15.10.22

Recensione: "The Humans" - Su Mubi

 

Opera prima di un giovane regista teatrale - tratto dalla sua omonima piece, vincitrice di Pulitzer-  The Humans è uno di quegli esempi in cui è facilmente percepibile una scrittura "superiore", illuminata, uno di quei testi che - apparentemente parlando del "niente" - sono invece capaci di aprirti la testa, mandarti in mille direzioni diverse, farti provocare emozioni contrastanti e indirizzarti su letture che non c'entrano niente l'una con l'altra.
Senza dimenticare una regia di grande classe e raffinatezza (almeno 3 scene sono eccezionali per come sono costruite).
Un appartamento malandato in cui una famiglia sta per effettuare un trasloco.
Padre, madre, nonna, le due nipoti e il fidanzato di una delle due.
Non usciremo più da lì.
Incomprensioni, dolori, incubi, traumi, dialoghi su dialoghi.
Di cosa parla The Humans? Impossibile dirlo, ognuno lo farà suo in maniera diversa.
Quando una sceneggiatura raggiunge livelli apicali

L'altro ieri ho visto The Humans.
C'ho pensato tutta la notte (anche il pomeriggio coi miei due compagni di visione e telefonicamente con Rocco, che ce l'ha consigliato).
Sono andato a dormire con la sensazione non tanto di aver visto un grandissimo film (cosa che comunque credo sia) ma con quella di aver assistito ad una scrittura pazzesca, di quelle che mi mandano in visibilio e che, in una vita parallela, avrei tanto voluto saper fare io.
Oggi, contravvenendo al mio diktat "nessuna informazione" sono andato a vedere chi fosse l'autore della piece teatrale dalla quale il film è tratto.
E ho fatto bene perchè non solo ho scoperto che la piece è dello stesso regista (che, anzi, fa quello di mestiere, il drammaturgo) ma che questo ragazzo nel 2016 è stato in lizza per il Pulitzer (tra i 3 finalisti) e che questo testo, questo magnifico testo, ha vinto il Tony Award come miglior opera teatrale.
Molto bene, almeno qualsiasi lode sperticata posso fare alla scrittura del film so che va a finire alla stessa persona (chè a volte si esaltano film per la loro scrittura ma si dimentica o il testo di origine o lo sceneggiatore).
Ah, il nome di questo scrittore/regista è Stephen Karam, rischiavo pure di non dirlo.


Siamo a Chinatown (anche se lo scopriremo solo poi).
La prima inquadratura - lunghissima e con vaghi richiami all'incipit di Niente da Nascondere di Haneke - ci mostra il cortile interno di un complesso di palazzi.
Nessuna via d'uscita, un imbuto con mura su tutti i lati e l'inquadratura che compie continue panoramiche a 360 gradi.
Tra l'altro questo senso claustrofobico di spazi stretti, angusti e per niente gradevoli l'avremo anche con tutti gli interni successivi.
Tanto che, lo anticipo subito, possiamo tranquillamente dire che la location del film non solo è esso stesso personaggio ma anche metafora di quello che accadrà.
L'appartamento, come dicevo, è tutt'altro che gradevole.
Muffa ovunque, ruggine, vetri appannati o smerigliati (ci torneremo), un senso di vuoto, sporco e per niente ospitale.
Fa specie, in questo senso, che sia l'appartamento che una delle due figlie ha scelto per vivere e che venga quindi presentato con entusiasmo.
In una delle prime scene vediamo come, in quello strettissimo corridoio, sia quasi impossibile far ruotare la sedia a rotelle della nonna, in una scena al tempo stesso patetica, sommessamente divertente ma anche un filo disagiante.
Tubature vecchie e a vista vengono più volte inquadrate.
E, come dicevo, queste orribili finestre dalle quali non si vede praticamente niente fuori. Tutto è appannato, offuscato, e tutto serve a darci quest'atmosfera di ritrovarci in una specie di microcosmo "a parte", per cui il mondo esterno, almeno per quest'ora e mezzo di film, sembra totalmente bandito.
In famiglia si parla, tanto.
Si parla del trasloco, si fanno battutine, si presentano gli ambienti, a volte - a coppia - si parla di cose più intime come problemi personali grandi e piccoli.
E' uno script che punta tutto sul realismo, uno di quelli in cui ciò che si dice è come nella realtà, quasi tutto convenzione e futile.
Però vediamo che lui, il padre, Erik (un  - ancora una volta sontuoso - Richard Jenkins) è inquieto. Spesso si isola, sembra a disagio, osserva finestre e tubature. Non si capisce se sia in questa condizione per il luogo in cui si trova, per un suo tormento personale o magari solo perchè non sopporta questo tipo di cose (ah, si festeggia il Ringraziamento, cosa per la quale - ma non solo per questa - The Humans potrebbe richiamare quel gioiello di Krisha).
C'è poi l'anziana nonna ormai completamente immersa nel suo Alzheimer, la moglie che ride ride ride ma in realtà è quella che porta più la morte addosso, una figlia vicina alla depressione perchè è stata lasciata dalla ragazza e soffre di un grave problema intestinale (credo una specie di Morbo di Chron) e l'altra figlia col suo compagno, forse gli unici due personaggi veramente spensierati e felici (anche perchè sono entusiasti di andare a vivere là).
Il film va avanti lentamente, forse troppo lentamente, tanto che dopo mezz'ora ci si trova a sperare che accada qualcosa (non tanto a livello di azioni reali ma di dialoghi, visto che si capisce che in questo film le azioni sono quasi tutte nelle parole).
Ed ecco che a un certo punto la madre dice al padre "Quando glielo dirai? Non farlo dopo cena".
Una piccola frase che, però, come accade nelle grandi sceneggiature, basta a cambiare il film, a riprendere con sè lo spettatore che si stava annoiando e a far vivere tutto il resto del film in quest'attesa del "cosa dovrà dirgli?"
Poi lo scopriremo. Niente di sconvolgente ma comunque nel frattempo The Humans aveva cambiato faccia, e l'atmosfera diventata un perfetto di mix di dramma, inquietudine, mistero con addirittura dei possibili risvolti horror o fantascientifici (ok, questa è stata solo una mia sensazione, lasciate perdere).
Ma è inutile che vi racconti tutto quello che accade, andremmo solo ancora più lunghi.
Quindi vado diretto su tecnica e interpretazione.


