzo c’è tutto un passato, più complicato e delicato di un classico criminale, che qualsiasi persona queer ha dovuto oltrepassare, dopo aver mosso i primi passi e imparato a parlare, crescere con l’idea di essere fatti solo d’ormoni e degli occhi con cui ci vedono gli altri, non sono mai i nostri a respirare. Chiunque ti dice chi essere, dove andare, chi ammazzare, persino chi scopare. Siamo nell’America anarchica del New Jersey, dell’American Dream rotto e polverizzato come la cocaina che puzza di candeggina anche se tutto rimane sporco («Lo sporco non è più strappato dalla superficie, bensì espulso dai nidi più segreti» diceva Roland Barthes raccontando i miti d’oggi), dove i principi azzurri sono cowboy pronti a salvarti e gli spacciatori papponi futuri padri. Ponyboi è un* sex worker intersessuale, allo stesso modo come tutt* ha visto un padre cattolico chiamarlo figlio, sempre al maschile, e un capo sudicio a lavoro vederlo donna, sempre al femminile. Neon intermittenti, synth e slow-motion. Il noir in realtà è solo un pretesto per un mondo sgargiante ma dai sogni rarefatti. Anche se forse un po’ troppo lineare per il caos che vuole raccontare e un po’ troppo scolastico nelle tematiche che vuole affrontare, River Gallo, da anni attivista intersessuale, qui anche penna in una sceneggiatura della perdizione allucinata, si cuce addosso un ruolo e un’interpretazione indimenticabile, che ribalta punti di vista e stereotipi gender, quel “fumo e specchi” che ha confuso gli intersessuali per ermafroditi manco fossero piante. Viene in mente Walt Whitman, il più grande poeta americano, padre del proverbiale “O capitano, mio capitano”, ma soprattutto precursore dell’autentico, felice e paradisiaco sogno americano, ma anche inevitabilmente nell’Ottocento inconfessabile omosessuale. Nella poesia che, qualche anno prima di morire fucilato, Federico García Lorca gli dedica, Whitman è posto, con onore, insieme ai “fratelli di sangue”, agli “uomini solitari in mare”: «Cercavi un nudo che fosse come un fiume, / toro e sogno che unisca l’alga e la ruota, / padre della tua agonia, camelia della tua morte, / e gemesse fra le fiamme del tuo equatore occulto.» È la stessa ambivalenza e reiterata negazione dell’essere persone normali in un mondo di diversi, del non identificarsi in niente se non in se stessi.
Così in un complesso edipico in cui mamma e papà sono estrogeni e testosterone, bisogna scegliere a chi assomigliare tra tutti quegli ormoni. Ma alla fine bisognerà comunque in qualche modo (ri)trovarsi.
Come dice Bruce Springsteen, il mito di Ponyboi, “Even if we’re just dancing in the dark” (“Anche se stiamo soltanto ballando nel buio”). Un mignolo stretto a sancirne la promessa.


