26.1.23

Il meglio dell'Invisibile - 18 film bellissimi non ancora distribuiti in Italia


 

Visto che nel sondaggione finale i film non distribuiti in Italia non potevano partecipare, e visto che quest'anno nel Buio in Sala non hanno praticamente mai trovato spazio (ho visto al 95% film distribuiti, sala e piattaforma), ho pensato di riunire una specie di Intellighenzia di amici e chiedere a loro di presentare qui nel blog 2/3 film bellissimi a testa che da noi non sono mai usciti.
Ed ecco che è venuto fuori questo bellissimo post, spero anche molto interessante.
Ovviamente al momento (ma per quasi tutti direi che anche in futuro) questi film non potete vederli "legalmente", cercate di arrabattarvi in qualche modo ;)
Ah, la bella notizia è che nella squadra qui sotto io non ci sono!



RICCARDO SIMONCINI

THE HAPPIEST MAN IN THE WORLD di Teona Strugar Mitevska


In mezzo alle macerie di una Sarajevo presente bombardata dalla guerra, in un grande e desolatissimo albergo vengono organizzati incontri per trovare l’amore o forse un futuro, per uscire da un tempo che imprigiona tutto e tutti, residuo di un mondo distrutto e senza speranza, come quei palazzi lì affacciati tappezzati di fori di proiettile. Chiusi in un susseguirsi di stanze vuote dai nomi di città svizzere, i partecipanti (tutti conformati con casacche viola per "mantenere la concentrazione e far rispettare le regole") si dedicano ad attività e giochi di ogni tipo, che sembrano richiamare una versione comica e grottesca degli Hunger Games per trovare l’anima gemella. Dalle domande iniziali per conoscersi - che pongono sullo stesso banalissimo piano il colore preferito e la propria posizione politica verso i serbi. Ad una versione adattata di "palla avvelenata". Dove una rievocazione storica viene confusa per una performance. Così si incontrano Asja e Zoran, con un carico di tensioni che sono tutto meno che sessuali. Potrebbero infatti essere la coppia perfetta, hanno interessi e passioni comuni, ma in mezzo si interpone il trauma del loro passato, l'odio ereditato da assurdi principi.
Teona Strugar Mitevska torna con un’opera dall’ironia pungente e sottilissima, dove i volti dei suoi personaggi non assomigliano a quelli dei loro genitori biologici ma all’eredità della Storia che li ha plasmati: guerre e tradizioni insensate, come quella che muoveva le sorti della protagonista Petrunya nel film precedente. Religione, confini, popoli che si odiano più per una rabbia ereditata che per motivi interiorizzati. Come i movimenti innati di quelle stesse dita che ora si incrociano per afferrare una palla, ma che prima hanno premuto un grilletto per uccidere. E ora dentro quegli spazi ognuna di quelle persone affida quel dolore ad un oblio impossibile, nascondendosi dentro se stessa, riempiendosi gli occhi anestetizzando la memoria. Come se l’amnesia fosse la massima lucidità mentale. Lì dove quello che chiamiamo presente non è altro che un disturbo da stress post traumatico, la pazzia della guerra.
“Avete ripreso tutto da capo”.