E' vero, The Humans è un film "di sceneggiatura" (come quasi tutti quelli trasposti dal teatro) ma al contempo anche tecnicamente notevole.
C'è un uso eccezionale dei lentissimi carrelli (specie in avanti) in queste scene lunghissime in cui partiamo da un campo medio ed arriviamo senza nemmeno accorgersi quasi ai primi piani. Ce ne sono due della madre da infarto per quanto son belli. Questa tecnica, o almeno come è usata in The Humans, diventa emozionante perchè è come se il regista ci dicesse "tutti parlano, tutti agiscono, ma il nostro focus deve essere su quel personaggio". E così malgrado alcune scene siano corali noi ci avviciniamo sempre di più al personaggio scelto per il restringimento, come se diventassimo lui. Ripeto, almeno un paio della madre sono bellissimi.
Ma ci sono altre scene di grandissimo livello.
Penso a quando la figlia "felice" vuol far sentire al resto della famiglia un pezzo musicale che ha scritto.
Parte una colonna sonora che sembra completamente esterna al film (insomma, extradiegetica) e vediamo tutti questi personaggi zitti che si guardano. E' straniante, non capiamo perchè non si parlino. Poi la musica finisce e capiamo che era proprio il pezzo scritto dalla figlia. Un vero capolavoro di sequenza.
O ancora una delle scene più emozionanti, quella dello "spaccamaiale"
Un piano sequenza "nascosto" di una morbidezza unica. Per quasi 10 minuti la macchina da presa si muove lenta intorno al tavolo, senza mai staccare. Questo movimento, unito a quello che i personaggi dicono, ci porta ad una vera e propria immersione, molto emozionante. 
Ma quasi ogni inquadratura, anche aiutata dalla location, è riuscita, specie quelle in quei lunghissimi e strettissimi corridoi, che sia quello in casa, quello che porta alla caldaia o quello all'esterno.
Ma il capolavoro tecnico di The Humans, la scena che ricorderò a vita, è un'altra, ci tornerò.
Ok, ma di cosa parla il film?
E' impossibile dirlo.
E' qui la sua magia.
Noi abbiamo parlato per un'ora (anche durante il film) e tirato fuori duemila cose. In uno script che all'apparenza si mostra scarno e quasi banale poi.
Sono queste le scritture superiori, quelle che sembrano semplici e invece ti fanno esplodere cose dentro.
Abbiamo pensato al film metafora, all'horror, al fantascienza (ad un certo punto ho avuto una suggestione riguardo gli alieni..), ad una ghost story.
E invece, forse, la soluzione di tutto è che, in realtà, tutte queste suggestioni che il film ti dà sono solo suggestioni.
Perchè niente di quello che accade è paranormale, niente non è ancorato alla realtà, niente ha chissà quale valenza metaforica.
Ma, semplicemente, abbiamo visto 6 esseri umani vivere un pezzo della loro vita, tutto quello che i loro discorsi, comportamenti e location ci hanno suggerito è solo una nostra suggestione.
Ad esempio nel film vengono raccontati tantissimi sogni e la soluzione "onirica" è senz'altro una delle più affascinanti.
Ad esempio, il film potrebbe essere l'incubo di alcuni mostri?
Perchè, come noi sogniamo mostri, i mostri - esseri orrorifici con denti nelle schiene - potrebbero sognare noi (è un racconto presente nel film)
E la storia della donna senza volto?
Prende così tanto lo spettatore che io, come nel sogno del senzatetto di Mulholland Drive (una delle scene più terrorizzanti della mia vita), ero sicuro che da un momento all'altro questa donna sarebbe apparsa.
La nonna sparisce, ci sono rumori sempre più strani, Erik è sempre più inquieto.
E The Humans diventa così un mezzo capolavoro perchè potrebbe succedere TUTTO, nessuno scenario è escluso.