THE RULE OF JENNY PEN di James Ashcroft


GAIA BARUSCOTTI

Smettiamo di giocare perché diventiamo vecchi, o diventiamo vecchi perché smettiamo di giocare, chiede ozioso un poster nella casa di riposo dove si svolge interamente The rule of Jenny Pen, secondo film di James Ashcroft. E se il gioco in questione coinvolge un’inquietante bambola per la demenza senile e consiste nel terrorizzare gli altri degenti?In questa sorta di Che fine ha fatto Baby Jane, il colto e rispettato giudice Stefan Mortensen (Geoffrey Rush) viene colto da un ictus proprio nel bel mezzo di una causa contro un pedofilo e per questo ricoverato in una RSA in cui pensa di soggiornare il tempo necessario per riacquisire le forze e la mobilità. Ciò che non sa è che il piccolo universo geriatrico è controllato con sadismo e pugno di ferro dallo strambo Dave Crealy (John Lithgow) e della sua inseparabile marionetta Jenny Pen. Assisteremo quindi al susseguirsi di meschinità e umiliazioni che il perfido duo decide di infliggere agli anziani della struttura e i pochi, coraggiosi tentativi di resistenza di Stefan…o è tutto nella sua mente?
Sin dalle prime battute ci troviamo catapultati, come d’altra parte è successo al vecchio uomo di legge, in un ambiente claustrofobico e governato da regole che ancora ignoriamo ma che violeremo con assoluta certezza, dal momento che chi amministra la giustizia non è, come avviene nel mondo “fuori”, un giudice imparziale, bensì un vecchio perverso e geloso. Lo strumento prescelto per sopraffare gli altri è un pupazzo dal corpo di stoffa bianca solo abbozzato e dal volto di neonato con gli occhi vuoti che in teoria dovrebbe servire a recuperare i ricordi perduti, ma nei fatti viene utilizzato come mezzo per infliggere torture fisiche e psicologiche. Quello che era iniziato come un thriller atipico si rivela un vero e proprio horror quando la marionetta appare prendere vita, divenendo letteralmente e metaforicamente più grande dei pazienti, come se i ruoli si fossero scambiati e il fantoccio giocasse con i corpi e le menti degli anziani impotenti. O fosse diventato, al tempo stesso, giudice e boia, mentre Stefan si trova a vestire gli inediti panni del condannato.
Il tema del potere è sicuramente quello portante. Innanzitutto quello che Stefan possedeva e amministrava in tribunale e che gli viene tolto dalla malattia; in seconda battuta quella degli infermieri e degli amministratori della casa di riposo nei confronti degli ammalati; quello di Dave Crealy e della bambola sugli altri pazienti e perfino sullo staff medico, che non si accorge, o finge di farlo, della sua perversa attività. Ma da dove viene questo potere? E come porvi un freno? La metafora utilizzata nel film del giovane leone ucciso dalle iene sembra suggerire che la legge di natura, più antica dell’essere umano stesso e delle leggi di cui questi si è dotato, prevede l’esistenza di un più forte e di un più debole e l’unica possibilità di cambiamento è che il secondo uccida il primo, prendendone il posto. E dunque o i residenti riusciranno a sconfiggere Jenny Pen al suo stesso gioco, perdendo quei pochi e miseri vantaggi che tale status qui garantiva loro, o saranno destinati a soccombere.
Un plauso particolare va alla fotografia in grado di restituirci l’immagine di uno spazio contemporaneamente ristretto e labirintico che ci spinge a chiederci quali altri orrori ci attendano dietro i numerosi angoli, paraventi, specchi, e al comparto sonoro che ci regala, in alcuni momenti, una cacofonia di suoni ripetuti e stranianti (risate acute, canzoni infantili) per farci vivere la sensazione di mancanza di privacy e di costrizione che il protagonista prova. Ovviamente i due attori principali sono eccellenti e dominano, ognuno a modo suo, la scena - Rush per la sua capacità di passare dall’arroganza alla sottomissione e Lithgow per aver infuso la crudeltà del suo personaggio con una fanciullesca giocosità degna di un gatto che gioca con il topo


