Madeline’s Madeline (di Josephine Decker)
Ecco che arriva il film-esperienza di questo TFF36.
Un racconto di formazione che prende le tinte di un thriller psicologico a tratti sperimentale. Un’esperienza immersiva nella vita di una sedicenne che sta crescendo. Che vuole crescere, soprattutto. Che vuole rendersi indipendente. Soprattutto perché quella ragazza di nome Madeline in passato ha dovuto affrontare una malattia psichiatrica, da cui ora si sente guarita. La madre, però, non è del tutto convinta della sua guarigione. La vede, infatti, come una persona debole, fragile, perennemente in pericolo e per questo bisognosa di aiuto. Madeline invece si sente indipendente, semplicemente diversa, incompresa probabilmente da tutte le persone che ha attorno. L’unico luogo in cui possa sentirsi a suo agio è il teatro. Un teatro sperimentale dove si annulla ogni tipo di limite. Un teatro dove ci si può finalmente sentire normali. Il ballo, il corpo, la musica, la voce, il ritmo, i costumi, le maschere: tutto diventa una liberazione. Tutto consente di scoprire una parte di sé prima nascosta. Madeline quando è sul palco esprime ed esplora se stessa, scoprendo e creando il suo Io. Ed è proprio così che, attraverso quel teatro, lo spettacolo si fonde con la vita. La realtà e la finzione scenica si sovrappongono. L’improvvisazione teatrale (così come il pathos teatrale stesso) diventa imitazione di una quotidianità difficile da accettare. L’eccesso di maschere, balli e musiche diventa un pretesto, invece, per camuffarla e confonderla quella realtà. Come se Synecdoche, New York (di Charlie Kaufman) avesse un’adolescente come protagonista. E in fondo forse la grande e vera malattia di Madeline è proprio quella di essere un’adolescente.
Marche ou crève (di Margaux Bonhomme)
Il confronto con una persona disabile da parte di un’intera famiglia raccontato attraverso uno sguardo che rifugge banalità e pietismo. Le musiche strappalacrime tipiche di queste tematiche lasciano lo spazio ai suoni onomatopeici che la diversamente abile Manon usa per comunicare. Suoni, come versi, per dire sì e dire no. Per esprimere allegria o rabbia. Questi suoni continuamente tornano nel film, scandendone il ritmo. Quei suoi che pian piano impariamo ad interpretare. Diventiamo noi stessi parte di quella famiglia. Siamo, cioè, immersi in un mondo che non è triste, ma semplicemente incompreso, difficile e spesso doloroso. Un mondo che, come detto, diventa anche nostro. E non è un caso che alla regia di questo film ci sia il debutto di una fotografa, Margaux Bonhomme, attenta ai dettagli, a suoni, ai gesti, immortalati nella loro durezza, come in una fotografia. Così questo approccio registico ci obbliga a rimanere lì, in quel mondo, in quella famiglia. Cerchiamo di interpretarlo a fondo, di dargli un senso e forse cerchiamo pure di fornire soluzioni alle problematiche ad esso associate. Ma queste non si trovano. Perché paradossalmente quel mondo è troppo vero e reale per essere del tutto compreso.
Tutti provano pietà, ma nessuno esterna compassione. Tutti giudicano dall’alto, a debita distanza. Nessuno prova, invece, ad avvicinarsi a quella famiglia, a comprenderla. Per questo acquisiscono valore gli abbracci, le carezze, le strette di mano che vediamo all’interno del nucleo familiare. Un bisogno di contatto fisico che è invece del tutto assente nelle persone che interagiscono con Manon. Perché, in effetti, è facile avere pietà, difficile invece è andare avanti, vicini, a contatto con la disabilità. Come se fossimo su una parete da scalare, di cui spesso è difficile vederne persino la fine. In cui la fatica si fa sentire ad ogni passo. In cui in ogni momento si pensa sia meglio mollare. Anche perché è un attimo cadere. È un attimo perdere quel contatto fisico.
Vultures (di Börkur Sigthorsson)
Tra i diversi metodi sfruttati per il traffico di droga c’è quello basato sugli ovuli di plastica ingeriti dai trafficanti. Vultures parte proprio da questo: in particolare dalle complicazioni di quel trasporto di cocaina che avrebbe dovuto invece concludersi facilmente senza problemi. Qualcosa va storto e in poco tempo tutto si complica. Il film stesso vive di questo crescendo di tensione e azione che va pian piano a crearsi (anche se spesso in maniera troppo classica e prevedibile). Una tensione che si gioca principalmente sul piano personale. In effetti il vero pregio del film è proprio quello di concentrarsi prevalentemente sull’intimità dei personaggi, sul loro modo di confrontarsi con la dura realtà che li circonda, una realtà governata da qualcosa di incontrollabile, qualcosa che non si vede, ma che si percepisce. Le associazioni criminali, i cartelli della droga e tutte quelle organizzazioni tanto abusate nel cinema di genere rimangono sullo sfondo. Ma è proprio quello sfondo di Islanda, così duro, freddo e desolato il luogo in cui i personaggi interagiscono. Personaggi che, come detto, sono semplici esseri umani, con bisogni, desideri e paure altrettanto semplici. Personaggi che per diversi motivi, come già detto, si sono ritrovate in un mondo più grande di loro, in cui non contano nulla e in cui non ci si può affidare a niente e a nessuno. Un mondo desolato, dove è facile perdersi ed essere dimenticati.
Yo! The witch in the window!
RispondiElimina(ah beh, poi tutti i bla bla bla che servono per fare una frase di senso compiuto, con vari "consiglio, horror, rapporto familiare" etcetc)
Eliminanon avendo visto i film e letto le recensioni non capisco un cazzo di quello che hai scritto ma è sempre un piacere leggere i tuoi grammelotiani telegrammi
EliminaGhgh!
Elimina"Un modesto, forse, ma sicuramente bel film horror che procede evitanto stereotipi del caso? Con un non troppo urlato e interessante scorcio su rapporti familiari e affetto? Se ti garba ciò, ti consiglio la visione di The witch in the window".
ah! era un titolo quello del primo commento
Eliminae che cazzo ne sapevo, ero convinto facesse riferimento a qualcosa scritto da Riccardo ;)
Sì in effetti io stesso non capivo a cosa si riferisse il commento ;)
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