3.8.19

Recensione "Kuroshitsujii" (Black Butler) - Anime e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 3 - Di Enrico G.


Torna dopo un pò di tempo il giovanissimo Enrico con un mega post su un'anime giapponese ambientato addirittura nell'Inghilterra vittoriana.
Ad Enrico piace scrivere - e tanto - e analizzare, cosa bellissima per uno della sua età.
Se c'è qualche appassionato nel blog di anime lo legga.
E se volete commentarlo fatelo sempre nel blog, a conferma di quanto sia un giovine atipico questo non c'ha manco faccialibro :)

Kuroshitsuji, ovvero il Maggiordomo Nero. Se leggeste in giro qualche sinossi vi fareste l’idea di un anime piuttosto canonico, dalle tinte fosche e soprannaturali mischiate al dramma in costume ottocentesco, con un po’ di avventura e commedia a legare il tutto. Non è particolarmente di nicchia, anzi, tuffandovi nell’oscurità della fanbase sareste sorpresi dal proliferarvi di gente di tutti i tipi, in particolare di ragazzine esagitate per i due protagonisti e le ship tra loro e il resto del cast.
Kuroshitsuji me lo porto dentro in modo diverso, poiché si tratta dell’anime che mi ha “creato”. Ho visto anche Pokemon e cose così molto prima, ma sporadicamente, senza un’idea precisa in mente. Quelli erano solo altri cartoni che vedevo alla televisione, non certo Arte (perché quello è, l’animazione) che guardavo. Fu qualcosa di completamente nuovo, tracciare una linea tra Oriente e Occidente, imparare che non tutto arriva da noi, ma esistono Internet e sottotitoli, farsi guidare da chi le chiavi di quel mondo ce le ha, ovvero la mia fidanzata di allora, un po’ ragazzina di cui sopra, un po’ seria appassionata. Mi fece scoprire un interesse inedito, in quegli anni terribili del liceo quando ne avevo assoluto bisogno, tramite il suo anime preferito: io ci misi la mia passione per la Storia e la Gran Bretagna, due pilastri della mia vita d’adolescente. Riguardare ora Kuroshitsuji, dopo che tutto e nulla è cambiato, ora che io lo seguo ancora mentre lei si è data ai videogiochi, ora che non siamo più insieme, tra Brexit e Università storica, mi fa sorgere un sorriso amaro, se penso a quanti anni sono passati, al ragazzino che ero e a quello che sono adesso.
Basta parlare di me, parliamo di Black Butler. La trama è presto detta: si parla di vendetta, quella che Ciel Phantomhive, un conte bambino nell’Inghilterra di fine Ottocento, vuole infliggere a chi ha ucciso i suoi genitori e lo ha rapito e torturato. Per arrivare al burattinaio della sua tragedia familiare, Ciel si serve del suo maggiordomo Sebastian, un demone sotto spoglie umane con cui ha stipulato un patto faustiano: la sua anima per la vendetta.
Mischiare in modo così azzardato Storia, soprannaturale, dramma, ma anche commedia e detective story, in una serie animata giapponese di 24 episodi, non potrebbe portare che ad un pastone gigantesco. Ed è evidente che succede proprio questo (dove e come lo vedremo più avanti), ma allo stesso tempo questa bulimia creativa è il motivo di esistere di Kuroshitsuji, ciò che lo rende unico, diverso da tutti gli altri. Parlarne nel suo insieme, oltre che estremamente difficoltoso, non darebbe affatto l’idea del perché valga la pena vederlo; quindi dividerò la recensione in sezioni o temi, per scovare il diavolo nei dettagli.

