24.6.18

Recensione: "Happy End"

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L'ennesimo grande film di Haneke è quasi un compendio di tutta la sua filmografia precedente.
Haneke mette infatti dentro due personaggi praticamente identici ad uno del suo primo film, Il Settimo Continente, e ad uno del suo ultimo, Amour.
Ma non c'è solo questo, ci sono tutte le tematiche care al grandissimo regista austriaco (la morte, la cattiveria, gli inferni famigliari, la lotta di classe) ma in una chiave moderna, con inserimenti di sequenze da smatphone, chat di Fb e video di You Tube.
Film che non convince moltissimo in alcune vicende laterali ma che ci regala almeno due personaggi, , la bimba e il nonno, che difficilmente dimenticheremo

nel finale presenti spoiler



Vado a vedere Happy End all'arena estiva di Perugia con due amici.
Il Genio, che ovviamente sarei io, dice:
"Hey, andiamo in fondo, oltre le sedie, sull'anfiteatro, io li vedo sempre da lì. Si vedono benissimo lo stesso ma almeno siamo tranquilli e isolati".
Accettano.
Appena comincia Happy End partono le prime bestemmie.
C'è un'immagine da smartphone con scritte piccolissime, si leggono a malapena.
Alessandro non le legge proprio, io abbastanza (e gliele comunico live), Giordano le leggerebbe bene ma è troppo intento a guardare sullo smartphone il finale della disfatta dell'Argentina con la Croazia.
Dopo una ventina di minuti nel film c'è una mail.
Ma mica 30 secondi eh, minuti.
Qui alziamo tutti e 3 bandiera bianca, non si legge letteralmente un cazzo.
La mia idea di andare in fondo, oltre l'infinito, si rivela azzeccatissima.
Come se non bastasse dopo altri 10 minuti c'è una conversazione in chat su fb (dico nel film eh, non di Giordano).
Appena comincia ci mettiamo a ridere, se nella mail non si leggeva un cazzo qui ancor meno. E, anche questa, dura minuti interminabili.
Insomma, 3 scene, almeno 10 minuti, e noi non si è letto nulla (chè, ovviamente, erano scene di sola scrittura e nessun audio).
Per fortuna c'è la fine del primo tempo, e riusciamo a spostarci davanti, dove sta la gente normale e non cogliona come me.
Solo che nel secondo tempo di questi giochini di Haneke ce ne sarà solo uno, e molto breve (Alessandro non vede manco questo mi pare, io consiglio visita oculistica subito).
Finiamo di vedere il film, piaciuto a tutti, convinti che "vabbeh dai, tanto quelle 3 parti non cambiano nulla si intuiscono".
NO, STOCAZZO
Stamattina, a 3 giorni di distanza, riesco a rivederle in streaming.
E niente, quelle 3 parti -la ripresa con lo smart, la mail e la chat- non solo erano parti importantissime ma, in qualche senso, cambiano tutto il film e, se le avessimo colte, avrebbero cambiato anche la nostra visione durante il film (migliorandola).
Invito quindi i miei due amici a vederle.
Insomma, scrivo questa recensione già a troppa distanza dal film, in più unisco la mia visione al grande schermo (con relative idee di quella sera) alle cose scoperte stamattina e, per farla breve, credo verrà fuori un pasticciaccio brutto.

