1.12.24

Torino Film Festival 2024 - Recensioni di 15 (!!!) film - di Gaia Baruscotti e Riccardo Simoncini


Io sti ultimi due anni sto saltando Torino sia per quanto riguarda il ToHorror che il TFF (entrambi molto a malincuore) ma continuo sempre ad avere scagnozzi per coprire tutto (altro che scagnozzi, tempo due mesi me rubano il posto).
Non so se in rete esista un reportage così completo dell'ultimo Torino Film Festival, non credo.
15 film, 15
E non con poche righe l'uno eh, perchè Riccardo e Gaia (grandi penne) si sono superati, riuscendo a fare recensioni esaustive per ogni film.
Appuntatevi i titoli perchè spessissimo questi articoli nascondono perle che vedremo qui da noi nel biennio successivo.
Grazie Riccardo, grazie Gaia e grazie Gianluca per il solito straordinario aiuto nell'impaginare tutto.
Buona lettura!

THE SUMMER BOOK di Charlie McDowell  (Fuori Concorso)


RICCARDO SIMONCINI

Esistono tante storie estive: quelle, come in Chiamami col tuo nome, di amori sbocciati come margherite e poi recise con violenza nel primo giorno di temporale, ma anche quelle di bambini in crescita che nel tempo sospeso delle vacanze decidono di diventare grandi tutto in una volta, in fretta e furia velocizzano esperienze, primi baci, prime innocenze perdute, come l’iconico quartetto anni ’80 di Stand by me. Esiste anche però un’estate da ricordare, come quella poetica di Aftersun e Petite Maman, di tragiche cartoline familiari da scolpire e conoscere per la prima volta prima che sia troppo tardi. The Summer Book recupera soprattutto quest’ultimo orizzonte intimista, integrando però anche i primi due: un’estate, una bambina, sua nonna (due performance attoriali di Glenn Close e Emily Matthews tra le migliori dell’anno). Un rapporto familiare che ha la stessa intensità dell’amore (passeggero ma indimenticabile) e la stessa spensieratezza dell’infanzia (dove non esiste nulla a parte un sole illustrato), ma inevitabilmente ha anche lo stesso preludio mortale e tombale. Come se l’estate intrinsecamente contenesse già l’inizio e la fine, il partire e il ritornare, come ogni famiglia sulla sua macchina ricolma di valigie e cibo in viaggio con destinazione mare. Qui il paesaggio non è però riempito di turisti, di palle svolazzanti in cielo insieme ai gabbiani cigolanti e i secchielli colorati colanti cocco e sabbia mischiati. È la Finlandia insulare dei fiordi a strapiombo, dai profili spigolosi e scavati, del verde che il vento ingiallisce, delle casette di legno isolate che dominano ogni orizzonte oceanico, con le assi così irregolari da lasciare sempre aperte sottili feritoie attraverso cui spiare il mondo circostante. Con la pioggia che fa capolino e i fuochi d’artificio artigianali che non funzionano mai del tutto, la festa di mezza estate sembra più la festa di mezzo inverno. Ma è solo una sensazione, perché in mezzo alle alghe aggrovigliate, alle barche a remi attraccate e agli aghi di felce da stringere in bocca, la Natura si compie al disgelo all’ennesima potenza. Panorami dell’anima e di atmosfera che sembrano usciti dalle lunghe descrizioni incantate di Cime Tempestose di Emily Brontë («Credo che in tutta l'Inghilterra non avrei mai potuto trovare un luogo così discosto da ogni rumore mondano»): anche lì il paesaggio dell’aspra brughiera superstiziosa dello Yorkshire era presagio di un racconto di formazione che doveva inevitabilmente avvenire.