“La storia e la Storia”
Da studioso insaziabile di Storia, fin dalla più tenera età, ho sempre faticato a comprendere questa spaccatura, per molti insanabile, fra passato e fiction. Sono il primo ad ammettere che gli appassionati di Storia tendono ad essere spocchiosi, quasi godano nell’essere un élite chiusa e ristretta, ed è solo colpa di questo atteggiamento peraltro che il suo insegnamento sta morendo lentamente nelle Università, con sempre meno cattedre, e ora pure l’esclusione della materia dalla prova di maturità. Loro aborrono libri o film storici, e guardano con sospetto persino le opere di divulgazione. Dal lato opposto abbiamo chi tende a trovare la storia noiosa o sterile, una palla al piede che scuole e stato relegano spesso e volentieri ad ultima ruota del carro.
Io penso semplicemente che la Storia e l’Arte parlino della stessa cosa con linguaggi diversi. Linguaggi che parlano di Umanità, infatti “la Storia siamo noi”, disse qualcuno. Dove questi si incontrano, ci sono anche certi anime. Penso a Gosick e Hellsing Ultimate, dove questo discorso viene affrontato pure meglio, ma è in Black Butler che brilla di vastità e passione. Vi invito a fregarvene degli errori storici, non si parla di un documentario scientifico, ma di un cartone con demoni, dei della morte e mastini satanici, che può, anzi deve, sottomettere parte della verità per motivi di costruzione drammatica. In fondo lo spettatore vuole una storia (minuscola, ma non meno importante) di persone vere, che lo facciano empatizzare. Ciel per esempio, il protagonista, deve essere inserito in un contesto storico, ma anche avere personalità; e se una cosa interseca l’altra, tanto meglio. Lui è un ragazzino arrogante, viziato, incapace di un singolo sorriso o spensieratezza, ma ti suscita pena più che antipatia. È il figlio di un conte dopotutto, che non ha nemmeno avuto modo di crescerlo: dopo la sua uccisione, viene catturato, torturato e marchiato a fuoco, fino al giorno del patto con Sebastian, che lo libera e uccide i suoi aguzzini. Il demone prende le fattezze umane di suo padre, e si spaccia per maggiordomo al ritorno alla Magione Phantomhive. Al fianco di questa improbabile figura paterna, il bambino ormai corrotto accetta di buon grado l’eredità famigliare: essere il Cane da guardia della Casa Reale inglese, eliminando l’infelicità di Sua Maestà Vittoria. Ciò vuol dire anche scendere a patti con Lord e criminalità organizzata, tollerarli per controllarli; e se qualcuno si ribella, ci penserà Sebastian a ristabilire le righe.
Ecco la Storia che entra prepotentemente nella vicenda, con quella globalizzazione ante litteram coerente all’immagine di un Impero Britannico al picco della sua potenza industriale e militare, ma che lascia dietro di sé i presupposti per una vicina guerra mondiale e varie tensioni etniche. Il nostro maggiordomo sembra farsi metafora vivente del lento fluire degli anni sulla Terra, con la sua conoscenza e longevità, i cui confini vanno ben oltre le terre di Sua Maestà Britannica. Egli ricorda le armi di cento anni prima, ha conosciuto (probabilmente servito) i Faraoni e gli Asburgo d’Austria. Sebastian, se si prendono sul serio le sue parole, diffuse addirittura la Peste Nera in Europa, durante il regno di Edoardo III nel ‘300.
La sua vera origine e l’aspetto sono sconosciuti, ma il Tetragramma e la stella di David che rappresentano il suo sigillo suggeriscono un essere mitico, fuori dal tempo, quando l’Umanità era giovane e le religioni terrificanti. Entrambi infatti sono simboli chiave della religione ebraica, in particolare il Tetragramma rappresenterebbe il Nome, le quattro lettere che indicano Dio e contengono l’intera essenza della Cabala.


LO SPIRITO POSH
Se non sopportate la cultura inglese, state alla larga da questo cartone: seppure con le ovvie semplificazioni, date dal punto di vista nipponico del manga, questo è un puro compendio di spirito britannico. La struttura stessa dell’anime gioca con questo concetto, mischiando alla storia principale tutte quelle sottotrame investigative o vagamente orrorifiche della letteratura gotica: i castelli infestati, le maledizioni, i villaggi isolati e superstiziosi, la Londra nebbiosa di Jack the Ripper, addirittura il mistero del Mastino di Baskerville. Le figure che vagano per queste mini storielle da brivido sono i classici archetipi appartenenti tematicamente al romanticismo letterario inglese: abbiamo la gentry (l’aristocrazia di campagna) incarnata da Ciel e dalla sua fidanzata, la marchesina Elisabeth Midford, con maggiordomi e dame di compagnia quali Sebastian, Tanaka e Paula, cuochi, cameriere e giardinieri (Bard, Meirin e Finian). Poi ci sono le società metropolitane, crogiolo di industrie, come la fittizia Funtom, l’azienda di dolci e giocattoli appartenente ai Phantomhive, mercati come la Frost Fair, realmente esistente, coffee houses, ricevimenti e altri svaghi per la nobiltà cittadina. Questi ultimi, non sempre legali (si citano le aste di esseri umani), a cui si dedica gente come il Visconte Druitt, probabilmente il dongiovanni più divertente e meno eterosessuale di tutti i tempi.
Tutto e tutti, ricoperti dalla patina vittoriana di imperturbabilità, buone maniere, senso dell’ospitalità e del dovere, pudore eccessivo che non copre altro che cinismo, oscuri segreti e perversioni torbide.
Sotto le alte gerarchie e i loro codici si trovano le masse popolari, ammassate intorno ad un Tamigi inquinato, tra liquami industriali e occasionali annegati nelle sue acque torbide; oppure nei quartieri degradati, come Whitechapel, zona di prostituzione di alcune vittime di Jack, ma anche l’East End dove convivono l’Ispettore Aberline di Scotland Yard e i cinesi Lau e Lan Mao. Se il primo è la coscienza di Ciel e dell’intera Inghilterra, mentre il secondo è il capo (assieme alla sorella) della mafia di Shangai, entrambi sono ciò che per il conte potrebbe avvicinarsi ad un amico. Il simpatico orientale poi, si infiltra ovunque ci sia una grana per il Cane da guardia della Regina (essenzialmente ficcando il naso nei suo affari), mandando avanti questa loro strana relazione, quasi a senso unico, che rimane uno dei punti più deliziosi del cartone. Forse mi piace proprio perché non avrebbe motivo di esistere: uno è adulto, l’altro bambino, criminale cinese da una parte, nobile inglese dall’altra, ma soprattutto uno è pedina, l’altro giocatore. Saranno questi ultimi rispettivi ruoli a incrinare le cose, più avanti.
Non è solo oscurità però che circonda questo paese: vediamo la grande produttività di un Europa in piena Belle Epoque, nell’Expo di Parigi del 1889 o al Crystal Palace, che ospitò quello londinese; le novità tecnico-artistiche, come le macchine fotografiche Talbot; l’ampiezza di un Impero al suo splendore massimo, di cui Londra è il moto centrifugo. La protoglobalizzazione che nasce su questo regno dove non tramonta mai il sole porta nella capitale, non sempre pacificamente, terre leggendarie agli occhi del vecchio mondo, con tutti i loro colori, suoni, profumi.
Sale l’acquolina alla vista dei cibi succulenti preparati da Sebastian, di dolci tradizionali come il Christmas Pudding o il Mince Pie, di speziati tè indiani, cinesi e giapponesi, di esotiche prelibatezze: aragosta, curry, gyu takaki. È il trionfo del posh, termine che può indicare la nobiltà come l’accento di questo paese, ma che si estende a rappresentarne l’essenza pura, enormi contraddizioni gomito a gomito con innovazione, cultura, sprazzi di generosità e umanità.
È un ritratto piuttosto fedele dell’era Vittoriana, un pendolo tra luci ed ombre, perfetta ambientazione di una storia così cupa, che parla di vivere nell’oscurità, sognando di intravederla, almeno, quella luce accecante.



