24.2.15

"Elogio della ricerca personale" - Scritti da Voi - 29 - di Gianluca Memoli

Tra Fabi, De Andrè e Almost Famous un invito al non accontentarsi, al ricercare sempre qualcosa di nuovo e al seguire le proprie inclinazioni e passioni, anche a scapito di tutto il resto.
Al guardare oltre.
Di Gianluca Memoli



Elogio della ricerca personale

Raro è trovare una cosa speciale
nelle vetrine di una strada centrale
Per ogni cosa c’è un posto
ma quello della meraviglia
è solo un po’ più nascosto
Il tesoro è alla fine dell’arcobaleno
che trovarlo vicino nel proprio letto
piace molto di meno

Questo elogio del non accontentarsi, del non ‘sedersi’, dell’approfondire e dell’approfondirsi, del ricercare, appartiene al cantautore Niccolò Fabi; in particolare, ad una sua canzone del 2003, “Il negozio di antiquariato”.
Sono passati dodici anni dalla sua pubblicazione e, se considerassi la velocità di fondo a cui procediamo, certamente dovrei classificarla come vecchia; di quelle canzoni, insomma, che le radio non passano più. Ma, liberandomi dalla logica attuale per cui il ‘Nuovo’ deve coincidere necessariamente col ‘recente’, credo che questo pezzo continui a ricordare, ancora oggi, una destabilizzante novità: la ricerca personale, in ogni sua declinazione.