Il piccolo e dolcissimo caschetto biondo di Sophia si muove rapido, curioso di scoprire quel luogo in cui ad ogni angolo e zolla di terra il passato ha lasciato un oggetto del suo passaggio, dove sulle rocce calde è rimasta ancora l’impronta dei piedi candidi del padre bambino che da lì si è tuffato e ancora aleggia l’ombra di una nonna giovane che è stata tra le prime donne scout. Sophia riempie di natura l’innocenza curiosa tipica della sua età. “Esistono le formiche in paradiso?” chiede teneramente come si chiede qual è il senso della vita, perché mamma non c’è più, perché papà sta sempre per i fatti suoi. Dopo la morte della madre, Sophia è infatti legata intimamente più alla nonna che al padre, serioso e solitario sempre intento a disegnare. “La puzza del dolore”. Con la nonna Sophia scopre il mondo, risolve i suoi dubbi e le sue paure, le intaglia nel legno per gettarle in mare aperto, ritrovando la serenità dopo un lutto in cui la Natura rigogliosa ma brutale non ne ha rispettato le sentite condoglianze. Persino quando prega Dio è come se Sophia parlasse con sua nonna, gli (le) domanda di far succedere qualcosa, ma ritira subito la richiesta quando compare la tempesta. “Perdona il disturbo” gli (le) dice con senso di colpa. Quella nonna, energica e vigorosa nonostante un decadimento fisico e mentale ormai irreversibile, è l’esatta personificazione e della natura, Madre-Natura, Nonna-Natura, in quel paesaggio che è lei stessa, da 47 anni a questa parte un unico respiro e carezza fuso nello stesso immutato locus amoenus, nudo e vivo, l’Ogigia salvifica e paradisiaca in cui la ninfa Calipso accoglie (e trattiene) Ulisse nell’Odissea («in un’isola cinta dalle acque, dove è l’ombelico del mare» – Canto I). Quella nonna ti guarda, sorride e ti vede non crescere mai, anche se là fuori il sole taglia i suoi baci uno ad uno, il tempo li conta e glieli restituisce come rughe e rantoli, in mezzo giro di tramonto scivola via. Il presagio è definitivo, il sentimento inafferrabile, come in Afire di Christian Petzold, che sempre di un’estate di amori immanenti e sospesi parlava, il cielo brucia, sembra ci sia ancora tempo per innamorarsi e salutarsi un’ultima volta, anche se non esiste più nessun domani.
Ma tutto è percezione ed esperienza, immagine materica e granulosa in cui le parole scorrono comunque a fiumi (nei piani d’ascolto più che nei piani d’azione - che è già in sé cifra stilistica) aiutando a ricordare quello che non si può sentire più, come quella sensazione conquistata ma ormai dimenticata di dormire in tenda, la sicurezza di sapere con precisione e dettaglio tutto quello che sta accadendo al di fuori. C’è la metafisica contemplativa di Terrence Malick (A Hidden Life), la terrestrità del sentire di Josephine Decker (Thou Wast Mild and Lovely), il tempo geologicamente inarrestabile di Hlynur Pálmason (Godland). Sembra pure di ascoltare la Rêverie di Debussy (qui rivisitata dal pianoforte malinconico e primordiale di Hania Rani), l’atmosfera sognante in Fa maggiore che negli arpeggi progressivi prende corpo e materia in una rincorsa soffice e cotonosa come nuvole. “Rallentando e perdendosi” come recita la notazione sullo spartito.
Un’isola, che come tutte le isole è circondata in ogni angolo dal mare, ma al centro c’è la vita. Il cuore singhiozza come una barca a motore in avaria al largo. Prima della fine, prima di andare via, pianteremo un albero, quel pioppo che mamma amava tanto. I suoi rami toccheranno le stelle. E sarà sempre estate.