L’ARTE DEL SERVIRE
Liberiamoci del sassolino nella scarpa: Sebastian, il maggiordomo (shitsuji) nero (kuro) del titolo. Anche più del protagonista, non esiste nessuno di così rappresentativo di quest’anime come lui, e niente rappresenta lui come la sua professione. Il primo episodio, dopo averci fatto assistere al momento del patto demoniaco, taglia subito su una mattina qualsiasi alla Magione Phantomhive, scandita dalla vita dei due contraenti da allora: uno come servo, l’altro come padrone. Una vera relazione Hegeliana, con tanto di capovolgimento dei ruoli nel finale: non credo di inventarmelo, visti gli innumerevoli riferimenti filosofici sparsi qua e là, come la massima della farfalla dello Zhuangzi.
Sebastian è il cuore pulsante della villa, lo vediamo addirittura nella sigla finale, mentre attraverso delle strisce che ricordano fumetti svolge una sua giornata tipo: sveglia il padrone, lo veste, gli prepara la colazione, gli organizza la giornata, con i pasti, le lezioni di ballo e violino, gli incontri con gli amministratori Funtom, guida la carrozza, cura il giardino, fa di conto quando cala il buio, e ricomincia da capo. “Akuma de shitsuji desu kara”, come si definisce lui stesso, utilizzando un gioco di parole giapponese tra le pronunce di “perfetto” e “demoniaco”.
È preciso e infaticabile, d’altronde è un demone, diversamente dagli altri quattro servitori: Tanaka, il vecchio maggiordomo del padre di Ciel, è saggio e acuto, ma ormai stanco; ciò viene rappresentato in maniera esilarante, animandolo per la maggior parte del tempo in versione super-deformed, intento solamente a sorseggiare tè verde emanando sporadicamente un ”oh-ho”.
Abbiamo Finian, il giardiniere, Meirin, la cameriera, e Bard, il cuoco, accomunati dal fatto di essere totalmente incapaci nel loro lavoro. Questo perché Sebastian li ha selezionati, e assoldati, per ben altre qualità: essere assassini temibili. Sono loro, assieme a Tanaka, i difensori della residenza in assenza di Sebastian, e in questo Kuroshitsuji ricorda in maniera impressionante Hellsing: anche lì abbiamo un servitore umano, il mitico maggiordomo Walter, ex tritarifiuti della casata dall’arrivo del vampiro Alucard.
Queste persone senza futuro, ne hanno trovato uno nella difesa di Ciel dai suoi nemici: caso emblematico quello di Meirin, goffa cameriera, mezza cieca a causa degli occhiali inadatti, che non si toglie mai perché regalo del signorino, ma cecchino infallibile in caso di pericolo. Poi abbiamo Finian, un ragazzo dall’emotività tanto innocente quanto è prodigiosa la sua forza, causata dai crudeli scienziati che lo usavano come cavia, e il mio preferito, lo Chef Bard, reduce di guerra americano (nel suo flashback si può notare un errore grossolano, ovvero le divise rosse dei soldati, tipiche dell’esercito inglese, non certo statunitense). In cucina spadroneggia Sebastian, Bard da bravo yankee crede che si possa cucinare con lanciafiamme e dinamite, distruggendo puntualmente tutto. Questo dettaglio che poteva essere tranquillamente ridotto a una battuta, gli dà invece una tragica umanità: per sua stessa ammissione, non riesce a fare a meno di esser preso dalla fretta mentre cucina, come gli succedeva coi ritmi del conflitto. Un’altra sfumatura: durante un episodio dove si canta “God save the Queen” alla presenza della Regina, tutti intonano l’inno, tranne Lau e sorella, perché rancorosi verso la guerra dell’Oppio tra Cina e Gran Bretagna, scoppiata proprio sotto la monarchia di Vittoria; e ovviamente Bard, che appare imbarazzato, poiché americano e probabilmente discendente di chi, nella Guerra d’Indipendenza del 1779, contro quel canto, ci aveva combattuto.
Anche fuori dalla magione Phantomhive troviamo l’arte del servire: a circa metà stagione vediamo introdotti il Principe Soma e il khansama (servitore in hindi) Agni, entrambi di provenienza indiana. Due personaggi ricorrenti, che potevano essere semplice strumento di una facile critica al colonialismo indiano, nel periodo più delicato della sua esistenza: l’annessione della più vasta colonia inglese, il “gioiello della corona”.
La loro presenza a Londra è però dettata da motivi ben più personali (che non si risolveranno felicemente, tra l’altro), e finiranno con l’avere un impatto persino su Sebastian, che scoprirà una filosofia del servire più imperfetta forse, ma umana, improntata su rispetto e collaborazione. Non che questo cambi un percorso inevitabile per le loro controparti inglesi, Sebastian e Ciel, nel loro impeccabile (e inumano) rapporto di servitù. Lo vediamo nella gara di curry con in palio il Royal Warrant, gustosa citazione storica all’onorificenza massima riservata dalla casa reale inglese ai suoi negozi preferiti. Il nero demone usa del cioccolato per insaporire il suo misto di spezie, un azzardo simile solo per una battuta sprezzante del suo signore. Perché come dice lui, “sono un perfetto maggiordomo”. Agni invece, pur determinato, pur fedele, gratificato dalla sua “mano destra della Dea Kali”, dotata di forza e destrezza culinaria, perde il contatto spirituale con il suo padrone. Perché è solo umano, straordinario ma pieno di difetti. Eppure il legame tra lui e Soma continuerà ben oltre quello dei due inglesi, senza bisogno di un’anima come premio finale, vivendo solo di fiducia e rispetto. Sebastian può stare ore su un tetto, tra oscurità e neve, a spiare i nemici del conte, ma non potrà mai piangere lacrime, lacrime di sangue, per lui.
Vi ho parlato di uomini e non, tutti a loro modo incredibili nell’arte del servire, ma è doveroso non tralasciare proprio Lui, Drozell Keinz.
Ovvero…