E credo lo ricordi innanzitutto con la sua esistenza: il solo fatto di essere stata composta, una canzone del genere, è già un tributo, appunto, alla ricerca (in questo caso, artistica). Un segno evidente del suo essere in circolo.
La profondità del pensiero[1], lo stupore e la veridicità delle immagini, l’efficacia dell’allegoria dei primi due ritornelli e della variazione finale, e poi ancora la raffinatezza dei suoni e la delicatezza della voce, restituiscono la portata del suo autore (di uno, cioè, che quando afferma di “dannarsi per un aggettivo e per un colpo di rullante[2], puoi star certo che dice la verità). La cui scoperta, la cui conoscenza non possono che essere il risultato di una ricerca personale (declinata in campo musicale) particolarmente attenta.
Niccolò Fabi, infatti, rappresenta uno spiacevole caso di nicchia nella nicchia.
Fabrizio De Andrè, ad esempio, è certamente un artista d’élite; ma negli ambienti colti il suo nome, in un modo o nell’altro, vien fuori sempre. Negli ultimi anni, anzi, sento ripetere spesso che “De Andrè andrebbe insegnato a scuola” (e si sa: una volta entrato nell’ambiente scolastico, significa di solito che un autore è stato in parte canonizzato[3]).
Niccolò Fabi, invece, è di nicchia non solo fra la massa, ma anche negli ambienti genericamente elitari. Il cantautore romano, insomma, “non è di tanti né pochi, ma solo di alcuni[4].
Ora, non sto paragonando Fabi a De Andrè – sia perché il mio non è un discorso di critica musicale, sia perché credo che, da un certo livello in poi, non si debba più parlare di maggiore o minore grandezza, ma più correttamente di grandezza diversa -, sto più propriamente affermando che la sottovalutazione di Niccolò è davvero limitante per il progresso della contemporaneità italiana: perché la sua sensibilità, la sua acutezza[5], la sua spietatezza[6], sono rare e sacre[7]. Motivo per cui sarei felice se una diffusa ricerca personale – orientata nella sua direzione – portasse, un giorno lontano, a sentir dire che “Anche Niccolò Fabi andrebbe insegnato a scuola”.
La ricerca, quindi, sintesi di curiosità, volontà, pazienza e confronto, è una pratica feconda: ti restituisce in termini di qualità ciò che le hai dedicato in termini di tempo e di energie. E questa può ancora rappresentare una certa idea di Nuovo nella misura in cui, oggi, vince la tendenza a fruire facilmente, piuttosto che ad approfondire faticosamente, a lasciarsi scegliere, piuttosto che a scegliere.
Potrei pensare, ad esempio, con sprezzo snobistico, che gran parte del cinema americano sia ciarpame. Ma sì: la vecchia regola delle tre esse – sesso, sangue e soldi – e il film è pronto. Potrei, cioè, lasciarmi scegliere da quella massiccia distribuzione cinematografica che, onnipervasiva, praticamente impone la visione di prodotti, di solito banali, nati per fare grandi incassi (“Un film di Hollywood oggi arriva a costare tranquillamente 150 milioni di dollari […]: essendo in gioco cifre di questo genere conta la pianificazione, il lancio, soprattutto la ricerca a priori di un pubblico.[8]). Sarebbe come se un americano si lasciasse convincere che, qui in Italia, si realizzano solo fiction con attori-cani e film tipo Natale qualcosa.
Oppure, ancora, potrei lasciarmi scegliere dall’inesorabile trascorrere del tempo: che porta, inevitabilmente, tutti i film a datarsi e quasi a scomparire dai media di massa.
Una paziente ricerca personale, al contrario, mi ha fruttato la scoperta di pellicole americane, sì, ma meravigliose (o, per lo meno, che io considero tali secondo certi parametri). E poco importa se per trovarne una del genere, ho dovuto vederne quattro o cinque ‘medie’ (sempre secondo quei parametri): perché una volta scovate, certe pellicole, mi sono parse delle folgorazioni. Rendermi conto che un film americano, realizzato appunto a migliaia di chilometri dalla mia città e spesso decine di anni prima del mio presente, abbia descritto con precisione un’idea particolare a cui tenevo profondamente e che coltivavo io, nel mio tempo, nella mia realtà così distante da quella terra, mi sembra, ogni volta di più, una manifestazione della verità. E questo difficilmente accade con i film mainstream: perché, dovendo soddisfare il maggior numero possibile di spettatori, non possono sperimentare, non possono azzardare, non possono curiosare; quindi si accontentano di raccontare la superficialità, la banalità, la mediocrità (spacciandole demagogicamente per semplicità).
Fra i vari film che credo andrebbero rivisitati e che vorrei condividere, scelgo “Almost famous” di Cameron Crowe (anno d’uscita: 2000). Per due motivi: sia perché ‘celebra l’amore per la musica[9], sia perché, in una sequenza, esprime il modo in cui questo concetto della ricerca personale, dello stimolo a migliorarsi, andrebbe presentato.
Siamo nel 1973 e William Miller, quindicenne con la passione per il giornalismo musicale, incontra Lester Bangs, considerato il critico-rock più influente del momento. I due si parlano, Lester si complimenta con William per degli articoli che gli ha spedito, ma poi lo ammonisce sulla figura del giornalista-rock: “Una volta che andrai a Los Angeles avrai una barca di amici, ma saranno tutti falsi amici: cercheranno tutti di corromperti; con quel tuo faccino onesto quelli lì ti diranno qualsiasi cosa, ma non si può diventare amici delle rockstar…guarda che sarà una brutta storia: ti offriranno da bere, incontrerai delle ragazze, volerai gratis con loro da un posto all’altro, ti offriranno la droga: lo so che sembra una svolta, ma non saranno mai tuoi amici, cioè quelli vogliono che tu ti segni dei santini sul grande genio delle rockstar, ma in realtà rovineranno il rock’n’roll e soffocheranno tutto quello che amiamo del rock…e poi diventerà solo l’industria del più fico. Cioè, davvero, ti giuro: sei arrivato in un momento pericoloso per il rock’n’roll”.