EDEN di Ron Howard


GAIA BARUSCOTTI

Trasferirsi su un’isola deserta e poi avere problemi con i vicini di casa potrebbe semplicemente essere una battuta - e invece è l’idea alla base del nuovo film di Ron Howard, Eden, frutto di una gestazione di 15 anni e della sceneggiatura di Noah Pink.
Nel 1929, in un mondo sull’orlo del collasso economico e destinato a scivolare, lentamente ma inesorabilmente, nel fascismo (impossibile non vedere in controluce una metafora dei tempi che corrono), il misantropo dottor Frederich Ritter (Jude Law) decide di abbandonare il consorzio umano, con l’unica compagnia dell’amante Dora Strauch (Vanessa Kirby), per trasferirsi nella remota e disabitata isola di Floreana, nelle Galapagos. Luogo ideale dove mettere alla prova le proprie capacità di sopravvivenza, oltre che scrivere il trattato filosofico destinato, nelle intenzioni del medico, a cambiare la storia dell’umanità - alla prova dei fatti, un’accozzaglia di luoghi comuni e frasi fatte. La solitudine e il desiderio di veder riconosciuti i propri sforzi porteranno Ritter, come si scoprirà in seguito, a scrivere ai principali giornali dell’epoca, attirando, così, la coppia composta dal veterano di guerra Heinz Wittmer (Daniel Bruhl) e dalla sua giovane sposa, Margaret (Sydney Sweeney), giunta sull’isola nella speranza che l’aria possa curare il tubercolotico figlio di primo letto Harry. Sì, perché a quanto pare Floreana è in grado di far sparire le malattie: ne è la prova vivente Dora che, affetta da sclerosi multipla, ha riacquistato le forze tanto da essere l’unica ad occuparsi delle piante e degli animali necessari al sostentamento, mentre il compagno si dedica alle sue elucubrazioni.
Ad ogni modo, dopo un’accoglienza non particolarmente calorosa, la famigliola viene trasferita, volente o nolente, nella zona più desolata, dove, miracolosamente, riesce a vincere la natura inospitale, raggiungendo un certo grado di agiatezza. Il precario equilibrio delle due micro comunità viene definitivamente sconvolto dall’arrivo della “Baronessa” Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn (Ana de Armas), auto definitasi “incarnazione della perfezione” e “Imperatrice di Floreana”, fermamente intenzionata a costruire un hotel extra lusso sull’isola con l’aiuto dei suoi due amanti-scagnozzi. Come nel racconto biblico da cui prende il titolo, è proprio la sensuale tentatrice a far precipitare la situazione, in un clima da cane mangia cane dove nessuno è al sicuro dai tradimenti del suo prossimo. Il dottor Ritter, lungi dall’essere in grado di indicare all’umanità la strada per la salvezza, non riesce neppure a ristabilire una parvenza d’ordine tra i pochi, sporchi, affamati isolani perché, in una sorta di rilettura “adulta” de Il Signore delle mosche, l’animo umano è viziato, sin dalla nascita, da un peccato originale e inestirpabile da qualunque sovrastruttura, sia essa sociale, filosofica o religiosa. È proprio questa tara primigenia che spinge gli umani a sopraffarsi e umiliarsi vicendevolmente per mero tornaconto personale o semplicemente perché la semplice possibilità e volontà di compiere il male ne è una giustificazione sufficiente.
Il film, che non presenta particolari sorprese dal punto di vista registico e della sceneggiatura, dà una sferzata di novità nella filmografia di Howard, in cui si presenta come la pellicola forse più cupa. La forza dell’opera è la recitazione, in particolare delle interpreti femminili: l’interpretazione camp di Ana de Armas, quella enigmatica di Vanessa Kirby e una Sydney Sweeney che, per una volta, abbandona i toni urlati a favore di una performance compassata ci portano a chiudere un occhio (o entrambi) su alcuni difetti - una certa ripetitività negli schemi narrativi, una ricerca di pathos talvolta eccessiva, alcune scene involontariamente comiche. A ciò aggiungete una natura indifferente e desaturata, lontanissima dalle immagini patinate dei documentari, e la colonna sonora di Hans Zimmer, che accompagna discretamente i momenti più drammatici, e sarete pronti a uscire dal cinema esclamando “Floreana è un bel posto, ma non ci vivrei”.


TENDABERRY di Haley Elizabeth Anderson (Concorso)