IL PERFETTO MAGGIORDOMO
O forse solo quello che più ho amato in questa ventina di episodi, protagonista dei miei preferiti. Partiamo dal nome: Drozell Keinz. Ora, forse sono pazzo io, ma chiunque abbia le capacità e il coraggio di creare un nome simile per un personaggio secondario, presente giusto in tre episodi scarsi, per me ci sa fare nel comparto scrittura.
Un passo indietro: siamo tra decima e dodicesima puntata. Comincia la favola nera del burattinaio del borgo Islington: Drozell Keinz, della famiglia Mandalay. Come si conviene, si parte con la scomparsa di una bambina, Elisabeth. Ciel, inizialmente da solo, segue le sue tracce fino a Londra.
Un buon episodio deve fare tre cose: sorprenderti con nuove vicende, ricollegarsi alle precedenti, gettare ponti per quelle future. Ognuna di queste nei tre episodi, viene svolta alla perfezione, perciò quando Ciel si separa da Sebastian e giunge alla bottega del burattinaio, abbiamo già motivi per sentirci inquieti: fin da prima si portava avanti la sottotrama di una ricerca di alcune bambine scomparse.
Ora la macabra bottega, che dal retro immagino porti al mondo delle favole. Sbuchiamo su un parco immenso, dove svetta un Palazzo della Mezzanotte, una specie di casetta di marzapane in versione castello, in piena periferia londinese. Magia dell’animazione.
L’avventura continua, si entra nel castello di Barbablù. Affascinante la riproposizione di molti elementi fiabeschi, caricati di quel macabro che nello scritto è solo sottotesto, coperto dalla parvenza di storiella educativa per bambini. Si comincia con il Guardiano: una bambola apparentemente inanimata che punisce gli intrusi (i suoi occhi che si abbassano lentamente sono spavento puro, altro che jumpscares). Messa a presidio dell’ingresso, è guardia ma anche monito, poiché si tratta di una delle precedenti vittime. Eppure quando la si scalfisce fuoriesce solo imbottitura, e non ci verrà mai specificato se è effettivamente una marionetta con fattezze ricalcate, o la vera ragazza scomparsa. Nella seconda ipotesi, viene la pelle d’oca a pensare cosa lei e le altre abbiano subito, per essere trasformate così, perdendo volontà e corpo.
Poi viene il nostro amatissimo Drozell Keinz, personaggio così straordinario da non essere classificabile.
È un cult vivente, con i capelli arancioni, la tuba, l’antiquata macchina musicale a manovella, il completo da soldatino di stagno, il suo modo di parlare che comincia sempre con “Io penso…”.
È Inventore, Servitore del Padrone e a capo della sua armata di bambole, ma soprattutto è uno Stregone: compare dal buio con un candelabro, recita il suo incantesimo di manipolazione (la canzoncina London bridge is falling down) e tira le fila delle marionette senza vita, lui che è a sua volta un pupazzo. Indimenticabile, come il suo nome.
Per non farci mancare niente abbiamo anche la Stanza Segreta, che rappresenta il nostro momento WTF della puntata, con tutte quelle facce alle pareti che compaiono, cantano lo snervante motivetto con voci sataniche, vengono superate e poi nessuno ne riparlerà mai più. Capita.
Abbiamo il Simbolo, che marchia il Protagonista dal giorno in cui ha giurato vendetta, e il cliffhanger con l’arrivo dell’Aiutante. Ovviamente il nostro “akuma de shitsuji” non è aiutante qualsiasi, e ci ricorda perché lo amiamo tanto con un dialogo splendidamente subdolo, ma anche sincero. “Sembra che non succeda mai niente di buono nel giorno del suo compleanno, vero? Ha perso i suoi genitori, la sua casa…oggi perderà anche Lady Elisabeth? […] Signorino, non aveva detto di avere delle faccende da sbrigare? Quelle faccende comprendevano crogiolarsi nella solita disperazione familiare…per sfuggire ai fantasmi del passato?”
Adoro questi dialoghi, fanno molto con davvero poco, anche fosse solo legarsi armoniosamente con puntate precedenti o future.
Ad esempio si riparla del Diamante Hope, una infausta pietra preziosa (realmente esistente) che si dice porti la sventura a chiunque la possieda. “La scheggia di Hope è l’anello che il padrone dà a chi verrà trasformato in bambola”, dice Drozell Keinz. Forse quell’anello è stato sostituito alla morte dei genitori di Ciel, invece che essere un innocuo simbolo di generazioni di Phantomhive? È il legame che ha portato Ciel verso il suo Giudizio, per vedere se si fosse purificato sotto la guida occulta della Regina, come presumibilmente non avrebbero fatto suo padre e sua madre? Teoria interessante, forse ammirevole tentativo degli sceneggiatori per dare linearità ad una serie palesemente spaccata a due terzi, forse sono solo i farfugliamenti di una tragica marionetta, l’incompleta verità di una testa riempita di segatura.
Intanto gli scenari da favola continuano, la fuga dal Castello di Marzapane porta fuori dalla Foresta Nera, sul ponticello del fiume ghiacciato. La strada porta alla Torre, quasi sospesa in mezzo al lago immacolato, tutto di ghiaccio. Lì si trova il Padrone, nella “stanza più remota della torre più alta”, o almeno la sua folle dichiarazione di guerra: una bambolina raccapricciante, la cui risata mi ha tormentato a lungo, che fugge a piccoli passi lanciando il suo messaggio.
È tempo di tornare alla realtà, ma io avrei voluto che questa favola non finisse mai.
Prima però diamo l’addio al mitico Drozell Keinz, un essere umano morto cinque anni prima, riportato in vita con un’anima posticcia, eppure incrollabile nel suo senso del dovere. Un Maggiordomo all’oscuro delle macchinazioni del padrone, che ricorda vagamente una versione da favola nera del mitico Anthony Hopkins in Quel che resta del giorno. Che meraviglia.