HOLY ROSITA di Wannes Destoop (Concorso) - Vincitore Miglior film


RICCARDO SIMONCINI

Quanto può essere problematico avere un corpo ingombrante da sfamare, non di cibo, ma con abbracci, carezze e il desiderio viscerale di essere madre? Nei corpi maschili così abbondanti da riempire vuoti esistenziali è facile trovarli di conseguenza elargire dolcezza, in The Whale e in The Virgin Mountain i “giganti buoni” protagonisti contrastano, quasi per consuetudine, la visione di vergogna che portano fuori: Charlie e Fúsi sono montagne gentili, sul punto di diventare valanghe, ma sempre un piccolo passo più in qua prima di travolgere di amore le persone amate. Ma se sei donna, nella società che ti chiede (o ti impedisce) di essere madre e nulla di più, quel corpo sembra esistere allo stesso modo solo per identificare e proiettare i propri giudizi morali, sociali, politici e nulla di più. Un’umanità cioè che, come spesso accade nei corpi di donna (vedasi The Substance), è disprezzo, al più pietà.
Così la corpulenta Rosita si destreggia tra tanti lavoretti diversi, nessuno definitivo e nessuno realmente sufficiente. Rosita è sola come gli uomini che incontra occasionalmente: con la scusa di arrotondare lo stipendio propone un servizio massaggi che si trasforma ogni volta in amplesso. “Ti è piaciuto? A me è piaciuto” ripete con un’innocenza che sembra negare e non vedere i 60€ che quegli uomini le hanno appena lasciato sul tavolo. Poi prende il preservativo usato e se lo spreme dentro. Rosita vuole essere madre, ma sogna quella cosa così grande che si butta dentro come una bambina pensa di sposare il suo cantante preferito, di diventare principessa delle fiabe o magnifica sirena dalla voce fatata. Condannata dalla vita a quella solitudine, pensa, forse, che solo una vita dentro di lei le possa restituire lo stesso amore che altrove non ha mai ricevuto, se non dalla piccola bambina a cui fa da babysitter che è anche la sua unica (e migliore) amica (“Non è l’età che conta, ma il cuore” dice in un’opera di autoconvincimento).
Così quando rimane effettivamente incinta rimane anche costantemente confusa e indecisa di cosa fare di quella piccola creatura che porta dentro: prima prenota l’interruzione di gravidanza, poi ci ripensa, poi si convince, poi si deprime. Un pendolo emotivo che man mano che l’iniziale sogno etereo della prima parte svanisce lascia il posto alla dura realtà delle responsabilità: il costo che quel figlio richiede, le attenzioni, i debiti da pagare e il tempo insufficiente per occuparsene. La bambola tecnologica che le affidano durante la gravidanza per esercitarsi, che con i suoi suoni preregistrati piange di notte e le richiede di svegliarsi, sembra rendere perfettamente l’idea di questa contraddizione. Solo che, come per qualsiasi giocattolo, non importa se avanzato, si potrà sempre staccare le pile, ma con la stessa tranquillità si potranno staccare anche delle vite? A volte Rosita sembra la mente di una bambina intrappolata nel corpo ingombrante di un adulto (esattamente come il Fúsi di The Virgin Mountain già citato, lì ancora più parossistico, con la paura del sesso e una passione immensa per i plastici della Seconda Guerra Mondiale). Forse però quel suo essere così sprovveduta e un po’ incosciente è in fondo la caratteristica fisiologica di qualsiasi vulnerabilità umana, la paura di non essere abbastanza, la fragilità di non farcela nemmeno a sentirsi fortunata, amplificate però dalle aspettative di una società, di cui si diceva sopra, che vede corpi e donne perfettamente coincidenti, incasellate.
Holy Rosita parte come una commedia disincantata e sfacciata sulla maternità nordica (di cui è Ninjababy è, con esiti più brillanti, la massima espressione) e si trasforma poi in un dramma, fin troppo costruito a tavolino nei sentimenti, dal respiro di forte realismo sociale. C’è un po’ di quel Ken Loach degli ultimi in cui il denaro è anche la moneta dei sentimenti, perché tutto passa da lì, anche l’essere felici (con o senza figli). La dolcezza per le piccole cose è invece la stessa di quella piccola perla inglese che è Pin Cushion, inedito da noi in Italia, su una madre “strana” e la sua rossissima figlia che devono sopportare tra i giudizi di tutto il paese ogni sorta di cattiveria e umiliazione gratuita. In Holy Rosita però accade molto poco, la sceneggiatura zoppica a più riprese e in un attimo (o forse sentendo tutti i 90 minuti) la gravidanza è arrivata al suo termine senza nemmeno una visita ginecologica. Accettare di essere qualcuno prima ancora di essere madre. Sappiamo già che andrà tutto bene.


MADAME IDA di Jacob Møller - Vincitore miglior interpretazione


GAIA BARUSCOTTI

Una ragazza silenziosa vestita di nero aspetta fuori dall’ufficio del direttore.
Una ragazza silenziosa vestita di nero aspetta mentre osserva il mare dal battello.
Una ragazza silenziosa vestita di nero aspetta mentre gli amministratori dell’orfanotrofio cercano di convincere la Madame Ida del titolo a accoglierla nella sua sontuosa casa.
Tutti sono il prodotto dell’amore o della sua mancanza, dice il regista Jacob Møller nel presentare il film. E sicuramente chi ha ricevuto amore sarà in grado di donarlo ai figli, chi ne è stato privo non saprà amare. Quale amore riuscirà a concedere al figlio che porta in grembo la quindicenne orfana Cecilia, se l’unico contatto umano che ha conosciuto nella sua breve e misera vita è quello della violenza sessuale del responsabile della struttura? Meglio allontanarla, nasconderla, dimenticarsene, almeno per un po’, affidandola alle “cure”, se così si vogliono chiamare, della ricca e solitaria Ida, alla disperata ricerca di qualcuno da amare, e della sua domestica, la silenziosa e ieratica Alma. Ovviamente non c’è posto per Cecilia nell’immensa villa, tanto ricca di mobili e argenteria quanto povera d’amore, e quindi, portata a termine la gravidanza, dovrà tornarsene da dove è venuta, abbandonando, anche lei, il neonato a un’altra donna.
Il film è uno studio che non concede scampo su tre diverse generazioni di donne - Alma, la più anziana, che ha conosciuto lei stessa il dramma dell’orfanotrofio , diventa da mera esecutrice degli ordini della padrona, fredda e distaccata nei confronti della nuova arrivata, una sorta di nonna accogliente; Ida, donna matura, conoscitrice del mondo e dei suoi meccanismi, chiusasi da sola nella gabbia dorata della dimora signorile come il suo canarino, finge di amare Cecilia ma, una volta ottenuto ciò che vuole, non esita a girarle le spalle; infine Cecilia, alla disperata ricerca di affetto ma priva perfino del linguaggio per articolare le sue necessità. Come negli spettacoli che Ida metteva in scena durante le sue scatenate feste, Møller colloca su un palcoscenico immaginario le sue tre protagoniste e le fa recitare un copione non scritto ma non per questo meno vincolante: aleggia in tutta l’opera un senso di ineluttabilità a cui è vano tentare di sottrarsi perché un regista ignoto ha già scelto per loro e ha previsto perfino i loro inutili tentativi di rivolta.
È sorprendente che si tratti di un’opera prima. Møller dimostra di possedere già una visione autoriale matura e la capacità di gestire un materiale umano ricco e stratificato che si muove in una sorta di limbo generato e governato dal bipolarismo maligno di Ida. Notevolissima è la scena culminante della cena che, nelle intenzioni di Ida, dovrebbe rappresentare il suo trionfo sugli altri e sulla natura stessa, presentando agli amici la neonata e spacciandola per sua, ma si concretizza in un gioco al massacro da cui tutti escono sconfitti. Il film non risulterebbe così riuscito senza la fotografia di Stroud Rohde Pearce, inesorabile nel creare architetture chiaroscurali da incubo kafkiano, le scenografie di Amalie Skovhus Petersen che non sfigurerebbero in Namai di Šarūnas Bartas, e la musica austera e implacabile di Kaspar Kaae.