RICCARDO SIMONCINI

Una metropoli effervescente, cinetica, convergente, che vuole sempre portarti e farti perdere al centro dell’universo, lontano dalla periferia e da tutto ciò che rappresenta. In All of Us Strangers Adam guardava fuori dalle imponenti vetrate di una Londra qualunque, in un’alba che era anche tramonto, un tempo che era inizio e fine nello stesso riparo, nella stessa galera chiamata casa. Qui invece si esce in strada, ci si culla vorticando attaccati ai pali delle insegne stradali, come in Mary Poppins, ma senza sognare più, cantando in metro (e non in un musical con Julie Andrews) per racimolare qualche mancia in più. Si cammina tanto in Tendaberry a sfiorarsi in un unico respiro, con quella frenesia ansiogena che ad ogni angolo di strada ti chiama e ti trascina via per una nuova avventura o sogno. Ma poi di fatto ti rimane ben poco. Storie perse ed erranti, liquefatte in quella tempesta di immagini che ogni palazzo, cartello o ponte (sotto cui baciarsi) possono portare. In un momento alle ringhiere sono appesi ingialliti scheletri per Halloween, il tempo di girarsi, un colpo di clacson e la città ha già messo gli addobbi di Natale. L’euforia di una suggestione, non di una visione. I disordinati pezzi di un puzzle che ci si è stufati di dover assemblare.
La ventenne Dakota vaga nell’arco temporale di quattro stagioni, in una Brooklyn post-pandemica mutevole e liminale dove le reali stagioni sembrano invece infinite nella città, altrettanto infinite ma impossibili per l’animo interiore. Dopo che il fidanzato Yuri è tornato in Ucraina per assistere il padre malato, la metropoli senza fare domande raccoglie Dakota sciolta a terra e la porta con sé senza chiedere nulla in cambio. Una generazione prima di quella della protagonista indecisa de La persona peggiore del mondo, Kota/Koda come la chiamano (perché anche i nomi nella velocità di una corsa di tram sono contratti come le esistenze) vive la stessa incertezza di cosa fare della sua vita, sincopata, frammentata, interrotta e mai finita. Tra autunno, inverno, primavera, estate, cambia tutto come dopo un pasto, neanche molto abbondante, si cambiano le posate. Con una presenza sempre più discontinua al lurido e malandato minimarket dove ha sempre lavorato, Dakota inizia a rubare, smette di cantare. Insieme a lei le amicizie si perdono, sempre più scalfite dalla ruggine metropolitana come nell’animazione silenziosa di Robot Dreams. Tra i truffatori dispersi e ritrovati perversi ai night club, persino una gravidanza è una delle tante cose che possono capitare. Le treccine di Dakota fluttuano nell’aria come la giostra dei calcinculo nell’ennesimo luna park. “Io con questo non c’entro nulla” dice la stessa “bambina carina e pungente” che molti anni prima era felice e spensierata nella Repubblica Dominicana.
Con la sua ipnotica opera prima Haley Elizabeth Anderson recupera la tradizione del cinema più indipendente americano, Larry Clark, Andrea Arnold ma soprattutto il Tangerine di Sean Baker, di quelle sex workers trans che vagano per una Los Angeles natalizia ma senza neve alla ricerca di un pappone-fidanzato traditore. Non esistono schemi, mappe, geografie esistenziali. Infinite dita di scrolling di distanza fino a poter vedere il planisfero intero. Come dice Baudrillard, che al paese stelle e strisce ha dedicato un libro già negli anni ‘80: «L’America non è né un sogno, né una realtà, è una iperrealtà. Ed è una iperrealtà in quanto utopia vissuta fin dall’inizio come realizzata.» Basta crederci insomma e anche il più squallido pub potrà diventare nobile ed elegante.
In una versione cresciuta e sbriciolata di Aftersun, di poesie in movimento inarrestabile, gli archivi visivi a cui attingere sono moltiplicati, le parole da vedere infinitesimali. Uno sterminato rapporto e resoconto multimediale di cui YouTube (e la sua estetica) è solo l’ultimo tassello da cui attingere. La semeiotica dei click, dei riquadri di videochiamate con la connessione instabile, i TG che fanno a gara per avvistare il primo (o l’ultimo) coyote tra i neon e i rave improvvisati. Così il racconto di una New York spaesante e disorientante è inframezzato da inserti di video-diario, l'archivio sconfinato di Nelson Sullivan, precursore visuale del contemporaneo, che proprio a Coney Island ha raccontato tutto dal 1980 per oltre 2000 ore di filmati, quelli privati, pubblici, in super 8 o VHS. Ma il tempo passa e ricicla tutto. Così le nostre immagini svaniscono prima ancora di noi stessi. Ci siamo conosciuti come amanti, e dopo 5, 6, 10 anni non sapremo neanche di esserci incontrati. Quei video-diari sono invecchiati nell’esatto momento in cui si è finito di registrarli, i ricordi di una tappezzeria strappata di cui Brooklyn è perennemente affollata. Un po’ come i cinque volumi di diari, lettere e saggi che ci ha consegnato Virginia Woolf prima di lasciarsi affogare nell'Ouse, a coprire l’intero arco di vita di oltre tre decenni (dal 1915 al 1941). La Woolf stessa parlando della vita metropolitana londinese diceva che «Mentre le strade hanno una loro carta, le nostre passioni rimangono non descritte» e ancora che «Il fascino della Londra moderna risiede nel fatto di non essere costruita per durare, ma per scomparire.» Gli stessi moments of being, i flussi di coscienza ininterrotti, che poi confluiranno nel suo capolavoro letterario Mrs Dalloway, l'eterno movimento tra le strade, gli incontri fugaci, il perdersi dietro semplici fiori. Una festa.
La macchina di Anderson allo stesso modo esaspera nervosamente movimenti, distorsioni, percezioni, non sa dove posarsi in quel turbinio di dettagli. Come in Diciannove di Giovanni Tortorici e Una sterminata domenica di Alain Parroni è la città stessa che fornisce il primo appunto sperimentale di un vagare senza forma, di sospensione anti-narrativa: la vita avviene senza direzione, senza eroi e risoluzioni.
I nostri claustrofobici e compatti appartamenti su cui ci siamo permessi con arroganza di appiccicare il nostro nome saranno presto demoliti per diventare altissimi condomini e centri commerciali.
Maledetto caos, benedetta armonia.
Il colpo di fulmine di questo TFF.