SCACCO MATTO
Se dovessi riassumere tutto il bene e il male di questa serie, con le sue idee più o meno riuscite, userei questa: Gioco. Tutto ciò che importa a Ciel è giocare, come sarebbe normale per qualsiasi bambino, ma con un carico come il suo sulle spalle è inevitabile che si parli di una partita mortale. Una scommessa, che il piccolo diabolico conte fa con chi ha tirato i fili della sua rovina. La metafora di questa, a cui Ciel nega sempre l’appellativo di vendetta, è codificata fin dal primo episodio: un losco italiano fa visita ai Phantomhive, e il padrone di casa lo porta a parlare d’affari davanti al Gioco dell’Oca, che per l’ingenuo ospite si trasformerà in qualcosa di ben più letterale. Abbiamo le marionette, di cui ho già parlato, ma non esiste gioco in quest’anime più rappresentativo degli scacchi. Ciel si riferisce sempre agli altri come pedine, perché quello sono nella sfida, che si rivelerà essere contro la Regina stessa. Non ho letto il manga, ma ad un occhio allenato non è difficile vedere dove finisce una visione chiara e dove inizia l’imposizione dello studio a completare il prodotto animato prima di quello cartaceo. Ed è a partire da rivelazioni come queste che la mitologia comincia a scricchiolare, farsi confusa. Il parallelo è anche azzeccato: Ciel è più volte rappresentato come un Re nero (anche nella seconda sigla iniziale), Sebastian come il suo cavallo vincente, quindi ci sta in pieno la contrapposizione con la Regina bianca. Lei doveva essere la luce che formava l’ombra dei Phantomhive, ma ha deciso di distruggerli sotto l’influsso di un angelo caduto, che nient’altro è se non il suo maggiordomo Ash. Non che sia così difficile capirlo, i vestiti nella Torre negli episodi con Drozell Keinz sono i suoi, peraltro speculari a quelli di Sebastian (guanti bianchi e completo nero per quest’ultimo, guanti neri e completo bianco per l’angelo). Più sorprendente scoprire che Angela, personaggio secondario nei primi episodi, è la controparte femmina di Ash, una seconda Regina bianca insomma, che si celava dietro la natura androgina e pansessuale della creatura divina.
Questa mitologia del gioco regge bene nella prima metà: nell’arco di una delle pedine di Ciel, sua zia Madame Red, veniamo a conoscenza dell’esistenza degli Shinigami, ovvero gli Dei della morte della mitologia giapponese. Ce ne vengono introdotti tre: Grell Sutcliffe, che dopo essersi liberato della copertura di maggiordomo di Madame si rivela per quello che è, ovvero un esuberante e divertentissimo giudice delle anime, dalla omosessualità così spiccata da far rabbrividire persino Sebastian (costante obbiettivo delle sue avances); Undertaker, già conosciuto come becchino, si scopre essere uno dei Supremi Shinigami, colui che ha giudicato Robin Hood e Maria Antonietta, ma che ora si è ritirato sulla Terra, accontentandosi di una risata come pagamento per i suoi servigi; infine, il mio preferito, William T. Spears, inflessibile burocrate, sempre a lamentarsi di ritardi e straordinari non pagati. Quest’ultimo, con la sua divisa da ufficio e occhiali sempre da sistemare, rappresenta questa idea geniale della serie, l’amministrazione del Divino. Stupendo è lo spazio a ciò dedicato, la Biblioteca degli Shinigami, il tempio del libro per eccellenza, bianca e dalle forme classiche, l’ultraterreno che diventa così Umano. Chiaramente, vedere l’aldilà equiparato alla nostra burocrazia è comico e provocatorio, ma mantiene una grande credibilità: lo spettatore riconosce di trovarsi dove due mondi si incociano, con questo monumento che sembra un misto tra il Duomo di Milano e il Taj Mahal, il Partenone e un palazzo viennese. Con i suoi corridoi blu e immensi spazi aperti, ricorda vagamente l’isola del Tempo di Mamoo, il cattivo di Lupin III e la Pietra della Saggezza.
Qui sono conservati i Cinematic Records. Ora, fermiamoci un attimo, perché questa idea è talmente bella da meritare di essere capita nella sua grandezza. Avete presente il modo di dire, “vedersi scorrere la vita davanti agli occhi” quando si muore? Bene, qui viene preso e materializzato. Quella vita che scorre, come una pellicola, e che gli umani vedono solo in punto di morte, viene letteralmente estratta dalla falce del Tristo Mietitore, per essere esaminata e giudicata. Il passato, i peccati, le azioni non sono che un film, racchiuso poi nel libro dello Shinigami, come a dire che queste due altissime espressioni artistiche, la cinematografia e la letteratura, sono la Vita, poiché racchiudono l’Uomo tutto, nel bene e nel male. Meraviglia.