STEFANO DE ROSA

VIEJOS di Raúl Cerezo, Fernando González Gómez


La Spagna è attraversata da un’eccezionale ondata di caldo che ha un impatto devastante sulla salute fisica e mentale della popolazione più anziana. I viejos, guidati da una misteriosa forza esterna (aliena?) si coalizzano contro i giovani, in una spirale di terrore che vede come protagonista nonno Manuel (interpretato magistralmente da Zorion Eguileor, che avevamo già avuto modo di apprezzare in una precedente edizione del Festival nello straordinario “El Hoyo”) che ha perso da poco la moglie in circostanze misteriose.
La sto­ria è rac­con­ta­ta dai due re­gi­sti (Raúl Ce­re­zo e Fer­nan­do Gon­zá­lez Gó­mez) con una mise-en-scè­ne di gran clas­se, a co­min­cia­re dal­l’in­ci­pit con la mac­chi­na da pre­sa che in­du­gia su un pri­mis­si­mo pia­no del di­pin­to di Goya “Due vec­chi che man­gia­no”, dove com­pa­io­no due per­so­nag­gi an­zia­ni: quel­lo di si­ni­stra, fa una smor­fia con la boc­ca, pro­ba­bil­men­te per la man­can­za di den­ti, men­tre l'al­tro ha il vol­to di un ca­da­ve­re. E pro­prio in tale ope­ra tro­via­mo una pri­ma chia­ve di let­tu­ra del film che mo­stra, con una fo­to­gra­fia “cal­da” (sof­fo­can­te come il cli­ma di Ma­drid) che vira spes­so sui toni del gial­lo e del mar­ro­ne, quan­to pos­sa es­se­re ter­ri­bi­le la con­di­zio­ne di un es­se­re uma­no giun­to or­mai alla fine del­la pro­pria esi­sten­za.
Ma Vie­jos è an­che (e di­rei so­prat­tut­to) un film sul­l'es­se­re igno­ra­ti se non ad­di­rit­tu­ra in­vi­si­bi­li, un gri­do di do­lo­re in­di­riz­za­to alle ge­ne­ra­zio­ni più gio­va­ni, con un fi­na­le aper­to che mi ha ri­cor­da­to mol­to quel­lo di “The in­vi­ta­tion”.



DAVIDE BANCHIERA

THE NOVELIST’S FILM di Hong Sang Soo


Ogni film di Hong sang soo è unico, ma paradossalmente se dovessimo far un gioco ed estrapolare 5 frames da altrettanti suoi film , difficilmente sapremmo individuare di quale film si tratti.
I luoghi ed i personaggi sembrano a prima vista assomigliarsi un po’ tutti, ma è proprio qui che entra in gioco l’autorialità del regista, che lentamente toglie il velo che ricopre ogni personaggio e li presenta in tutta la loro spontaneità.
In quest’ultimo The Novelist’s film, è una scrittrice la protagonista e saremo pian piano portati a concentrare la nostra attenzione sui rapporti che intercorrono fra lei e le persone che incontra: un’amica di vecchia data, un regista, un’attrice, un poeta…
Una serie di coincidenze porterà la scrittrice a dirigere il suo primo cortometraggio; avremo quindi modo di riflettere sull’onestà intellettuale e sulla mancanza d’ispirazione, ma vedremo come la passione, l’istinto e l’amore per l’arte riusciranno a portare alla nascita d’immagini in movimento.
Allo spettatore sembrerà di ricevere una carezza, un soffio, un abbraccio metacinematografico.
Il cinema di Hong sang soo è pura poesia , un modo perfetto per concentrarsi sul “qui e ora”, soffermarsi su un gesto, una semplice parola o una lieve sfumatura.


GIANLUCA CAFAGGI

MAD GOD di Phil Tippett



Levitico 26:33, riassumendolo brevemente Dio mette in guardia l'uomo dandogli un assaggio di ciò che il suo terrificante volere potrebbe rappresentare.
Mad God comincia così, con questo passo dell'antico testamento, tutto quello che vedremo dopo sarà il caos descritto in quelle poche righe, caos che l'uomo ha contribuito a creare e pur cui adesso viene punito da Dio...ma chi o cosa è Dio?
Opera in stop motion la cui realizzazione è durata più di 30 anni, partorita e plasmata nei minimi dettagli da Phil Tippett, creando e animando totalmente a mano scenografia e personaggi.
Mad God è un'operazione probabilmente irripetibile, un atto d'amore verso il cinema di una maestosità tale da lasciare a bocca aperta sequenza dopo sequenza, per lo più autofinanziato da l'autore stesso e da chiunque negli anni abbia creduto nel progetto.
Una lunga discesa all'inferno, rappresentata da una sequenza iniziale memorabile, un'inferno animato da creature inumane, volte ad alimentare un ciclo continuo fine a se stesso. Un paesaggio post industriale dove colori sporchi, polvere e oscurità fanno da padroni, fotografia che rende ancora più terrificanti i paesaggi incredibilmente dettagliati che fanno da cornice alla vicenda, veri protagonisti del film.
Nonostante un'impostazione fortemente antinarattiva e una totale assenza di dialoghi, Mad God non si limita all'estetica, molteplici sono le letture e le riflessioni a cui ci sottopone. Partendo da una critica al puro e mero consumismo moderno, al materialismo e al cerchio piatto a cui la società riduce le nostre vite, scaverà sempre più a fondo, portandoci fino a vere e proprie riflessioni esistenziali, dove starà a noi decidere chi o cosa sia quel Dio citato nelle prime righe.
Un film cinico, crudele ma anche sincero e mai retorico; sicuramente una visione pesante, ma che non può lasciare indifferenti.