THE RETURN OF THE PROJECTIONIST di Orkhan Aghazadeh (Concorso Documentari) - Vincitore miglior documentario


RICCARDO SIMONCINI

Quattro case sperdute in mezzo alle montagne al confine con l’Iran. Strade fangose e dismesse. Il cinema lì non esiste più. Sostituito solamente da televisioni a tubo catodico dalle tinte rossastre moralmente più esplicite dei peggiori film indiani. Il cinema è esistito però, in un tempo passato che adesso sembra soltanto un’eternità fa. Si rideva in sala tutti assieme, in un momento che era anche ritrovo di quell’isolato villaggio rurale, un collettivo ora ridotto semplicemente alle partite di calcio tra scapoli e sposati. Come nel meraviglioso documentario Retratos Fantasmas di Kleber Mendonça Filho, dedicato alla città di Recife, in Brasile, e ai suoi cinema con “l’odore di marea, di frutta e di piscio”, le poltrone sono vuote, le sale sono chiuse da “una chiave di lacrime”, ma non c’è alcuna nostalgia.
The Return of the Projectionist è un documentario semplice quanto umano, naturalistico e meditativo come il miglior Michelangelo Frammartino, il ritorno di un vecchio uomo al suo sogno, un anziano cinematografaro e riparatore di televisioni a cui non è rimasto più niente, nemmeno oggetti e apparecchi da salvare e aggiustare. Nel giorno stesso in cui scoppia la guerra russo-ucraina il suo unico figlio muore in un incidente sul lavoro. Come un Nuovo Cinema Paradiso ambientato in Azerbaigian, quel proiettare immagini rimane però tutta la sua vita, solo che lì provare a sostituire una lampadina di un vecchio proiettore sovietico è un’impresa più ardua che scalare una montagna, figuriamoci cercarla online. Il segnale che non prende, le improbabili traduzioni dall’azero al russo all’inglese per ampliare le ricerche su un web etereo come nebbia. Anche quando si riesce ad ordinare il bulbo più adatto ovviamente non arriverà a destinazione così facilmente, in una fantasmagorica attesa di teli bianchi confezionati dalle donne del villaggio come schermi e di autorizzazioni dai piani alti per adibire il palco locale a sala cinematografica. Quella terra è stata dimenticata da Dio ma forse non dai sogni umani.
Nel già citato capolavoro di Salvatores il piccolo Totò faceva di tutto per intrufolarsi in sala e scoprire i segreti del cinematografo («Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del Paradiso quando eri picciriddu»). Qui il proiezionista Samid, nelle locandine spillate in giro per il villaggio ritratto in posa davanti al suo nobile proiettore, si fa aiutare da Ayaz, un giovane sveglio e appassionato. Nelle mani di Ayaz, ancora vergini ma già da abile artigiano che ha imparato ad arrangiarsi con il niente, viene costruito un nuovo primordiale proiettore, con una scatola di legno e qualche lente d’ingrandimento arroccata alla buona: anche un’immagine fissa basta a far rinascere la speranza. Ma in quel giovane che ha scoperto la stessa magia ottica con cui Méliès creava spettacoli illusionistici per il grande pubblico nasce ben presto anche il sogno di fare lui il suo cinema. Con un piccolo telefonino, gli strumenti del rotoscoping digitale e un doppiaggio recitato in diretta, Ayaz anima a mano ciò che la realtà non gli può mostrare. Disegna cavalli galoppanti, armi fumanti, duelli all’ultimo sangue. Nell’epoca del campionamento elettronico, la natura incontaminata regala invece ogni suono per farne la traccia ambientale in foley dei propri rudimentali esperimenti visivi. Sembra di rivivere l’artigianalità sognante del piccolo Sammy / Spielberg di The Fabelmans, le mani giunte ad inventare un nuovo modo di vedere.
Alla prima proiezione pubblica accorrono orde di bambini. Nei loro occhi curiosi che per la prima volta guardano quello schermo sgangherato si compie la magia. Il cinema è risorto, o forse è stato di nuovo inventato per la prima volta.