La sensazione così è che ci si trovi davvero in una partita a scacchi più grande di noi, continuamente citata, nella lezione di gioco con Elisabeth, nella frase di Sebastian sul finale, piuttosto eloquente: “Ci stiamo avvicinando allo scacco matto, signorino”.
Eppure, per usare una battuta, non tutti i pezzi si muovono correttamente, come anticipato; specie quando si parla dell’angelo. Non è che sia un pessimo villain, specialmente nella sua forma femminile. Angela è animata e doppiata meravigliosamente, con quegli occhi viola che sposano la voce suadente, maestra della manipolazione. Una vera femme fatale, che in più di un’occasione dimostra testa e perfidia.
Il problema è che il suo arco narrativo non sta in piedi, è un troncone che sbatte dove capita nel flusso della storia. Per esempio, sembra senza senso che Angela abbia ucciso di sua mano i genitori di Ciel, senza spiegare peraltro cosa centrava la misteriosa organizzazione (probabilmente unica responsabile nel manga), sperando di purificare la famiglia Phantomhive. È ovvio che qualsiasi bambino crescerebbe con l’oscurità che lei odia tanto nel cuore, facendole ricominciare la guerra con la casata nuovamente. Addirittura la Regina avrebbe purificato i genitori di Ciel sotto l’influsso dell’angelo, desiderando liberarsi della sua “ombra”, ma donandogli l’unione nella morte, come lei è unita al corpo del consorte Alberto (raccapricciante). Vabbè che parliamo di un angelo caduto perverso nel lato maschile e pazzo in quello femminile, dagli ideali completamente distorti.  Forse spera di portare Ciel dalla parte della monarchia (altro dettaglio inspiegabile, prima la Vittoria giovane e corrotta muore, poi la vecchia Vittoria torna in vita…boh, sarà una metafora) controllata da lei, asservendolo al suo ideale di purezza. In fondo, è ciò che cerca di forzare in Ciel, rinnegare il suo passato, quando William T. Spears, in un brillante montaggio incrociato, ci spiega di cosa sono capaci gli angeli: contraffare i Cinematic Records, senza cambiare il passato (“una cosa simile non potrebbe farla nemmeno un Dio”), ma donando una falsa pace.
Tutti idee che non hanno la forza che vorrebbero: si tenta di virare verso un finale cattivo a tutti i costi, con gente che muore, tradimenti, e risoluzione finale, con il tanto agognato premio per Sebastian. E…beh, non è questo che rende Kuroshitshuji speciale. La sua forza è nel viaggio senza ritorno e senza colpevoli da punire per sentirsi meglio, verso il peccato ma anche nella gioia che possono dare chi si considerava a malapena pedine.
Quindi il cambiamento di Lau non mi ha mai convinto, e persino certe azioni di Sebastian mi hanno fatto storcere il naso. È chiaro sul finale il rimorso di Ciel per la morte dell’ispettore Aberline e di Lau, che lo spinge a mettere in dubbio per la prima volta l’offerta della sua anima al demone. Non è ciò che vorrei, ma almeno vediamo la vera natura del maggiordomo nero, sotto le spoglie del servitore efficiente, perspicace e persino sensibile: non importa quanto Ciel lo rimpianga, rimarrà sempre legato ad un contratto, ma Sebastian lo abbandona comunque, e non è difficile immaginare perché. Egli è stufo di divorare, anima dopo anima, un umano dietro l’altro. Lui vuole gustare, e solo il più corrotto, spietato e triste di tutti lo soddisferà, non certo chi comincia a trovare motivi per vivere, per anelare alla luce. È una prova, che gli dà ragione, ovviamente, perché Sebastian non sbaglia mai, non è fallace come noi umani, d'altronde. Mi viene da sorridere pensando a come lo riassumerebbe un geniale (letteralmente) episodio di Due Fantagenitori, dove il protagonista viene manipolato da un genio della lampada: “Non te la prendere, è solo questione di esperienza, in fondo hai solo dieci anni, io invece cinquantamila”.
Dunque arriviamo all’ultimo episodio, assieme ad una ripresa qualitativa francamente incredibile. Sentiamo il rimpianto per le persone care, vive e morte, specialmente il padre di Ciel, che sapeva dell’inutilità della vendetta e dell’odio. Ormai però è fatta, non si può percorrere l’Acheronte, il fiume dei morti (perché dentro di me sono sicuro fosse quello), all’indietro. La barca condotta da Sebastian, moderno Caronte, sbuca ormai nel mare. E qui, miracolo dell’animazione, si intravedono le coste di un’isola, ma non una qualunque. La fine di Ciel avverrà nientemeno che nell’Isola dei Morti di Arnold Böcklin, tra le rovine, i maestosi cipressi e il cupo sguardo di corvi e demoni.
Poi, non c’è più nulla…forse.