ENRICO GASPARI

TRES di Juanjo Giménez



Questo Tres - a volte si trova anche come “Out of sync”, che, se volete la mia, è un titolo orribile e banalizzante – è il classico esempio di film dal grande soggetto, una categoria onestamente sovradimensionata. Ardirei dire che chiunque può avere una bella idea, o che suona tale. Tutt’altro discorso è trasformare quel nucleo impreciso in una storia che si aggiri, generalmente, sull’ora e mezza, coerente, ritmata, con personaggi e dinamiche interessanti: questo sì, che vuol dire avere un grande soggetto. È per pochi, e tra quei pochi ci metterei Juanjo Giménez – spagnolo, niente di strano dunque, ormai è uno dei cinema migliori al mondo – al suo esordio. Cosa succederebbe se il nostro udito fosse fuori sincrono, anche di poco, come accade alla protagonista senza nome (Marta Nieto, la Rosamund Pike spagnola)? Mezzo secondo di ritardo, una nullità: eppure quel poco basta praticamente a rovinarle la vita – lei è tecnico del suono, e pure per progetti prestigiosi, immaginate il disastro – e non solo, aumenta sempre di più fino a divenire interi minuti di scompenso. Siamo dipendenti dall’udito: una pentola che bolle, un clacson, un rumore strano la notte, i segni del pericolo ci proteggono, e se non possiamo udirli possiamo affinare i nostri altri sensi, ma gestire un ritardo così variabile no. E in effetti, la scena al supermercato è persino horror, quando lei sente quella conversazione dilazionata e la propria voce stentata (se non puoi ascoltare non puoi nemmeno parlare normalmente). Eppure, il colpo di genio di questo film, oltre alla trovata metacinematografica – come detto lei è tecnico del suono, e per quelli veri sarà stata divertente e impegnativa la gestione del set – è quella seconda parte dove lei, nonostante tutto, quella vita comincia a godersela. È quasi un ritorno all’arcaismo felice, non esistono orari, scadenze, ritardi, contano solo i cicli naturali, perché se tutto è in ritardo è come se nulla lo fosse. Si torna ad apprezzare le piccole cose, e a questo proposito c’è una scena talmente bella che penso non me la toglierò mai dalla testa, dove lui accompagna lei al cinema in tempi sfasati, che credo valga da sola dieci anni di film (anche venti se contiamo pure il seguente coito “ritardato”). Sono curioso di sapere cosa ne pensano altri sul finale, dove si dipanano degli eventi passati certo commoventi, forse non necessari; sarebbe stato meglio lasciare tutto all’immaginazione, ma è un pensiero mio. Ai posteri l’ardua sentenza, anche così lo ritengo uno dei film non distribuiti più validi degli ultimi anni.


FRANCO CAPPUCCIO

THE PLAINS di 
David Easteal



Nel primo lungometraggio di Easteal, il regista australiano adotta uno stile registico basato sulla durata che ha probabilmente raggiunto il suo apice attorno all’inizio degli anni ’ ma egli mette a frutto la cornice concettuale in un lavoro coinvolgente con naturalezza e libero dagli aspetti più provanti del cinema contemplativo (ad esempio, lunghi passaggi di silenzio, oppure personaggi quasi simbolici che si avventurano in missioni apparentemente senza fine verso l’illuminazione). Di durata 180 minuti e quasi completamente ambientato dentro una macchina, The Plains ci mostra la vita giornaliera da pendolare di un uomo d’affari di mezza età dal parcheggio di un ufficio legale di Melbourne fino alla sua casa nei sobborghi esterni della città. Ogni giorno, appena passate le 17, Andrew (Andrew Rakowski) entra nella sua Hyundai, chiama sua moglie, e si informa delle condizioni della madre sofferente, prima di ascoltare un talk show alla radio per il resto dell’ora di viaggio. Di tanto in tanto, offre un passaggio ad un collega, David (interpretato da Easteal), che sta attraversando una rottura ed è in linea generale poco soddisfatto della sua vita personale e professionale. Nel corso del film raccontato in maniera ricorsivi, iniziando nello stesso luogo e nello stesso spazio per ogni giorno Andrew e David rivelano loro stessi in conversazioni superficiali, fatte su due piedi (apparentemente scriptate ma recitate così naturalmente da dare la sensazione di essere un documentario) che si accumulano in un ritratto acuto della vita moderna una in cui le altrimenti inarticolate credenze, rimpianti ed ansietà portano alla luce una umanità condivisa troppo spesso persa nel trambusto del mondo.