Ma ci sono due "storie" importantissime che forse ci aiutano a leggerlo meglio.
Una è il segreto di Erik, quello che svelerà solo alla fine, ovvero di aver tradito la moglie (e madre delle due ragazze).
Quella donna che ha cominciato il film ridendo per qualsiasi cosa ma che in realtà era lì con la morte nel cuore, sapendo che da un momento all'altro avrebbe dovuto raccontare il suo dolore e la sua umiliazione.
Ecco che allora tutta l'inquietudine di Erik potrebbe esser letta come l'angoscia sia di quello che ha fatto sia del doverlo raccontare ai figli. E quella donna senza volto che sogna magari a questo è legata, alla donna con cui ha tradito o alla moglie che è stata tradita.
Erik si sente angosciato, non riesce a vedere fuori (una condizione quindi di tale disagio per cui tutto è terrorizzante, invisibile, insidioso, non a fuoco), e il fermarsi a guardare elementi insignificanti della casa è un modo per "fermarsi" e tornare in sè.
Ma in questo film, e il modo in cui viene nascosto ma solo accennato è straordinario, c'è anche l'11 settembre.
Si capisce che quel giorno Erik e la figlia più grande fossero lì.
Forse lei addirittura nella torre (si parla di un 37imo piano, ma non si specifica di quale edificio).
E lui probabilmente si è salvato solo per una casualità (il Ponte di Osservazione che apriva solo alle 9.30).
Non è un caso - sempre che ricordi bene - che nel gioco dello spaccamaiale, per cui si deve dire ciò per cui si è grati al mondo - la figlia dica "Sono grata che il ponte di osservazione aprisse solo alle 9.30".
Ma è solo nel finale - e qui bisogna stare veramente attenti - che l'11 settembre viene fuori nella maniera più suggestiva.
Ed è nell'ultimo incubo di Erik che parla di un pompiere che tiene in braccio la figlia che ha il volto completamente coperto da polvere.
Lo racconta proprio a lei e lei, forse per dolore e perchè vuole dimenticare, lo blocca ed esce.
Ma, ecco, questa sensazione di essere sopravvissuti, di esser potuti morire, questo trauma, attraversa spesso il film.
Ed ecco che non possiamo non introdurre un altro elemento importantissimo di The Humans, la morte.
Erik, nella prima parte del film, fa un discorso su come tutto alla fine svanisca, su come poi non resterà niente di noi.
E ricordiamo anche la mail della moglie (altra cosa nascostissima ma da recuperare), quella che parla di elettroni e di corpi svanenti.
Alla fine, in una mezza battuta velocissima, la stessa donna dirà alla figlia che quella mail non era religiosa ma scientifica.
E come non ricollegare questo al discorso del marito.
Quindi The Humans potrebbe raccontare anche questo, ovvero delle nostre misere e povere esistenze che alla fine sono solo un granello di sabbia che scomparirà.
Scientificamente.
Niente anima, niente di niente, siamo materia e che alla fine si disfa.