Lester comunque commissiona un articolo al ragazzino; da cosa nasce cosa, e la prestigiosa rivista “Rolling Stones” ingaggia William per seguire una band in tournèe. E qui, pian piano, le previsioni di Lester iniziano ad avverarsi. Il rock, insomma, sembra effettivamente aver perso l’autenticità delle origini.
William ha solo quindici anni e sua madre, assillandolo di telefonate durante la tournèe, capisce che l’ambiente ‘allegro’ che sta frequentando suo figlio non è genuino (sesso, droga e rock’n’roll, insomma, non fanno per lui). Un giorno, durante una telefonata, la mamma riesce a parlare con Russell, uno dei componenti del gruppo. Uno di quelli che stanno deviando il piccolo William. Russell, con voce spocchiosa e canzonatoria, le dice che ormai suo figlio è schiavo del gruppo e che non può farci niente; e lei, decisa, gli risponde: “Stammi a sentire giovanotto: guarda che con me non attacca, ti ho già capito. Lo so, è chiaro che ti piace William: lui stravede per voi e la cosa vi sta bene finché vi aiuta ad arricchire. E’ un ragazzo di cuore e dotato, ha quindici anni e ha un potenziale infinito. Non stai parlando con la solita mammina in grembiule: conosco a memoria il vostro decadentismo: non dovevo lasciarlo venire, non è pronto per il vostro mondo di valori compromessi e spreco di cellule cerebrali che voi gettate via…se annienti la sua vitalità, se lo ferisci in qualsiasi modo, conoscerai dal vivo la voce che ti sta parlando, e non sarà un’esperienza piacevole. Non volevo fare questa parte, ma la reciterò.”; poi cambia tono, la sua voce diventa pacata e sinceramente premurosa: “Ora fai del tuo meglio, sii audace e la potenza correrà in tuo aiuto: l’ha detto Goethe; non è tardi: puoi ancora diventare una persona di un certo spessore, Russell.”.
Dall’altra parte della cornetta, il musicista riesce solo ad annuire. E’ ammutolito. In un paio di frasi, le ultime, questa signora, questa mamma di famiglia – che pare essere l’ultima persona a cui Russell, carismatica rockstar in ascesa, darebbe ascolto – è riuscita a smontargli il suo mondo adrenalinico ma vuoto (fatto solo di donne e di urla adoranti delle platee), per ricordargli di guardare oltre quegli abbagli, di non auto-limitarsi, di rischiare. E, soprattutto, riesce a farlo senza ricatti, economici o morali, né costrizioni: bensì, maternamente, esortando il ragazzo alla ricerca di gesti importanti in sé (quel ‘Puoi ancora diventare una persona di un certo spessore’ è micidiale), al di là del riconoscimento altrui, al di là dell’ammaliante applauso del mondo.
E, nella scena successiva del film, un Russell stralunato che confessa a William: “Tua madre mi ha spiazzato di brutto”, pare aver recepito il consiglio.
La ricerca personale, ovviamente, richiede un minimo di sacrificio. In sintesi, riprendendo l’allegoria della canzone di Niccolò Fabi, ‘non si può entrare in un negozio e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo’. Ed è pensando a quest’idea che ho ritrovato, non solo perdonata, ma del tutto riscattata, una persona a cui tengo molto. Qualche tempo fa, infatti, mi ha spiegato che deve il suo ritardo negli studi universitari, il suo ‘minimo di sacrificio’ appunto, alla ricerca personale. In particolare, a quella in campo musicale. Lei investe tempo ed energie nella scoperta e nell’ascolto di cantanti e di gruppi musicali giovani ed innovativi (oltre che nell’ascolto e nell’approfondimento di quelli più maturi e più noti). E per spiegarmi questo concetto, per sintetizzare in un termine tutti i benefici esistenziali che trae da questa sua passione, ha detto: “E’ alla ricerca della Bellezza che io devo il mio ritardo”.
Ecco: l’ho ritrovata riscattata, questa persona, perché è riuscita a nominare – cioè a concretizzare – una categoria, quella della Bellezza, conosciuta (magari anche solo nominalmente) soprattutto da chi ha a che fare con l’arte; e non da chi, come lei, professionalmente si occupa di tutt’altro. E tutta la veridicità di questo discorso – cioè tutta la potenza di una spontanea curiosità – la ritrovo intatta ogni volta che, parlando con i miei amici della facoltà di Lettere, mi accorgo che molti di loro questo concetto non lo conoscono proprio (l’ultima volta, ad esempio, un ragazzo pensava che, mentre elogiavo la Bellezza, io mi stessi riferendo alla bellezza estetica standardizzata e mi ha risposto: “Ma guarda che invece quel tipo di bellezza andrebbe eliminato”). Il che, da un lato, è grave per gli studenti di Lettere, dato che gran parte degli scrittori è ossessionata proprio dalla ricerca della Bellezza; ma, dall’altro, è gratificante, è appunto riscattante, per la persona di prima perché le dà – oltre al piacere in sé della scoperta – la soddisfazione di aver individuato da sola una categoria, un concetto, che altri conoscono (o dovrebbero conoscere) tramite studi specifici.
Insomma, la ricerca è, davvero e sempre, meritocratica.
E questo, in un paese come il nostro – invecchiato con e da nepotismi e favoritismi -, è Nuovissimo.