MARCO BAGARELLA

THE EXECUTION di Lado Kvataniya



Ecco, quindi questa ballata della Giustizia, suprema signora dell’universo. Ecco l’incedere lento ma inarrestabile del suo passo, mentre segue il carnefice, lo scruta, lo inganna, lo svela e lo annienta abbracciato alla sua stessa colpa. E se anche fosse, così come lo è in questa narrazione filmica, che l’uomo colpevole vive nella prosperità, riceve onori, ecco che i morti si levano dalle tombe (anche i vivi-morti, gli uomini sepolti dalla vita in vita, viene da aggiungere), e lo perseguono. E lo portano via con loro. Thriller epico, da mettere accanto a capolavori come “Seven” e “Memories of murder” e film-bomba, per me, per il biennio ‘21/’22. Che se fosse stato distribuito in Italia avrebbe scalzato chiunque, colorando, con i già nelle sale Sokurov e Khrzhanovskiy, l’intero podio di cultura russa.


RICCARDO SIMONCINI

DRY GROUND BURNING di Adirley Queiros e Joana Pimenta


Un documentario di fantascienza distopica, di un futuro invece più presente e reale che mai, grondante ribellione in ogni fotogramma. Adirley Queiros e Joana Pimenta dirigono un impressionante lavoro che unendo realtà e finzione tratteggia la sovversiva mitologia del reale che potrà esistere da qui a poco tra le vie periferiche di un Brasile profondamente lacerato (dal regime di Bolsonaro in primis).Un gruppo di sorelle, figlie sparpagliate di un noto criminale locale (“una figlia lì e l'altra qui"), si destreggia tra i luoghi dimenticati di Sol Nascente, alla periferia di Brasilia. Qui sono diventate proprietarie di un lotto di terreno tra varie tubature sotterranee di petrolio, da cui ricavare insomma un business estrattivo familiare altamente redditizio. Un vero e proprio avamposto, sospeso tra le torrette di guardia armate e quelle di petrolio, che esce densissimo a riempire fiumi di barili. L’oro nero viene così aspirato dal cuore della terra per poi essere trasformato in altri infiniti ori, per guadagnare, da barattare, con chi si trova in quelle aree di favelas. E poco importa se è considerato criminale. Chitara, la capa tra la sorelle, detta le regole di quel microcosmo, impone prezzi e condizioni persino ai rider più temuti e spietati del posto.
E intanto il petrolio brucia, con un fuoco tossico e artificiale, aranciato come un tramonto che in Brasile tarda ad arrivare. Un fuoco che è sì costante presenza sul terreno, ma a rappresentare l’aridità, come da titolo, di una terra infertile che può tornare a vivere solo accesa dalla benzina. Perché lì gli ultimi rimangono ultimi, e Bolsonaro rimane Bolsonaro, sempre al potere ad essere festeggiato per l’ennesima ingiustizia, con la notte cupissima illuminata sempre e soltanto dalle luci di combustibili, fanali in avvicinamento, fari puntati.
Ma esiste una leggenda, lì dove tutto è sempre uguale, la leggenda di Chitara, la gasolineira, che con il petrolio ha sconfitto il sangue. È storia.