 

HIGHER THAN ACIDIC CLOUDS di Ali Asgari - Vincitore menzione documentari


GAIA BARUSCOTTI

C’è vita sotto la cappa di smog che pesa come un macigno sui grattacieli di Teheran? Se sì, di che tipo? È la vita dei censori che frugano le intimità delle case alla ricerca di prove di ogni minima infrazione? O è quella del regista che, nell’impossibilità di girare, si rifugia nei ricordi d’infanzia?
In un mondo privato dei colori da una brutale repressione, il regista iraniano Ali Asgari ritorna alla regia dopo Kafka a Teheran con un ipnotico documentario, delicato come una trina ed enigmatico come una poesia, che esplora la sua interiorità, unico spazio al sicuro dalle grinfie dei moralisti che, nella prima scena del film, gli confiscano degli hard disk necessari a svolgere il suo lavoro perché sospettano che possano contenere del materiale proibito, oltre al cellulare e al passaporto. Dove non arriva la resistenza politica e sociale, forse è quella del libero pensiero e della memoria che può uscire vincitrice dalla lotta impari: ecco quindi che il regista, impossibilitato a lasciare la propria abitazione in seguito al suo ritorno dal Festival di Cannes nel 2023, ci conduce in un viaggio a ritroso nelle reminiscenze della vita famigliare, nella lingua materna ormai quasi dimenticata, nelle suggestioni di una Roma notturna, unico luogo in cui, nelle parole del regista, si sia innamorato e abbia camminato mano nella mano con la persona amata - come se la dittatura impedisse ai cittadini perfino la possibilità di provare emozioni, rendendoli delle figure spettrali che vagano senza meta per una città altrettanto grigia. Teheran è una dei protagonisti, per quanto lontana dalla città di cui Asgari ha fatto esperienza da bambino: un nonluogo privato di ogni coordinata spazio-temporale, un essere tentacolare e informe, fiaccato da degrado e dalla confusione, letteralmente soffocato dalla stretta letale dell’inquinamento e della dittatura. Il secondo personaggio è l’amatissima famiglia, composta da madre, padre e sorelle, unico porto franco nelle tempeste personali e storiche che si abbattono sul regista. Impossibile per chiunque abbia la possibilità di vedere il film non vedere qualcosa di sé e della propria storia nelle splendide immagini, in cui emerge prepotente la lezione di Kiarostami e Panahi, maestri della commistione tra finzione e reale, tra cui possiamo ormai annoverare, meritatamente, lo stesso Asgari.
Al vertice di questo triangolo immaginario c’è il regista, che, in un dialogo con gli spettatori al tempo stesso intimo e pubblico, traduce la memoria personale e l’osservazione critica del presente in un grido di speranza, tanto urlato quanto silenzioso, che si concretizza nell’immagine del volo, prima solo sognato e poi effettivamente realizzato.
L’unica possibile liberazione è, infatti, librarsi sopra la città e le sue miserie, sopra la piccolezza della tirannide, sopra la nuvola di smog con un drone. Ma dietro quel drone c’è un occhio ancora capace di commuoversi vedendo la propria madre, un cervello pronto a correre il rischio di pensare, un cuore che ancora sanguina per le sofferenze del popolo iraniano.