3 commenti:

  1. Allora eccomi, avevamo parlato di "Demolition" ricordi? Tu l'avevi visto, io l'avevo in casa da un po', perché compro e metto lì in attesa. Chiaramente me lo sono guardato subito e avevo scritto delle cose pensando prima o poi di fartele avere. Sono passati mesi e se mi fai domande, dovrei riguardarlo, perché non ricordo quasi più niente, ma questo è quello che scrissi allora.

    Demolition:

    Conosciamo veramente le persone che ci sono accanto?
    Quante possibilità ci vengono date in una vita, quanti errori dobbiamo fare prima di scoprire fino in fondo chi siamo veramente?
    Ci sono attimi che restano impressi nella memoria, sentimenti che vengono cristallizzati, a volte può succedere che la vita la si attraversi soltanto.
    Film difficile. Non basta una visione.
    C'è un uomo che sembra non soffrire quando dovrebbe, un lutto non lo fa reagire come gli altri vorrebbero, come ci si aspetterebbe; niente è più lontano dal suo sentire. Quello che sembra solo un vuoto, un cuore a metà con un pezzo mancante è invece il suo modo inconsapevole di voler capire.
    Vuole disfare, spaccare, demolire, per andare al cuore delle cose, per vedere come funzionano; ha bisogno di distruggere per vedere se dopo aver distrutto e demolito e fatto a pezzi tutto quanto persino la sua casa, lui possa nonostante tutto ritrovare qualcosa. E qualcosa troverà nel suo limbo e nel suo delirio, un'anima affine, un bambino da aiutare che a sua volta lo salverà.
    Un piccolo biglietto azzurro che gli farà ricordare che c'era amore anche se lui non lo voleva sentire. Anche se lui sinceramente non riusciva a capire o a ricordare se ci fosse stato. Demolisce tutto ma abbatte anche il muro che lo tiene prigioniero.
    Discesa e risalita.
    Il film finisce troppo presto e tu spettatore hai attraversato il tempo del dolore, hai sorriso e hai pure riso. Una montagna russa di sensazioni dolci, una giostra di cavalli a ricordo del tempo che è andato. Ma le vecchie giostre come i sentimenti e i ricordi ti aiutano ad andare avanti senza per forza dover dimenticare.