NIGHTBITCH di Marielle Heller


GAIA BARUSCOTTI

La maternità rende bestiali. E no, non stiamo parlando delle occhiaie dovute alle levatacce notturne, dell’instupidimento per l’ascolto ininterrotto di canzoncine per bambini o della scarsa igiene perché i bisogni dei figli vengono prima di quella di fare una doccia…intendiamo proprio che si diventa, sul serio, degli animali.
La “Nightbitch” del titolo del film di Marielle Heller, che gioca sul doppio significato di “stronza” e “cagna”, è quella che nei titoli di coda viene semplicemente definita “la Madre” (Amy Adams), mamma casalinga e appesantita che ricorda con nostalgia i tempi in cui era un’affermata artista, mentre aspetta che il marito (Scott McNairy) ritorni dai frequenti viaggi di lavoro. La sua vita ruota interamente intorno alle necessità e ai capricci del figlioletto e, nonostante questo, si sente costantemente inadeguata come madre, moglie, donna, per non parlare della sua carriera nel mondo dell’arte che appare ormai naufragata. Osservando il visetto paffuto del pupo, comprendiamo perché la donna abbia scelto, non sappiamo quanto liberamente, di lasciare il lavoro e quale profondo amore leghi i due, ma capiamo anche che la Madre ha dovuto rinunciare a tutto ciò che era, aveva, faceva per essere lì a giocare alle costruzioni. Del fuoco che le bruciava dentro non è rimasto che un cerino. Apparentemente non c’è via di fuga dalla routine monotona fatta di colazioni, pannolini, bagnetti, favole in biblioteca, racconti della buonanotte che non riescono mai nel loro intento. Il suo corpo trascurato nasconde, però, un segreto: ciuffi di pelo ispidi iniziano a crescerle sul corpo, i denti si fanno più aguzzi, l’olfatto più sensibile, una coda le spunta dalla bassa schiena, addirittura si formano altre mammelle sulla pancia. Per niente spaventata dal cambiamento, ma anzi vagamente divertita, la mamma ritrova in sé una nuova energia per affrontare le tediose giornate, un rinvigorito interesse per il marito, un’inaspettata simpatia per le altre genitrici, un insperato coraggio nell’incontrare nuovamente la sua cricca di artisti dopo aver appeso il pennello al chiodo. Ma soprattutto il suo desiderio di compiacere gli altri, la capacità di sopportare battutine e frasi fatte e il disperato tentativo di essere percepita come una “brava madre” lasciano il posto a una furia cieca e non-umana.
Il problema principale è che essa rimane confinata nel mondo dell’immaginazione, tolta una scena che non riguarda, però, un essere umano, bensì un animale domestico, e pertanto la metamorfosi della Adams non ci spaventa particolarmente, non viene percepita come minacciosa ma come un divertissment innocuo, che rientra nella lunga tradizione che vede le donne maggiormente capaci di cambiamento, di ciclo di luna in ciclo di luna, di anno in anno. Il film quindi, lungi dall’essere veramente trasgressivo o rivoluzionario, è semplicemente un’ironica fantasia di liberazione, in cui l’happy ending finale, invece di soddisfarci, ci porta a chiedere se il film avrebbe potuto colpire più forte e più in basso. La mutazione in cane della protagonista non permette di esplorare in profondità i temi della maternità e non incide sul fluire della storia, apparendo più come una storia secondaria, piuttosto che il motore della vicenda ed elemento talmente fondamentale da dare il titolo al film. Il filo conduttore, in una forma Hollywood-friendly, è, infatti, il rapporto tra i due coniugi: la scelta di allontanarsi dal materiale di origine può anche funzionare, dal momento che le aspettative di genere dipendono in larga parte dal patriarcato, di cui i mariti possono e spesso sono espressione. Ma così facendo viene meno la metafora del recupero di un più genuino rapporto con il proprio essere donna, incarnato dalla metafora animalesca; inoltre, le narrazioni di figure femminili sono troppo spesso mediate da uno sguardo maschile e la giustapposizione scoperta di sé-coppia crea confusione, annacquando il messaggio del film. Un’occasione parzialmente mancata per Heller che, se non altro, permette ad Amy Adams di elevare il materiale con cui opera, lavorando, in maniera egualmente ottima, sul piano del realismo-magico, della commedia e del body horror.
Quindi, la prossima volta che vedrete una madre alle prese con i capricci del figlio al supermercato o al ristorante, fate un bel respiro profondo, sorridete e portate pazienza: non potete neppure immaginare in quale animale si stia trasformando.