STEFANO DE ROSA

MANTICORA di 
Carlos Vermut



“La manticora è una creatura mitica, una sorta di chimera dotata di una testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione, in grado di scagliare spine velenose per rendere inerme la preda” (da Wikipedia)
Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore
Julián come lavoro disegna mostri atroci
un mostro atroce abita in Julián
Julián salva un bambino da un incendio
il mostro che abita in Julián desidera quel bambino
Diana è una ragazza in cerca di amore che si innamora di Julián
anche Julián è in cerca di amore e prova ad amare Diana
Julián perde il lavoro a causa del mostro che abita in lui
Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore
Diana scopre il mostro e lascia Julián
Julián non disegna più e il mostro lo porta dal bambino
il bambino ha disegnato una manticora con sotto la scritta “Julián”
Julián decide di uccidere il mostro che abita in lui e vola, vola giù
Julián è paralizzato… il mostro non può più uscire
Diana torna da Julián
Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore……
Manticora è un film di Carlos Vermut
Manticora è un capolavoro


DAVIDE BANCHIERA


AFTER BLUE di Bertrand Mandico



Bertrand Mandico dopo aver diretto vari corti e videoclip , torna con un lungometraggio.
Questa volta siamo su After Blue , un misterioso pianeta sul quale vivono solo donne, che dopo essere fuggite dal pianeta terra, si ritrovano e si danno nuove regole per evitare gli stessi problemi e le stesse catastrofi accadute in passato.
Roxy ( detta Toxic) libera dalla sabbia una criminale, soprannominata Kate Bush(si proprio come la cantante!),ma quest'ultima inizia a seminare terrore sul pianeta; Roxy e sua madre vengono quindi obbligate ad andarsene dalla comunità per ricercare la criminale.
Il film è un esplosione di generi e colori, psichedelia, weird, fantascienza ed estetica anni ‘80 si incontrano e trovano un loro equilibrio, ma è soprattutto un kitsch ricercato a portarci nel mondo di Mandico (questa volta ancora più estremo ed esasperato rispetto al precedente Les Garçon Sauvages), una sorta di Fantabosco lisergico.
Mandico si diverte come un bambino, in un teatrino verde e viola , pieno di marionette con sogni freudiani.
Peli, vagine, armi con i nomi di grande marche e cavalli si mescolano in un orgia esplosiva per i nostri sensi . Molte le tematiche sfiorate o trafitte, come le paure più recondite (?), la rivalità madre-figlia(?) ,la ricerca di un'identità sessuale(?) o semplicemente la solitudine.


GIANLUCA CAFAGGI

SATOR di 
Jordan Graham



Il folk horror è sicuramente una delle sfaccettature più affascinanti ed evocative del genere horror e post The witch in poi sono stati pochi i film che, personalmente, mi hanno restituito emozioni paragonabili al capolavoro di Eggers.
Scritto, diretto e montato da Jordan Graham, Sator è sicuramente uno di questi. L'autore mescola fantasia a vicende personali del suo presente e passato e dopo ben 6 anni di post-produzione sforna un film che eccelle su più fronti
Obbligatorio soffermarsi sulla storia dietro a quest'opera.
Sceneggiatura partorita dal regista basandosi sui racconti deliranti di sua nonna e su altri disagi familiari che lo hanno colpito direttamente; il film sarà costernato di dettagli "rubati" alla vita della nonna stessa: pagine scritte, filmati, audiocassette, tutto quello che verrà mostrato sarà un mix tra materiale reale e una proiezione delle paure derivanti da esso, tanto da convincere il regista a far recitare quella sua stessa nonna, se pur affetta da demenza, filmando i suoi reali e folli monologhi.  
Ne viene fuori un film angosciante, una lenta e inesorabile discesa nell'oblio, una fotografia cupa, il buio a far da padrone con sguardi e silenzi che da soli basteranno ad alimentare un crescendo di tensione gestito alla perfezione, dove normalità e follia verranno continuamente mischiate ed il confine tra le 2 che andrà mano mano assottigliandosi.
Il vero protagonista sarà il bosco, tale che la regia più volte ci regalerà magnifici scorci del paesaggio circostante ed è su di esso che, spesso, cercheremo i dettagli per trovare quelle risposte di cui verremo continuamente privati. 
Nonostante il basso budget, Sator è un'opera matura, completa e scritta magistralmente, confermando le qualità del giovane regista dopo il suo più che ottimo film d'esordio Specter.