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Happy End è l'ennesimo grande film di uno dei massimi registi del nostro tempo, Haneke.
La sua filmografia è talmente grande che un film come questo, bellissimo, rischia di essere un suo minore.
Quello che più mi è piaciuto di questo film è vedere riferimenti a tutta l'opera precedente del maestro austriaco -quasi da farne un compendio- e, al tempo stesso, vedere come questo "vecchio" regista abbia voluto fare un film quasi 2.0, con le sopracitate sequenze girate a modalità smart (cioè, non solo girate con lo smart, ma con la stessa visualizzazione, stretta e verticale), il video di YouTube e l'uso delle chat su fb.
Insomma, anche lui, il re della povertà, di mezzi e di scrittura, gira un film perfettamente calato nella nostra era tecnologica.
Sì, ma è sempre Haneke eh e, anzi, proprio queste sequenze, smart e chat, saranno tra le più "gelide" e forti di tutto il film.
Guadiamo il magnifico prologo (magnifico lo dico oggi dopo averlo rivisto).
Qualcuno riprende una donna col telefonino.
Un secondo prima che quella donna compia qualsiasi minimo gesto (è in bagno e sta per andare a letto) questo qualcuno anticipa lo stesso gesto di pochi secondi scrivendolo in una chat live (credo che la ripresa che sta facendo la stia vedendo live un gruppo di persone ma, non avendo uno smart, non ne sono sicuro).
Come a dire, guardate, è uno zombie, fa sempre le stesse cose.
La seconda inquadratura ci mostra lo stesso smart riprendere un criceto. E qui arriva l'hanekianata. Questa persona, che nella scena successiva capiamo essere la figlia della donna del bagno, ha avvelenato il criceto, così, per fare una prova e vedere se la cosa funziona.
La mente ci va ai pesci de Il Settimo Continente o all'uccellino de Il Nastro Bianco.
Terza scena la bimba si lamenta della madre, di quanto sia assente, di come abbia causato la fuga del padre. E, niente, ad un certo punto scrive sullo smart "forse è meglio che chiami un'autoambulanza".
La bimba ha presumibilmente avvelenato la madre dopo aver usato come cavia il criceto.
Haneke, puro Haneke.
Poi appare il titolo del film, beffardo, Happy End. E ricordiamoci questo termine, "beffardo".