I’M NOT EVERYTHING I WANT TO BE di Klára Tasovská (Concorso Documentari) - Vincitore Premio speciale della giuria documentari


RICCARDO SIMONCINI

La premessa è semplicissima: le scansioni di (quasi) tutte le foto che hai scattato nella tua vita, mentre una voce fuori campo legge i tuoi personalissimi diari. Una struttura al limite del banale si potrebbe pensare, nella forma di un elementare slideshow commentato. Ma la regista Klára Tasovská trasforma ogni più piccolo dettaglio in una vitalità che solo il montaggio del grande cinema può permettere. In quelle “semplici” foto in bianco e nero c'è tutta l'urgenza di una fotografa, la cui arte è la sua stessa vita. Perché, quando le tue foto e le tue parole sono tutto, bastano a se stesse anche in un documentario. Perché chi altro, a parte te e meglio di te, potrebbe documentare la tua vita? Perché chi altro vorrebbe farlo?
Libuše Jarcovjáková è una delle più grandi fotografe ceche, la “Nan Goldin di Praga” come l’ha definita il New York Times, occhio privilegiato sui margini della vita underground dal ‘68 ai giorni nostri, scoperta e accettata solo dopo oltre 50 anni di oblio, di rifiuti, di silenzi politici e sociali. Respinta dalle scuole perché troppo rivoluzionaria e non “abbastanza operaia”, non conforme alle regole di un sistema tradizionalista (gli zingari di Koudelka come unico riferimento polare e popolare), in mezzo alle grandi rivoluzioni del Novecento Libuše reclama la sua libertà, annuncia la sua indipendenza, vive secondo le sue stesse condizioni. In occasione della (prima) grande mostra in suo onore organizzata dal Festival di Arles (solo) nel 2019 nasce questo film. Tasovská lascia che la fotografia anticipi la fotografa, che l’arte parli da sola, o forse lasciandola parlare attraverso ciò che ci scatena dentro - che è anche il merito più grande di questo documentario: inventare e ricreare un mondo fotografico infinito oltre le foto partendo dalle sole foto. È anche la grande differenza che lo separa dal documentario convenzionale e puramente cronachistico su Nan Golding All the Beauty and the Bloodshed (incomprensibilmente premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 2022) e che lo avvicina invece a Pino di Walter Fasano, dedicato al grande scultore “povero” del Novecento: il movimento del cinema è nella vita stessa del montaggio (Fasano è lo storico montatore, tra gli altri, di Luca Guadagnino). Così in un flusso di coscienza narrato dalla stessa Libuše, ora 72enne, si rincorrono qui varie fasi della sua vita. I primi esperimenti di ripresa a 16 anni sul ponte di Praga, i viaggi nella Berlino del muro e in Giappone (con una breve incursione felice anche nella fotografia a colori che negli anni ‘80 diventava popolare). Ma anche le esperienze sensoriali, gli amori poligamici di una notte infinita (un soffitto che sa di sesso, il dettaglio di piedi nudi della sconfitta). Balli, sballi, sbornie. La vita edonistica si compie all'interno di gay bar clandestini. “Tutto passa troppo in fretta per capirci qualcosa, l’unico modo di sopravvivere è fotografarlo” dice. Una brutale onestà espressiva che ricorda quella letteraria di Annie Ernaux, premio Nobel nel 2022, che nel suo brevissimo e freschissimo di stampa La scrittura come un coltello dichiara fin dal titolo i suoi intenti, una «transustanziazione» per dirla con i suoi termini, ossia una «trasformazione di ciò che avviene al vissuto, a ‘me’, in qualcosa che esiste completamente al di fuori della mia persona».
L’unica vera costante per Libuše è però una tristezza pervasiva e permanente, sospesa in singoli momenti dall’alcol e dalle lunghe passeggiate in tondo. Gli unici antidepressivi chimici che risultino davvero efficaci sono infatti gli acidi della camera oscura con cui sviluppare e svilupparsi al consumarsi delle scarpe.
Libuše si auto-ritrae, si cerca negli specchi del suo obbiettivo, a testimonianza di un’esistenza prima ancora che di uno sguardo. Così la fotografia da pura e onnipresente forma di racconto si rivela in tutte le sue contraddizioni: è il segreto che la polizia socialista cerca con la forza perché la macchina fotografica di Libuše vede tutto, compreso quello che non avrebbe dovuto, ma è anche e sopratutto quell’immagine latente, forse del tutto assente, che invece mai è stata vista, di chi siamo veramente, al di fuori delle nostre fotografie. L’unico rullino completamente bruciato o perduto. Il mistero stesso della fotografia. “Mi guardo continuamente”.