Ascolta ‘Tommy’ con una candela accesa
e vedrai davanti a te il […] futuro
Il negozio di antiquariato” – Niccolò Fabi (http://www.youtube.com/watch?v=r5yRXiIX8IA)


[1] Mi riferisco, ovviamente, al testo intero.
[3] Parlo del canone letterario, o più genericamente culturale, creato, appunto, dalle istituzioni educative, oltre che dai critici, dal pubblico, dalla politica culturale dei governi e delle case editrici; “in esso – citando il critico Luperini – si esprimono la soggettività della ricezione storica, il gusto, la cultura di una società, che sceglie i propri classici e la propria tradizione”.
[4] La citazione è tratta da un altro brano dello stesso Fabi: “E’ non è”.
[5] Penso, per esempio, alla critica di certo vittimismo amoroso racchiusa in questo stralcio: “Camminare nella pioggia ti fa sentire più importante, perché stare male è più nobile per te…ricordati che c’è differenza tra l’amore e il pianto” (dalla canzone “Lasciarsi un giorno a Roma”).
[6] Un concetto per tutti: “Una donna per sempre esalta l’amore, ma è un lusso e mortifica i sensi” (dal brano “Oriente”).
[7] Mi riferisco, in generale, alla sua discografia; in particolare, a canzoni personalmente necessarie come “Senza rabbia”, “Lasciarsi un giorno a Roma”, “Il mio stato”, “Sembravi”, “Scherzo”, “Lunedì”, “E’ non è”, “Mimosa”, “Offeso”, “Essere speciale”, “Senza prudenza”, “Quello che volevo”, “Costruire”, “Evaporare”, “Rapporti”, “Solo un uomo”, “La promessa”, “Parole che fanno bene”.
[8] Geoffrey Gilmore (dal 2009 a capo della Tribeca Enterprise, organizzatrice del Tribeca Film Festival: “un luogo ideale – a detta dello stesso Gilmore – per la scoperta dei film dei giovani”)

[9] A detta delle stesso regista.

5 commenti:

  1. Cercare la bellezza è una cosa pericolosa. Le parole arrivano prima, e circoscrivono qualcosa che non ha confini precisi; l'equivocità del linguaggio.. Si rischia di dare una definizione, e poi cercare qualcosa che le si adatti.
    È una cosa prettamente personale che obbliga a farsi il culo e mettersi in gioco? Vero.
    Ti farà del bene? Uff, difficile rispondere, potrebbe finire per renderti più cinico o semplicemente meno disposto a scendere a compromessi. Potrebbe renderti meno aperto a ciò che ce la mette tutta, ma non raggiunge quello che vorrebbe. Potrebbe farti diventare uno che cerca apostoli, che vuole che anche gli altri riconoscano quello che ha trovato. (Non "conoscano", ma "Riconoscano") Potrebbe renderti ostile a chi non vede quello che per te è così importante, e lo svilisce, magari involontariamente, con paragoni campati in aria, o indifferenza e noncuranza.
    Sforzarsi di apprezzare qualcosa perchè ci sembra la cosa giusta non è mai una buona strada, sforzarsi di migliorarsi per poter arrivare a capire se la si apprezza realmente o meno, è una strada migliore; ma certamente non sarà facile distinguere le due cose.
    Potrebbe anche non valer la pena dell'impegno che ti richiede. (Spesso a causa tua, non sua)
    L'umiltà di rendersi conto di non poter essere in grado di capire la bellezza in alcune sue forme, la fermezza e coscienza di non farsi infinocchiare da ogni sparata in suo nome. Con la coscienza che non esistono solo le due opzioni che ho appena detto, che ci si può benissimo sbagliare, ma, in buona fede, sarà così importante? La consapevolezza che a volte la bellezza sarà menzogna e verità al tempo stesso, senza diventare un controsenso.

    Rendersi conto soprattutto che non ti renderà migliore.
    Non puoi usarla per costruire quello che vorresti essere, al massimo per scoprirlo.

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    1. Che commento Edo...
      Christopher McCandless prima di morire scrisse un appunto in uno dei libri che aveva dentro il camper:
      "Happiness only real when shared"
      "La felicità è autentica solo se condivisa"

      Ci sarebbe da discutere tanto su questa frase, che un pò cozza anche con tutti i suoi ultimi anni di vita, sa quasi di fallimento e presa di coscienza di un percorso che forse aveva sbagliato.
      Ma, a parte questo, leggendoti è come se avessi percepito:

      "Beauty only real when shared"

      e, insomma, tu hai ragione, ma spero non sia così

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    2. Però Edo...che commentone. Ho dovuto rileggerlo due o tre volte per esser certo di averlo compreso.
      Bellissima la precisazione: <>.

      Però su una cosa posso risponderti con relativa certezza, e cioè il discorso del linguaggio: nel senso che, almeno nel mio caso, prima arriva qualcosa di bello e solo dopo lo definisco. Quando, cioè, io 'sento' qualcosa di così intensamente ed estremamente meraviglioso, che quasi non c'è modo di definirlo precisamente (a meno che non ci si accontenti di svilirlo) , ecco, allora - e non capita spesso - parlo di Bellezza.

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    3. Gianluca- Questa risposta su cosa trovi prima mi fa piacere, pure io ci provo. :)

      Caden- "Beauty is only real when shared" è il rischio in cui si cade, non l'obiettivo.
      (senza negare assolutamente il piacere della condivisione neh!)

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    4. Sì sì, ti eri spiegato perfettamente ;)
      Io meno

      Ma insomma, volevo dire, speriamo che non sia così, che non ci sia bisogno di conferme e adepti anche in questo.
      Altrimenti davvero, il mondo e facebook non avrebbero più differenze

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due cose

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3 ciao