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Vedete, io sono assolutamente convinto che questo sia un film sulla morte, prima di ogni altra cosa.
Ma è anche un film dove Haneke riprende tantissimi temi già trattati in precedenza e, anzi, con una sorta di cortocircuito che io ho trovato eccezionale, ripropone almeno due suoi vecchi personaggi.
Uno è l'indimenticabile bambina de Il Settimo Continente, così simile per viso, età e disillusione di vita alla magnifica piccola protagonista di Happy End.
L'altro è il vecchio di Amour, e qua la citazione ad un certo punto si fa talmente esplicita che ho avuto quasi un brivido.
Non solo, infatti, i due personaggi del vecchio sono interpretati dallo stesso attore (il grandissimo Trintignant) ma, ad un certo punto, nella scena forse più bella del film -ci torneremo- quel vecchio racconta di come, svuotato dalla malattia della moglie- decise di ucciderla, soffocandola.
Un crossover da brividi.
Come faccio di solito, prima di tessere le lodi del film parlo, quando ci sono, delle cose che meno mi hanno convinto.
In questo film ho avuto la conferma che Haneke dia il meglio di sè dentro 4 mura domestiche, pochi personaggi, poche cose.
Nessuno meglio di lui racconta certi inferni famigliari. E sempre parlando ci "interni" pochi come lui raccontano quello che c'è dentro di noi, le nostre angosce, le nostre paure, le nostre cattiverie, represse e non.
Quando Haneke allarga lo sguardo è sempre un gran bel vedere, ma è meno incisivo.
In questo film, ad esempio, tutta la faccenda tra la Huppert e Toby Jones, i loro inciuci personali e "societari" sono, a mio avviso, la parte più debole del film, quella più superflua. E anche il personaggio del figlio scapestrato e ribelle non sembra poi alla fine così centrato.
Vedete, immaginate di togliere tutte queste cose ad Happy End, la sua anima (perfettamente hanekiana) rimane.
Ora invece immaginate di togliere, ad esempio, tutte le scene della bimba, il prologo, le sequenze col padre, quelle col nonno, quelle da sola.
Il film scomparirà.
E, o.k, a volte questi personaggi laterali portano Happy End in una dimensione più politica (sia quello di Jones che del figlio) ma mancano di potenza, sono tematiche messe in più ma sensibilmente meno forti di quelle strettamente umane e filosofiche.
Prendete la scena del figlio che porta i clandestini alla cena di gala. O.k. siamo a Calais, terra di imbarchi e quel contrasto tra immigrati e benestanti non è male. Sì, ma diciamocelo, non è niente di che.
E proprio in questa tematica posso farvi capire meglio il mio pensiero.
E' più potente questa scena o quella del morso del cane?
Quella in cui la ricca famiglia fa finta di nulla per non avere problemi e il loro servitore, suo malgrado, fa lo zerbino?
Due scene con messaggio simile ma una, quella racchiusa e dal messaggio "nascosto", è riuscitissima, l'altra, palese e pacchiana, molto meno.
Tra l'altro la scena del morso del cane, quella dell'operaio caduto nella frana (quella frana vista in telecamera a circuito chiuso è bellissima, quasi una metafora delle inaspettate e piccole violenze hanekiane) e pure altre ci rimandano molto a Cachè, dove il tema della lotta di classe e del razzismo latente erano evidentissimi.
Ma, ve l'ho detto, dentro Happy End c'è tanta filmografia del regista austriaco.
Ma la cosa più bella è che il film al quale l'ultima opera di Haneke è più legato è proprio il suo primo, Il Settimo Continente.
E lo è grazie alla figura cardine del film, la bambina.
Come vi dicevo prima la somiglianza tra le bimbe dei due film è senz'altro voluta, lineamenti, età e distacco dalla vita.
Eve, la piccola di Happy End, è una bambina di 10 anni che sembra già completamente disillusa dalla vita e che compie gesti all'apparenza inumani.
Il prologo e l'epilogo (perfetta cornice) dimostrano di come lei guardi freddamente cose, anzi, le descrivi e le mostri agli altri, che in teoria nulla dovrebbero entrare con la sua età.
Uno spettatore superficiale (e quando si parla di bambini ne trovo sempre a decine e decine) la potrebbe vedere come una bimba fredda, anaffettiva, malvagia, morta dentro.
In realtà Eve è semplicemente una bimba che a quell'età ha già subito le cose che molti di noi subiscono in 40, 50 anni.
La morte del fratellino, la fuga del padre, vedere la mamma depressa e completamente disinteressata a lei, il padre traditore e senza spina dorsale, le chat (e meno male stamattina le ho lette, pensare che le abbia lette anche quella bimba cambia tutto il film) perverse del padre, la morte della madre.
E' una bimba che ha conosciuto solo morte, privazione di affetto e perversione.
E, come la bimba dell'esordio di Haneke, sembra quindi completamente disillusa, spenta, già consapevole che la vita può non regalarle nulla e che, volendo, la si può anche finire qua.

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E' un personaggio tragico, straordinario, umanamente commovente.
Ma anche lei, come la finta cecità della bambina del Settimo Continente, espediente per cercare affetto, in qualche modo crede ancora al futuro, alla piccola possibilità di essere voluta bene. Vedere la scena all'ospedale nella quale chiede disperatamente al padre di portarla con sè qualsiasi cosa accada (e che bellezza che lei, nella scena del gelato, aveva già capito tutto di lui).
"Tu non ami nessuno" dice la figlia al padre, "ma portami con te lo stesso".
Terribile.
Ma vedete, questo è un film che parla sempre di morte, anche senza che ce ne rendiamo conto.
La morte del criceto (e poi la bimba userà la stessa identica inquadratura per riprendere il neonato, suo nipote, brividi), quella del suo fratellino, quella di sua madre (credo che la scena che più mi ha gelato è quando la bambina va a trovare la madre in ospedale, entra 3 secondi e poi esce), quella sfiorata dall'operaio, la morte tanto desiderata dal nonno e quella che anche la bimba, ad un certo punto, ricerca.
E, soprattutto, la scena madre, quella del dialogo tra il patriarca e la bimba, grandissimo pezzo di cinema.
Abbiamo un essere umano di 10 anni e uno quasi di 90. Eppure sembrano avere una concezione della vita simile, sembrano capirsi e parlarsi "alla pari".
Entrambi hanno già ucciso o hanno provato ad uccidere, entrambi hanno già provato, o proveranno, a suicidarsi.
E c'è un racconto del nonno che può darci tutta la lettura del film.
Ma per far questo mi devo gettare a capofitto nel finale.
Finale che porta a due considerazioni secondo me molto interessanti.
La prima è quasi metacinema.
Per tutto il film abbiamo pensato che quel titolo, Happy End, fosse un'amara riflessione sulla morte, all'andarsene. Più precisamente al volersene andare, quasi un'eutanasia (che etimologicamente, dolce morte, richiama l'happy end).
E quando vediamo quella bimba portare il nonno nell'oceano ecco che il titolo prende forma. E invece no, e invece Haneke ci frega e quello che succede è veramente un happy end, ma un tipico happy end cinematografico, non metaforico.
Proprio quando avevamo avuto la certezza del significato del titolo Haneke ci mette dentro un vero happy end, scompaginandoci le carte.
Sapete, a me ha fatto venire in mente la scena di Funny Games in cui uno dei due maniaci muore e poi, rimandando indietro il nastro della telecamera, torna in vita.
Sono dei giochi che Haneke fa col cinema e con lo spettatore.