NINA di Andrea Jaurrieta (Concorso)


RICCARDO SIMONCINI

Sotto la pioggia torrenziale si staglia in primo piano un fucile a canne mozze. I due buchi affiancati riempiono lo schermo. Nessuno sparo. Da lì inizia un revenge movie che di spari non ne vedrà quasi nessuno. L’opera seconda di Andrea Jaurrieta sembra continuare dove As Bestas di Rodrigo Sorogoyen si interrompeva, dai malumori in un piccolo e degenerato villaggio del Nord della Spagna in cui il tempo ha provato, invano, a ricostruire un’apparente normalità. Dopo una carriera come attrice a Madrid, Nina (liberissimo adattamento della Nina de Il gabbiano di Cechov) torna in abiti rosso rubino nella cittadella basca affacciata sul mare in cui ha sempre vissuto, dove i bracconieri scompaiono nel nulla lasciando sulla corteccia degli alberi ostinate macchie di sangue. Torna, non si sa per quanto, non si sa (all’inizio) perché. Il montaggio si muove tra due piani temporali in parallelo, tra la sua versione di oggi e quella spensierata di quando era solo un’ingenua e semplice ragazzina del posto. In tutti quegli anni le vie sono però rimaste sempre le stesse, con la stessa costante paura che davanti ad uno sguardo di troppo nessun luogo possa farla sentire davvero al sicuro e che qualcosa di tragico sia sempre sul punto di accadere. “Non mi ricordo le cose belle” dice Nina al vecchio fidanzatino dell’epoca ormai sposato con figli. In ogni angolo c’è un trauma, non la nostalgia. Losche figure che riempiono nascoste ogni angolo di nostra inquadratura. Così ogni donna vorrebbe avere come colore preferito il verde speranza, ma è stata costretta a vestirsi di rosso per essere sempre identificabile, indimenticabile, come il giallo fluo de La Sposa in Kill Bill. All’erta.
Nina cerca vendetta per i suoi ricordi, per quelle immagini allucinatorie che non riesce più a togliersi dalla testa, scolpite nella memoria a riemergere a galla come cadaveri che l’omicida non si è nemmeno premurato di far debitamente affondare. Lettere dell’abbandono anzi perfettamente conservate. Era lei inseguita in un perverso gioco di gesti e non consensi, è lei ora ad inseguire con la maturità di chi ha dovuto conoscere fin troppo bene il paradosso dei suoi stessi sensi.
Così, appena sedicenne, era stata travolta di attenzioni e consigli letterari esotizzanti da un ben più stagionato famoso scrittore locale, manipolatore di storie e sentimenti (un Darío Grandinetti viscido e glaciale). Promesse, regali, segreti: la drammaturgia di un uomo che nei suoi monologhi distrugge qualsiasi altra storia, figuriamoci se di corpo e di donna (“Che cosina bella che sei”). Con il costante alibi di essere apparentemente una persona rispettabile, a cui tutti chiedono una foto o un discorso memorabile.
Jaurrieta avvicina la macchina da presa al noir di Hitchcock e al melò di Almodóvar di cui è stata anche assistente alla regia, con le lente carrellate a stringere sui volti e il contrappunto musicale a richiamare quello anni ’50-’60 di Bernard Herrmann (l’ostinato ritmico per soli archi nel tema memorabile di Psycho, le dissonanze ridondanti e politonali del preludio di Vertigo). Rispetto ai suoi altisonanti riferimenti magistrali il risultato è però ben più programmatico e privo di quel ritmo frenetico e martellante che nel cinema spagnolo ha reso il già citato Sorogoyen il massimo interprete e rappresentante.
Come in May December di Todd Haynes gli scandali sono l’oro delle metropoli e dello show business («Al di sotto di un certo reddito, un caso giudiziario è sempre un semplice fatto di cronaca» diceva Roland Barthes), ma sono anche la condanna a morte dei piccoli villaggi in cui tutti sanno, ma nessuno ha visto, in cui tutti si conoscono, ma nessuno parla. In un’omertà che è il tratto caratteriale e patologico di ogni piccola città è facile dimenticare finché il corpo violentato non è il tuo. Tra gli sguardi girati dall’altra parte nessuno cancella le proprie cicatrici. Perché “le cose fatte male finiscono male e ti crescono dentro”.
La sensazione è di non essere la sola, e chissà quante altre ce ne saranno. Dimenticate.
Un piccolo appunto finale:
Ho visto questo film il 25 novembre, la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e credo che, al netto dei difetti, sia per questo ancora più speciale.