E non è un caso - forse - che nell'infartuante finale (per quanto è bello) l'ultima fonte di luce, quella porta in fondo, si chiuda e ci lasci nel buio totale, come se il film avesse raccontato un'esistenza che finisce appunto nel buio, nello svanire.
Del resto si stavano spegnendo tutte le luci, sempre una in più.
Prima quella di sopra, poi quella delle scale, poi quella di sotto, poi tutte.
Metafora esistenziale, di tutti noi?
Metafora da collegare solo ad Erik e al suo tormento?
O, semplicemente, si sono solo spente le luci di una casa ancora da mettere a posto.
Come la donna inquietante senza volto che immagina di vedere Erik alla fine era solo una signora cinese che spostava un carrello, come i rumori terrificanti erano solo una caldaia (tra l'altro ci sono 5 minuti che tra montaggio e colonna sonora pisciano in testa a tanti horror).
Tutto, se vogliamo, il metaforico e l'inspiegabile è....spiegabile nel modo più semplice.
Ovvero niente, non c'è niente di strano, è una brutta casa con tubature vecchie, con caldaie rumorose, con vicini strambi, con finestre sporche, con 6 persone dentro che, come tutte le persone, sono felici, alcune tristi, alcune depresse, altre inquiete.
E si scherza, e c'è tensione, e c'è imbarazzo, e c'è voglia di raccontare i propri dolori, e c'è voglia di condividerli e sentire il calore.
Ed ecco che allora, come dicevo, mi sono scervellato un giorno intero e alla fine quello che mi resta è la cosa più semplice.
The Humans parla solo di noi, come suggerisce il titolo, e nemmeno in maniera troppo esistenziale.
Parla di sei esseri umani che vivono due ore insieme in quella casa.
E succedono cose normali.
Ma con la scrittura, con le location, con la colonna sonora, con i dettagli, tutto diventa potenzialmente tutto.
Ma arriviamo al finale, una scena maestosa.
L'ennesimo carrello lento, stavolta indietro.
Andiamo talmente indietro che l'inquadratura sembra irreale.
Quella stanza era piccola, impossibile essere andati così indietro e vedere Erik così piccolo.
Ma ecco che si mostra a noi tutta la location, come fosse una quinta teatrale (e, in effetti, così è nella trasposizione teatrale).
Il piano di sopra, i corridoi, le scale, il piano di sotto.
Tutto sempre più buio.
Sembra una casa di bambole.
Sembra qualcuno che osserva noi, piccoli esseri umani che in 4 strettissime mura, in due ore, abbiamo mostrato quanto siamo deboli, impauriti, terrorizzati, angosciati, tristi, soli, pieni di traumi, pieni di speranza, pieni di disillusioni.
Magari ci sta osservando un mostro gigante con i denti nella schiena.
Anche Erik esce da quella casa, tutto è buio.
Tutto svanisce.
Non resta niente.
Nemmeno un fuoco finto proiettato nel muro

8

4 commenti:

  1. Ciao Caden
    Assai contenta, ci tenevo ad un tuo parere.
    In tutto quel parlare, tutto appunto così umano, alla fine i due personaggi che più mi han colpito l'appartamento, che come un guscio contiene tutti i malesseri e come una pelle ne restituisce i segni, appartamento assurdo ed invivibile per questo perfetto per la messa in scena. E poi la sileziosa presenza della nonna Momo a parte un solo scritto " ballate più di me, bevete meno di me e andate in chiesa". Forte Momo che ha cercato invano pure di fuggire.
    Già la lettura della tua recez muove altre suggestioni, sarebbe da rivedere, anche per i dialoghi, perché qualcosa mi è sfuggito nel mio perdermi nei dettagli.
    Grazie sempre.
    Francesca

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    1. Che bella considerazione...
      Anche io ho considerato l'appartamento un personaggio a tutto tondo ma tu hai descritto molto bene la sua funzione e, forse, metafora

      Ed è vero, ho parlato troppo poco di quella nonna che è un personaggio che sembra laterale ma assolutamente principale, anzi, catalizzatore di tante cose direi. In qualche modo o nei discorsi o perchè spazialmente ce lo vediamo lì dietro è sempre dentro a tutto

      ahah, grazie, ma ammetto di averlo visto molto attento e con compagni di visione stimolanti

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  2. Ri ciao Caden
    Visto che sei su Mubi per questo mese ;) magari recuperi "Tutti i Vermeer a New York" (1990) di Jon Jost. Film che avevo nella lista dei recuperi da un sacco di tempo, mi era sfuggito ad una rassegna dedicata a questo regista, grazie a mubi ci son riuscita. Sarà difficile lo sò ma tentar non nuoce, sarei curiosa del tuo parere. Film dal budget bassissimo, attori ed atmosfera.
    Francesca

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    1. Eh, il mio amico che ha Mubi già me ne ha segnalati altri 20!

      vediamo che succede, 21, ahah

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