ENRICO GASPARI

LJUKSEMBURG, LJUKSEMBURG di 
Antonio Lukich



Il Lussemburgo, piccolo paese con tanti soldi, e l’Ucraina, grande paese (meno se mozzato dai conflitti) con pochi. Cosa lega il granducato del titolo con la patria di Antonio Lukich, il regista? Forse solo l’idea di un viaggio, il motore ideale di tante belle storie. Due fratelli, Kolya e Vasya, lo intraprendono quando arriva la notizia che il loro padre, un boss criminale scomparso anni prima, è morto a centinaia di chilometri di distanza, indovina indovina, proprio in uno dei paesi più ricchi d’Europa. Doveroso innanzitutto segnalare che questo film fa ridere, e tanto, se si apprezza quel tipo di umorismo: è una commedia nerissima, in quello stile un po’ slavo dove si perde in eleganza rispetto al classico umorismo inglese ma si guadagna in assurdità dei personaggi, stralunati, boccaloni e al limite della legalità. E altrettanto importante, almeno per me, è che per quanto nera diventi, la commedia di “Ljuksemburg, Ljuksemburg” non cade mai nella trappola di diventare amorale: i protagonisti, quando fanno delle cose terribili, vengono giustamente trattati dagli altri personaggi come degli stronzi, e anche puniti se serve. Esemplari quei venti minuti con la signora infortunata dell’autobus, esilaranti fino alle lacrime, dove parte del divertimento sta proprio vedere Kolya subire le giuste conseguenze. Abbiamo poi questa stessa dinamica tra i due fratelli (anche nella vita vera), i classici opposti che funzionano sempre, l’uno criminale di mezza tacca che ancora ama il padre, l’altro poliziotto che vorrebbe lasciarselo alle spalle; entrambi, per un motivo o per l’altro, infelici. E qui sta ciò che eleva il film da tante commedie, che magari partono bene ma si perdono con un finale troppo smielato o troppo sboccato: “Ljuksemburg, Ljuksemburg”, potevamo capirlo fin dall’inizio, è un film malinconico, di quella malinconia che fa tanta presa su di me. Ne consegue che il finale potrebbe lasciarvi un retrogusto amaro, ma sapete com’è: l’importante non è arrivare in Lussemburgo, l’importante è aver viaggiato per raggiungerlo.


FRANCO CAPPUCCIO

TRENQUE LAUQUEN di Laura Citarella


Questo film drammatico di quattro ore in due parti è l’ultima esplorazione de El Pampero Cine, il gruppo argentino con un piede nelle produzioni teatrali sperimentali e l’altro nella tradizione metafictionale latinoamericana. Sulla scia dell’epico La Flor di Mariano Llinas, la produttrice di quel film, Laura Citarella, offre una storia di mistero vagabonda, co scritta con la sua star Laura Paredes. Trenque Lauren inizia con due uomini che cercano Laura ( la quale è scomparsa in una zona isolata intorno alla città che da titolo al film. In una serie di episodi che si sovrappongono, scopriamo come Laura si sia imbarcata nella propria avventura investigativa, che coinvolge una catena storica di lettere d’amore, uno show radiofonico su Lady Godiva, gli scritti della rivoluzionaria sovietica e pioniera sessuale Alexandra Kolllontai, e un fenomeno sovrannaturale nascosto nel bagno di una casa di campagna. Un’eco femminista del ventunesimo secolo di Out 1 di Rivette, ci troviamo di fronte a un piacere contorto, impronosticabile ma sorprendentemente coerente, una guida pratica alle gioie del perdersi allo stesso modo per l’eroina e per gli spettatori.