DISSIDENT di Stanislav Gurenko e Andrii Alferov - Vincitore menzione concorso


GAIA BARUSCOTTI

Suppongo che nelle intenzioni di Stas Gurenko e Andriy Alferov Dissident avrebbe dovuto essere un potente J’accuse nei confronti di Putin e della sua “operazione speciale” in Ucraina, ma purtroppo ci troviamo di fronte a un film che punta talmente in alto da non alzarsi da terra.
La pellicola, dedicata alla memoria della zia di uno dei due registi, dissidente che ha subito la dura repressione e la deportazione nel gulag, e di tutti i sostenitori delle libertà politiche e sociali in opposizione alla tirannide sovietica, ha per protagonista Oleg, veterano della Seconda Guerra Mondiale e fautore dell’indipendenza ucraina che, liberato dalla prigionia nell’ambito del progetto di “disgelo” di Brezhnev nel 1968, fatica a riadattarsi alla quieta vita domestica e lavorativa, oltre che all’invasione di Praga e alla Beatles-mania che ha contagiato perfino il mondo al di là della Cortina di Ferro. Vive con la moglie Vilena, operaia tessile in una fabbrica del Partito comunista ucraino, e lo zio di questa, che passa il suo tempo ad ascoltare di nascosto le notizie dall’estero. Nelle loro vite comparirà, all’improvviso, lo scrittore Taras, che tra un sogno di vincere il Nobel per la letteratura e un litigio con i quadri dirigenti per aver espresso l’intenzione di scrivere un libro sul controverso Stepan Bandera, contatterà Oleg per raccogliere informazioni sull’Esercito insurrezionale ucraino, di cui questi faceva parte. Tra una cosa e l’altra riuscirà anche a sedurne la moglie ed essere reclutato come spia del KGB al fine di spiare Oleg che, nel frattempo, si è nuovamente unito al movimento di opposizione sotterraneo. Intorno ai tre protagonisti ruotano una serie di personaggi, per noi spettatori abbastanza criptici: un prete che pratica segretamente il culto nelle case dei credenti e nella fabbrica in cui si improvvisa operaio, una fedele che litiga con il fidanzato universitario perché quest’ultimo non è abbastanza dedito alla causa, una vicina di casa poco più che adolescente che, incomprensibilmente, canta, in inglese, una canzone scritta di suo pugno.
Immagino che questa scelta stilistica abbia una qualche motivazione, forse farci vivere concretamente lo spaesamento di Oleg nel ritornare alla vita civile, ma agli occhi degli spettatori non è altro che un confuso e fastidioso sovrapporsi di nomi, volti, gesti, storie. A ciò si aggiungono degli inserti documentaristici di scene di vita del periodo in cui si svolge la vicenda con relativo commento fuori campo che, più che dipanare la matassa di interrogativi, interrompono il ritmo del racconto e dialoghi più adatti a personaggi di un’opera teatrale drammatica piuttosto che a persone in carne ed ossa. La scansione in quattro capitoli, inoltre, ci spinge a pensare, se non sperare, che ci attende un gran finale in cui tutte le vicende trovino compimento e spiegazione e, invece, assistiamo a un riferimento esplicito alla guerra in Ucraina, che smorza ogni possibile tensione.
Peccato, perché l’immagine con cui si apre l’opera, quella di Oleg che si auto-immola dandosi fuoco, faceva presagire un film molto diverso. Decisamente migliore, viene da dire.