    Fammi sapere se ti ritrovi, aggiungi, nel caso lo riguardo.

    Mi piacerebbe chiederti qualcosa, rispondi solo se ne hai voglia:

    1) Il film di cui diresti: "C'è tutta la vita dentro!" Qual'e' il film che per te definisce meglio il concetto di 'Vita'?

    2) L'ultimo film in cui hai pianto.

    3) Un DVD che regaleresti a un amico/a. Puoi anche specificare e quindi metterne due.

    4) Se esiste, il tuo film del cuore.

    5) Consigliami 5 film da vedere (non scarico film, deve quindi esistere il DVD).

    Grazie dell'ospitalità! Ciao!

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    Risposte
    1. Buonasera Lory, credo non aggiungerei altro a ciò che hai scritto. Perché, anche se non mi ritrovo completamente nelle tue parole, è proprio questo ciò che adoro di Demolition. Ognuno potrebbe scrivere ciò che ha provato e probabilmente non mi ci ritroverei, perché Demolition si nutre proprio di quelle emozioni, quelle reazioni diverse per ognuno. Affrontiamo momenti belli e brutti a nostro modo, e questo il film di Vallee lo capisce, lascia a noi il compito di riempire ciò che non è spiegato.
      Demolition è un film molto speciale, di quelli da parlarci più volentieri, visto il tiepido ricordo a cui viene spesso relegato. E mi ha fatto piacere leggere la tua versione :)

      1 Avrei qualche papabile in mente, ma sono convinto di doverlo ancora trovare ;)

      2 La Casa di Jack mi ha strappato un paio di lacrimoni nel buio della sala

      3 Ne ho regalati abbastanza, e immagino continuerò a farlo pur senza sapere quando sarà il prossimo. Ricordo che Persona fu molto sentito da un mio amico appassionato di Bergman

      4 Esiste eccome, ma siccome voglio scriverci per Anime e Core non ti rivelo ancora quale è ;)

      5 Allora:
      -animazione orientale: Mary e il fiore della strega. Da chi cerca di tenere in vita lo Studio Ghibli, ed è ingiustamente stato demolito (manco fosse la casa di Gyllenhall) per questo

      -animazione occidentale: Sinbad
      L'ultimo gioiello in tecnica tradizionale della Dreamworks, l'avventura che prende vita, l'amicizia, l'epica.

      -commedia: The Nice Guys. Un buddy cop fantastico, tra omaggi neo noir a Chandler, personaggi unici, dialoghi irresistibili. E sotto un'apparenza volgarotta, un gran cuore, vedere per credere.

      -thriller/horror: Lake Bodom. Tratto da un delitto ormai leggendario in Finlandia, abbiamo anche un film di matrice più femminile. Senza lasciare a casa qualche brivido e un pizzico di originalità nella formula slasher. Con qualche difetto ma encomiabile

      -western: Maverick. È il più anzianotto tra i consigli, ma non fa mai male ricordare questa perla del vecchio leone Richard Donner. Ogni schema del western viene rivisitato con un'ironia graffiante da Mel Gibson e compagnia, tutti in parte. C'è romanticismo, tensione, e ovviamente si ride a crepapelle. Non smetterò mai di consigliarlo.


      In alternativa a tutto questo, c'è il Black Butler che ha ospitato la conversazione ;) per quello però bisogna andare di streaming, perché non è, e probabilmente non sarà mai disponibile in Italia.

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    2. Innanzi tutto grazie per la tua risposta veloce. Peccato, avrei voluto il tuo commento su Demolition, ma a questo punto credo sia forse uno di quei film personali e intimi che vuoi tenere per te, ok.

      1. Era la domanda più interessante, peccato non avere una risposta.

      2. Sorpresa per questa risposta, non l'ho visto ma i film di Lars spezzano, io ne ho visti tre e il prossimo sarà Melancholia.

      3. "Persona" ricorre spesso tra i commenti del blog per cui sarà uno di quelli in programma. Anch'io amo regalare film.

      4. Aspetteremo....

      5. Grazie per i consigli, anche se tre su cinque li ho già visti. Mi manca Sinbad e Lake Bodom.
      The nice Guys anche a me è piaciuto molto, ho anche il DVD.

      A risentirci, ciao!

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