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Ma c'è anche un altro aspetto, molto più profondo.
Quel vecchio si fa portare lì, si fa lasciar solo. Eppure sembra non muoversi, non trovare il coraggio di andare avanti, di farla finita davvero.
Ma del resto anche il tentativo di suicidio con l'auto era fallito, forse perchè non troppo convinto.
E quante altre volte e in quanti altri modi avrebbe potuto tranquillamente uccidersi quel vecchio?
Bastava buttarsi giù dalla finestra.
Vedete, quel vecchio voleva morire, ma in realtà aveva una paura matta di riuscirci.
E allora torniamo a quello studio, quello studio in cui due esseri umani con 80 anni di differenza parlano di morte.
Il vecchio racconta la storia di un uccello.
Una cosa che ha visto con i suoi occhi, e non in un documentario.
La morte, straziante, di un volatile, dilaniato da un'aquila (mi pare).
Dice alla bimba che aver visto per la prima volta la morte coi propri occhi, e in modo così violento, non è la stessa cosa di sentirsela raccontare e vederla in tv.
La cosa lo atterrì.
Ed è qui l'anima di Happy End.
Uno degli istinti più atavici delle specie viventi.
La paura di morire.
La paura di farla finita.
Il desiderare la morte ma poi fermarsi sempre quel mezzo metro prima.
E restare lì, con una sedia a rotelle nell'oceano, magari chiudendo gli occhi, aspettando che accada qualcosa.
E se quello che accade, alla fine, sono due braccia che ti portano fuori è perchè, in fondo, quella è la cosa che desideravi di più, vivere.
Ma a volte desiderare di vivere pur facendo continuamente finta del contrario, e comunicarlo agli altri, è una cosa che ti blocca, di cui ti vergogni, che non vuoi dire malgrado è una cosa che ti urla dentro.
Come un ti voglio bene ai tuoi genitori, come un ti amo alla persona che ti fa battere il cuore, come tutte le cose belle che questa strana cosa che è l'essere umano, non si sa perchè, ha paura di fare

7.5 / 8

2 commenti:

  1. Paradossalmente, l'unico limite di questo film è che è proprio "puro Haneke". Insomma, per chi conosce Haneke è tutto già visto, non c'è davvero niente di nuovo. E' esattamente come te lo aspetti. Non ti sconvolge nè ti disturba più... almeno, su di me ha fatto questo effetto. Fermo restando, quello sì, che stiamo parlando di un signor film.

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    Risposte
    1. Verissimo.
      Infatti al tempo stesso notare così tanti rimandi è una cosa che ti "emoziona" (intellettualmente) e interessa ma anche il suo limite

      infatti anche io, pur dando un voto altissimo, lo considero tra i minori. Ma solo perchè ce ne sono 3,4 straordinari ;)

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due cose

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