1.7.17

Recensione "Nashville" - Scritti da voi (107) - di Enrico Truffi

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Venti giorni fa sono andato a Roma.
Insieme agli amici Leonardo e Vincenzo c'era un ragazzo che non avevo mai visto.
Lettore da tempo, saltuario commentatore.
Io ero in condizioni pietose, direi romeriane, e quindi non ho mai praticamente interagito. 
Ma, specie nel fantastico ristorante giapponese trovato da Leonardo, ogni tanto, nei pochi momenti di lucidità che avevo, mi sono accorto che sto Enrico è un mezzo fenomeno, che se la lotta col "nostro" Pietro per passione, vastità di visioni e competenza.
E niente, ho pensato di dirgli di scrivere qualcosa.
Ecco quel qualcosa.

Nashville ha rappresentato per anni un’icona generazionale, che riusciva a includere dentro di sé infinite realtà, e a dare un’immagine vivida e indelebile dell’America spaurita degli anni 70. Anche se è difficile immaginare Nashville fuori dal suo contesto così profondamente statunitense, però, è anche vero che la verità e l’autenticità con cui sono stati rappresentati i suoi personaggi la rendono un’opera universale, ancora oggi in grado di parlare alle persone di ogni età e paese.
La prima cosa che si deve considerare quando si parla di Nashville, è che si tratta di un compito abbastanza ingrato. Infatti se ne può parlare per ore, decantarne la perfezione nell’orchestrazione delle storie,  analizzarne i contenuti satirico-politici e culturali e comunque non arrivare a cogliere neanche un quarto della sua complessità. Robert Altman aveva iniziato alla fine degli anni 60 un suo percorso del tutto avulso dalle logiche dell’intrattenimento hollywoodiano, ma per certi versi si trattava di un autore distante persino dai cineasti progressisti della New Hollywood come Pollack e Penn. I suoi protagonisti erano antieroi scalcinati, goffi e inadatti a qualsiasi situazione, la macchina da presa neanche si concentrava su di loro, ma divagava su altri personaggi, zoomava su dettagli apparentemente inessenziali. Altro dato importante di cui si parla sempre riguardo ad Altman, l’audio è il più confuso possibile. Le tracce si sovrappongono, i discorsi sono quasi inintellegibili perché immersi in una dimensione sonora apparentemente caotica. Tutte queste scelte sono determinate dalla distruzione di un “punto di attenzione” su cui centrare la storia: i protagonisti non sono più interessanti delle persone che li circondano, e la loro incidenza sulla realtà è minima.
Quando Nashville esce, negli Stati Uniti ma anche in Europa, Altman è già un autore piuttosto affermato, anche se non sempre compreso, e sono già note a tutti queste caratteristiche, ma Nashville compie un passo in avanti, e forse il passo definitivo della carriera di Altman, che pure farà altri film straordinari in futuro. 


Una descrizione che bene si adatta a questa pellicola è quella di “film-evento”. Altman aveva deciso di convocare il cast principale a Nashville una o due settimane prima dell’inizio delle riprese, per ambientarsi, parlare con la gente di lì, lavorare, e comporre le canzoni che poi avrebbero fatto parte della colonna sonora. Quando si inizia a girare, però, non c’è un’atmosfera da “riprese” in senso tradizionale, c’è un’atmosfera di casualità, di improvvisazione, che daranno al film un tono unico. Molti assistendo alla lavorazione asserivano che non si capisse chi venisse filmato e chi stesse filmando. La sceneggiatura è solo una traccia, e gran parte dei dialoghi si basano sull’improvvisazione degli attori, che inventano storie per i loro personaggi, aggiungono battute, si commuovono anche spontaneamente davanti alla macchina da presa. Il pubblico anche è genuinamente preso in gran parte dalla realtà di Nashville, i concerti che vediamo sono filmati dal vivo senza una preparazione della scena, quasi come un film concerto o un documentario. Ma non si potrebbe chiamare Nashville un documentario o una docu-fiction, senza fargli un grande torto.
L’ambizione di Nahville è di essere una fotografia dell’America del tempo, e nel 1975, l’America non è più molto sicura di quello che è o che vuole essere. A quel punto degli anni 70, sia gli ideali conservatori sia quelli progressisti sono stati sconfitti, passando attraverso il Vietnam, il ‘68 e il Watergate. In giro per le strade passa un furgoncino, che dal suo altoparlante sputa le sentenze populiste di un candidato alle primarie. Frasi banali e poco significative che sembrano fare breccia nel cuore di una popolazione così sperduta. Difficile tenere conto dei protagonisti che partecipano a questo carnevale, tutti accomunati dai loro sogni di successo, di amore, di comprensione, dalla ragazza stonata che si illude di poter diventare una stella del country, al cantante insicuro e superficiale che va a letto con chiunque senza preoccuparsi delle conseguenze, a una cantante famosa in preda a un esaurimento nervoso e al suo marito premuroso ma iperprotettivo (e si potrebbe continuare ancora a lungo).  