THE ASSESSMENT di Fleur Fortune


GAIA BARUSCOTTI

In quanto insegnante ho sempre sognato un futuro in cui i genitori debbano possedere un patentino prima di procreare, ma penso che la soluzione proposta dalla regista Fleur Fortuné nel suo film d’esordio, The Assessment, sia un tantino esagerata. In un futuro distopico, una sorta di Blade Runner à la Yorgos Lanthimos, una casta di burocrati senza nome e senza volto impone alle coppie che desiderano avere un figlio una rigorosa valutazione (da cui il titolo) della durata di una settimana, in nome della salvaguardia delle scarse risorse ancora esistenti dopo un periodo di rivolte sociali e disastri naturali dovuti al surriscaldamento globale.
Ecco quindi che la botanica Mia (Elizabeth Olsen) e il compagno, il genetista Aaryan (Himesh Patel), alla ricerca di una gravidanza, ricevono la visita di una “valutatrice”, Virginia (Alicia Vikander, qui nel ruolo migliore della sua carriera, insieme con quello di Ex machina), che, durante un soggiorno di sette giorni nella loro splendida casa sulla spiaggia, deciderà se possiedono i requisiti giusti per dare alla luce una nuova vita. Ciò che in apparenza dovrebbe essere soltanto un test oggettivo, si rivelerà una sorta di esperimento umano in cui ogni personaggio vedrà sconvolta la propria vita. Le domande invasive, i metodi non ortodossi e gli strani “giochi di ruolo” (se così possono chiamarsi) di Virginia metteranno alla prova non soltanto la stabilità della relazione dei due padroni di casa, ma anche la loro sanità mentale.
La recitazione degli attori è ciò che rende questa pellicola così affascinante. Da una parte abbiamo Olsen e Patel, duo di stimati professionisti che sicuramente possiedono le capacità per allevare un bambino ma forse non quelle per sopravvivere a una settimana di prove via via sempre più assurde, che riescono con pochi gesti e parole a manifestare la loro crescente insoddisfazione l’una per l’altro e la loro sofferta necessità di trovare risposte al di là e al di fuori della loro relazione, e dall’altra Vikander, perfettamente in grado di gestire il passaggio senza soluzione di continuità dal personaggio freddo e metodico che tira le fila della simulazione, una sorta di Intelligenza artificiale calata in un corpo di carne e ossa, a quello idiosincratico ed esplosivamente caotico che distrugge, letteralmente e metaforicamente, ciò che gli aspiranti genitori hanno costruito in una vita intera.
Le performance eccellenti dei principali interpreti si fondono con una regia meticolosa, scientifica, simile allo sguardo di uno scienziato che guarda un vetrino. Fortuné non lascia nulla al caso ed è in grado di creare un mondo al tempo stesso famigliare e alieno, dove persino le architetture e le luci riflettono il senso di straniamento dei personaggi non solo negli spazi che abitano quotidianamente ma anche nella loro stessa pelle - anche qui la lezione di The lobster è evidente. L’unico difetto di una certa entità è la gestione del finale, dove la regista fatica a far convivere il privato e il pubblico, il personale e il sociale, il contingente e lo storico, e dunque le motivazioni dei gesti conclusivi dei personaggi risultano parzialmente inspiegabili al pubblico.
I temi toccati nell’opera sono numerosi, profondi e anche di straordinaria attualità. Oltre a quello più evidente della maternità in un mondo ormai inospitale e irregimentato, dove anche i desideri più intimi devono essere regolamentati e addomesticati, uno su tutti è il rapporto con la natura ormai impossibile sul piano reale ma ricostruito virtualmente, appannaggio delle classi più abbienti. Mia e Aaryan possono fare il bagno in mare quando lo desiderano e superare il secolo d’età grazie ai medicinali forniti loro dal governo perché hanno la fortuna e i mezzi per vivere nel “Nuovo Mondo”, mentre i dissidenti (come la madre del personaggio interpretato dalla Olsen) vengono deportati in una landa desolata, dove è quasi impossibile respirare e non ammalarsi. Inoltre il genetista, per sopperire alla quasi completa estinzione di animali domestici e selvatici a causa di sconvolgimenti naturali e non solo, ha messo a punto una sorta di ologramma che permette di interagire con diverse bestiole, insoddisfatto però di come appaia al tatto la pelliccia, mentre la compagna si dedica alla cura di piante e allo sviluppo di cibi sintetici.
È quindi per concludere: quale mondo stiamo lasciando ai nostri figli? E quali figli stiamo lasciando a questo mondo?


CLICCARE PER CONTINUARE A LEGGERE