MARCO BAGARELLA

SOFT & QUIET di Beth de Araujo



L’ho visto subito a seguire lo strombazzato ‘all stars’ di Scott Cooper. Mentre il pomposo ‘capo d’opera’ di Cooper è l’ennesimo petardo di Netflix - accendi la miccia, frizza ed inzia a fare fumo, poi scoppia e spaventa solo il gatto-, questo sconosciuto pianosequenza, girato in qualche sperduta e sonnacchiosa landa dell’immensa provincia americana (ed in quanto sperduta e sonnacchiosa, tanto infernale ed allucinante), cuoce a fuoco lento e poi porta ad ebollizione tutte le nostre bigotte ipocrisie e le nostre bestialità latenti. Girato con un gruzzolo, relativamente a quanti sghei servono oggigiorno per fare un indipendent movie, e distribuito con il contagiri, visto che si sta spandendo lentamente ma sempre più capillarmente in giro per il mondo, ammette in sé l’Haneke americano ed il Rumley europeo e può considerarsi testo di studio per una veritiera caratterizzazione del villain-vicino-di-casa.


RICCARDO SIMONCINI

FEATHERS di Omar El Zohairy



Durante la festa di compleanno del figlio, un autoritario padre famiglia viene trasformato in pollo da un mago ciarlatano (per un trucco probabilmente andato storto). Da lì l’esordio di Omar El Zohairy inizia ad affrescare di assurdità un mondo tragicomico senza nome fatto di lerciume e sporcizia, una necropoli fantasma riempita solamente di fumi infernali simil danteschi, dove sudicie banconote vengono costantemente contate comprando e scambiando tutto.
Ma di fronte a tali assurdità è impossibile farsi domande, perché prima ancora che narrative queste sono sociali. Assurda è la mancanza di diritti, di lavoro, la presenza di norme retrograde completamente ingiuste. Assurda è la condizione di quella moglie e madre (una bravissima Demyana Nassar) che prima sottomessa al marito, ora deve cercare come può di mandare avanti la famiglia, imprigionata però in un sistema sociale che non le concede alcuna libertà. Lei subisce passivamente, come l’asino di ‘Au hasard Balthazar’ di Bresson, accetta, incassa, perché quell’irrazionale deve essere preso così com’è, come nell’equivalente borghese di Lanthimos deve fare la famiglia de ‘Il Sacrificio del Cervo Sacro’ nell’accettare l’assurda punizione.
La macchina da presa incede sugli angoli fatiscenti, spesso ricoperti di guano, con inquadrature statiche che diventano sintomo di un’immobilità sociale, che non permette mai alcun riscatto, nemmeno se possiedi (e scambi) quelle unte banconote. La staticità ironica di Roy Andersson si declina qui più magica, sociale, sovra-esistenziale, ma sempre e comunque cupa e nerissima nel suscitare un sardonico riso.
L’impressione, però, è che quel pollo sia uno dei tanti animali trasformati, o meglio: ri-trasformati alla loro vera natura. Perché in fondo forse ciò che più è assurdo è definirci umani in un mondo simile. Normale invece essere polli, bovini da macello, teste di maiale. Il complementare di The Lobster insomma, dove il mondo non è semplicemente dis-umano (cioè con un’umanità deformata), ma in-umano (cioè con un’umanità del tutto assente).


STEFANO DE ROSA

WHAT JOSIAH SAW di 
Vincent Grashaw



Diretto (magistralmente) da Vincent Grashaw, il film è un viaggio lungo due ore, intensissime, negli abissi dei quattro membri (profondamente “disturbati”) di una (“anormale”) famiglia texana. La pellicola è divisa in segmenti che ci introducono ai vari personaggi (che come vedremo hanno tutti nomi biblici a sottolineare tra le varie tematiche quella a sfondo religioso, molto preponderante): la prima parte (a mio parere quella più solida insieme a quella finale) è dedicata al padre Josiah, rimasto vedovo a seguito del suicidio della moglie, interpretato da uno stellare Robert Patrick (l’indimenticabile villain T-1000 in Terminator 2), e il figlio minore (completamente “spostato” nonché succube del genitore) Tommy. I due, che vivono insieme in una fattoria fuori città, hanno un rapporto simbiotico, quasi malato, e sono vittime di inquietanti visite notturne della defunta padrona di casa. Facciamo poi la conoscenza di Eli, in libertà vigilata, che per sbarcare il lunario si prostituisce ed è anche lui perseguitato dai fantasmi del passato.
Quella più normale sembra essere (solo a prima vista!) la sorella Mary, addirittura sposata, che ha da sempre avuto paura di aver figli (fino a farsi legare le tube) ma che adesso sembra propendere per l’adozione. A riunire i quattro psicotici è un’offerta per l'acquisto della fattoria da parte di una compagnia petrolifera e il riavvicinamento funge, com'era facilmente prevedibile, da detonatore di vecchi rancori tutt'altro che sopiti e di traumi ancora ben radicati nelle menti malate dei quattro protagonisti. Il risultato è una progressiva e allucinante deriva fino al crudissimo epilogo.
Quello che colpisce di più di questo thriller/horror psicologico di Grashaw è la capacità di tenere sempre altissima la tensione (che raggiunge i massimi livelli quando entra in gioco il capofamiglia), sia tramite una messa in scena veramente convincente (che fa dei suoi punti di forza il particolare taglio delle inquadrature e l'utilizzo delle luci e delle ombre nelle scene di interni) che grazie a una sezione sonora tra le più efficaci tra i film di genere degli ultimi anni.