 Quella che abbiamo in scena in Nashville è un’America confusa sulla sua identità, e per evidenziarlo ad Altman basta far parlare le immagini; basterebbe vedere il nero che canta il country reazionario e razzista, o la bianca che canta il gospel in un coro nero, un biker senza identità che gira con un’Harley Davidson ridicolamente sproporzionata, o l’enorme Partenone pacchiano costruito per dei festeggiamenti, su cui sventola la bandiera americana stelle e strisce. La città di Nashville, nella sua appariscenza così kitsch e ridondante, è il calderone di tutte queste contraddizioni, quelle di un paese che è tutto il contrario di tutto, che in mancanza di cultura propria cerca di appropriarsi di culture altrui. Tuttavia non bisogna commettere l’errore di considerare Nashville come bussola morale e giudizio definitivo di quell’epoca.
L’impossibilità di comprendere e dare un giudizio su ciò che viene visto è ribadito con grande intelligenza attraverso il personaggio della giornalista britannica (Geraldine Chaplin), che con una fastidiosa supponenza e condiscendenza crede di poter realizzare un affresco su quella nazione, cercando a tutti i costi lo scandalo e l’enfasi. Con quel personaggio Altman sembra voler prendere le distanze e ironizzare su un tipo di narrazione pregiudiziale e retorica, ma il primo modo in cui riesce a farlo è attraverso la forma. La macchina da presa si muove in maniera libera e disinteressata, vaga da personaggio a personaggio senza sottolineature retoriche, sembra dare importanza a tutto ciò che vede, anche al primo personaggio colto per sbaglio, seguendo la stessa logica della cattura dell’audio. Tutto è importante, tutte le persone hanno una loro dignità, e meritano che la loro storia sia raccontata con il giusto tono, a metà fra l’ironia e la riflessione.
Altman riesce allo stesso tempo ad evitare anche una distanza eccessiva, mettendo in risalto tutti i drammi umani degli innumerevoli personaggi con un tocco miracoloso, che forse non si è mai più visto in nessuno (salvo P.T. Anderson,, anche se forse con più pesantezza). Ridiamo sì, dei personaggi, ma mai in maniera cinica o disinteressata. L’ironia sottile di Altman riesce sempre a lasciare uno spazio di immedesimazione e di commozione. Sono tutti, dal primo all’ultimo alla ricerca di un’identità perduta, come il loro paese, alla ricerca di uno spazio, di gloria o illusioni di successo.


C’è solo una dimensione in cui tutti sembrano ritrovare il loro posto nel mondo.
É l’unico momento di sincerità e di confessione che avviene in tutto il film. Ed avviene solamente tramite le canzoni. Anche le canzoni più banali e scontate, più strappalacrime e retoriche, assomigliano quasi più a preghiere. I personaggi sembrano trovare le loro ragioni in una canzone. Anche la folla, così piena di storie diverse e incompatibili diventa una cosa sola davanti a un palco e alla sua star preferita.
 Nella sua bravura Altman ci lascia ancora con l’ambiguità del suo giudizio, è una realtà bellissima e impenetrabile e tanto basta. Nelle scene finali, forse la presenza del Partenone non appare più così fuori luogo, nel rappresentare il teatro perfetto per una catarsi collettiva che avviene in pochi istanti.

Infatti, una tragedia inaspettata sembra riportarci ad una brusca realtà, e riporta a galla un avvenimento di appena dieci anni prima, che ha segnato per sempre la “perdita dell’innocenza” degli Stati Uniti. Eppure, ancora una volta, l’unico modo di affrontare questo dolore è il canto. “Siamo a Nashville, non a Dallas. Qualcuno canti.”

Una canzone cominciata in maniera incerta, da una ragazza salita sul palco quasi per caso, ma man mano cantata sempre con più convinzione, finché non si aggiunge anche il coro gospel, e ben presto è tutta Nashville a cantare, tutta l’umanità colta nello spazio di due ore e quaranta: “It don’t worry me, It don’t worry me, you may say that I ain’t free, but it don’t worry me.”

La potenza di questa scena finale sta nella sua enigmaticità. La folla reagisce all’inizio in maniera preoccupata, poi sempre più partecipe e dimentica di ciò che è appena successo.
 Tutti cantano convinti, “non mi preoccupa”, e non si saprà mai bene se motivati dal menefreghismo o dall’ottimismo verso un futuro più luminoso. Ciò che importa è che sono di nuovo tutti insieme, e bene o male, hanno trovato un altro inno da cantare.



4 commenti:

  1. Ho visto Nashville al cinema quando uscì nel 1975. Ci andai insieme ad alcuni miei compagni del liceo ed al nostro giovanissimo professore di Italiano. Fu lui a trascinarci.
    Devo ammettere che all'epoca non mi sembrò un capolavoro, ma il fatto che non l'abbia mai più rivisto e che ne conservi un ricordo molto preciso deve significare qualcosa.
    Ci colpirono soprattutto il personaggio di Keith Carradine che con la sua " I'm easy" seduceva tutte le donne. E ovviamente la scena corale finale.
    Altaman era un gran regista: fuori da tutti gli schemi hollywoodiani e di mercato. Penso abbia aperto la strada a Tarantino e tanti altri.
    Ma ovviamente quello che ricordo con più piacere sono 6/7 giovani uomini in un cinema che ora non esiste più che si guardano un film insieme e che dopo vanno a bersi una birra e ne parlano. Uno di loro è morto da tempo, il professore in seguito ci ha deluso ( ha avuto 3 figlie da studentesse: quasi la trama di un film!), ma allora tutti noi di sedici anni eravamo in attesa del nostro futuro...

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    1. Grazie per questa testimonianza, è un film che ha sicuramente segnato un'epoca. Secondo me è anzi uno di quei rari film che ha acquisito valore col tempo, è attuale oggi come allora, quindi le consiglio vivamente di rivederselo. Il professore forse ha seguito troppo il modello di Keith Carradine, ma ha fatto bene a farvelo vedere ;)

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  2. Credo che lo rivedrò! Quel famigerato Prof per un paio di anni fu una sorta di mentore per noi.
    Poi era stato in USA e ci raccontava cose di cui non sapevamo ancora nulla!
    Riguardo la sua vita privata...ci sono registi e attori osannati che hanno fatto ben di peggio, in ogni caso ora lo considero ...un cattivo maestro! :O)

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    1. Beh, ogni tanto servono anche loro...Buona visione allora, vedrà che le piacerà più di prima ;)

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due cose

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3 ciao