THE VILLAGE NEXT TO PARADISE (di Mo Harawe, Zibaldone)


RICCARDO SIMONCINI

Un villaggio remoto e poverissimo fatto di pietra squadrata e verniciata, con quattro lamiere incastrate a separare il sole dal mare, l’amore e la speranza segregate sotto terra, dove nemmeno un secchio vuoto possa più arrivare, nella canicola costante che lì coincide anche con l’unica e sola stagione dell’anno. Siamo nella Somalia post-guerra civile, hot zone bombardata dai droni americani e dal loro boato, ma poverissima fin dalle sue stesse mani e radici tra la gente comune scambiata erroneamente per pirata, un luogo circoscritto e ancora tribale chiamato incomprensibilmente Paradise («Meglio regnare all'Inferno, che servire in Paradiso» diceva Satana nell’epica del Paradise Lost di John Milton). Generazioni di vite piegate dal vento che si incontrano e si scontrano. Ma soprattutto cercano disperatamente un modo di sopravvivere. Persino scavare le fosse per seppellire cadaveri smembrati lì è una professione (con tanto di listino prezzi per tipo di terreno e di corpo), una delle tante per arrivare a fine giornata, con una paga misera e i debiti alle stelle (“Dove sono i miei soldi?” ripetono tutti come in un’universale preghiera venale). Quando manca denaro si barattano o pignorano oggetti, persino gli effetti più personali, lo scambio tra gli ultimi per gli ultimi.
Le istituzioni moderne e civilizzate come le banche e gli uffici pubblici sono sì arrivate ma senza portare reale ed effettivo progresso, mantenendo quella contraddizione secolare di cui il colonialismo è la massima espressione: nessuno ha i documenti, l’ombra dei vecchi capi clan sovrasta ogni legge e prestito, e se sei donna devi pure avere la garanzia di tuo marito. Il matrimonio stesso si celebra per ricevere denaro o rimediare ad una gravidanza indesiderata, mentre il divorzio viene concordato perché i figli non si possono più concepire, non certamente per la fine di un amore.
Il primissimo film somalo nella storia del Festival di Cannes ad essere nella selezione ufficiale racconta l’Africa più ruvida con sguardo sincero e autentico, forse sì un po’ dilatato e ripetitivo, ma comunque preciso e attento nel descrivere in quadri statici dai colori caldi un mondo troppo spesso filtrato invece dall’impetuosa retorica occidentale di artificio e finzione (la troupe e il cast sono qui invece completamente somali). Emerge un continente segnato profondamente dalla sua storia, incatenato nella povertà che qualcuno gli ha imposto. Come nel bellissimo A Screaming Man, proveniente in quel caso dal Ciad, qualche Stato poco distante dalla Somalia, su un ex campione di nuoto ora custode di una piscina ma troppo vecchio per occuparsene (“Non sono io ad essere cambiato, è il mondo che è cambiato”), non c’è lavoro che tenga all’età che avanza e alla fatica che si accumula, tra i capi religiosi ed economici solo i giovani possono provare ad evitare di essere schiacciati.
“È meglio non avere figli” dice invece qualcuno in The Village next to paradise. Ma il piccolo Cigaal, il vero protagonista del film, sembra comunque la salvezza del villaggio, l’unico vero motivo per cui quel luogo possa chiamarsi Paradise. Cigaal è un bambino intelligentissimo, sogna paradisi di dolci da mangiare e vaga alla ricerca di qualcuno a cui raccontarli. Riempie di scarabocchi ogni parete e lavagna, linea ininterrotta che si muove come lui libera di essere tutto e ovunque. Con una maschera intagliata di cartone appena appoggiata al capo accompagna a lavoro (ai lavori) il padre, uno dei tanti tutto-fare, ma nulla-avere. Con lui c’è un’intesa silenziosa, intima, complice. Ma mentre le scuole chiudono per mancanza di insegnanti e fondi, e al massimo gli viene insegnato come difendersi dai droni, per Cigaal come unica alternativa si profila il collegio, “la scuola aperta anche di notte”. Dormitori e uniforme, ma soprattutto la distanza dal proprio Paradise familiare e un costo ingente a cui dover provvedere. La zia intanto con il denaro che riesce a racimolare sogna di aprire la sua piccola sartoria. Quel sognare viscerale ed esistenziale che guidava anche i personaggi sospesi di Air Conditioner, un’Angola fatiscente e decadente fatta di condizionatori che cadono dai palazzi, elettricisti stregoni e guardie della sicurezza fantasmi, con la sola musica che possa dare un’ultima e sommessa speranza.
In un mondo in cui il gesto più comune e automatico è contare i soldi, scorrere (e far correre) le mazzette tra le dita, e in cui per la costante preoccupazione di cercare un nuovo lavoro (e riuscire ad ottenerlo) ci si dimentica del proprio figlio, in quel mondo anche i bambini iniziano a non ricordare più le storie dei loro sogni. E che vita può esistere senza sognare? L’unica cosa che ancora non si può comprare. Scarabocchi.


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