FRANCO CAPPUCCIO

QUEENS OF THE QING DYNASTY di 
Ashley McKenzie


“Ratsbackwards”, l’username Instagram di Star, la 18enne protagonista di Queens of the Qing Dynasty può sembrare il classico nickname da adolescente, ma tale gioco linguistico è un punto vitale della solidissima opera seconda di Ashley McKenzie. Mentre Star (Sarah Walker) si rimette in un ospedale di Cape Bretone dopo un tentativo di suicidio, fa amicizia con il suo inserviente gender fluid, An (Ziyin Zheng), un fresco immigrato dalla Cina. La loro amicizia sui generis, un piccolo miracolo in un mondo di indifferenza burocratica, è costruita sui loro botta e risposta, un ping pong continuo tra sequenze umoristiche e questioni di identità e mortalità. Mentre il sound designer Andreas Mendritzki si muove tra suoni d'ambiente diegetici e una colonna sonora convulsa che include una composizione molto d’atmosfera di Yu Su e Cecile Believe, e tracce elettroniche degli Authecre è come se i personaggi stessi stiano modulando il mix, muovendosi tra ciò che gli sta attorno e il mondo nelle loro teste. Star e An risuonano ognuno ad una frequenza che solo l’altro può sentire e McKenzie gentilmente ci permette di partecipa re all’ascolto.


MARCO BAGARELLA

HINTERLAND di Stefan Ruzowitzky



Fritz Lang, Georg Trakl, Oskar Kokoschka?... Un po' tutti e tre e nessuno dei tre, a ben vedere, ma un film che ha stupito a Locarno (proiettare un trip del genere su uno schermo enorme, moltiplica l’incanto scenografico; su medio e piccolo schermo, invece, perde qualcosa), e che ha dalla sua delle buone intuizioni, un ritmo che tiene botta e qualche frecciatina. E poi perché fare a meno di vedere un’opera che sta precisamente a metà strada tra “Sin City” ed “Il gabinetto del dottor Caligari”, quando tanta robaccia in CGI ci viene propinata senza un pizzico d’anima alitante? Superati gli ostacoli del super-calligrafismo e dell’iper-colore, si deve ammettere che il prodotto ha il suo ‘perché’; incuriosisce e diverte con inquadrature sghembe e paesaggi urbani ‘alla Herman Warm’ (lo spazio scenico diventa visione, ed interpreta le angosce, i tabù, le ambiguità più profonde dei protagonisti). Piccolo, inatteso cult dell’anno.

5 commenti:

  1. Credo che poche cosa abbiano saputo inquietarmi come il prologo di "Sator". Una roba che con pochissimo toglie il sonno e riempie di disagio.

    "What Josiah saw" invece sarà una delle prossime visione con tu sai chi :-P

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    1. Sator è l'unico che ho e rischiato di vedere in passato

      Sapevo che eri appassionato di Harry potter ma sto fidanzamento con Voldemort sta andando avanti da troppo!

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    2. Comunque visto Josiah.
      PORCO GIUDA CHE MINA DI FILM!

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    3. Me l'hanno passato oggi pomeriggio ;)

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due cose

1 puoi dire quello che vuoi, anche offendere

2 metti la spunta qui sotto su "inviami notifiche", almeno non stai a controllare ogni volta se ci sono state risposte

3 ciao